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Massacri, stupri e sfollamenti di massa: la guerra nella Repubblica Democratica del Congo nel silenzio internazionale

27 Febbraio 2025 8 min lettura

Massacri, stupri e sfollamenti di massa: la guerra nella Repubblica Democratica del Congo nel silenzio internazionale

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1574 chilometri separano Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo da Goma, capitale della regione del nord Kivu. Poco meno della distanza tra Roma e Londra. Per percorrerli ci possono volere giorni considerata la condizione delle strade e i livelli di insicurezza. Siamo nello stesso paese ma quella enorme distanza si riflette in una netta cesura tra quello che è il governo di un paese grande quanto tutta l’Europa occidentale e quelle province “periferiche” che negli ultimi decenni sono praticamente ostaggio di gruppi militari e paramilitari. 

Occorre invece percorrere solo poco più di 160 chilometri per arrivare da Goma a Kigali, capitale del Rwanda. Il confine, ovviamente, è assai più vicino. Il sottosuolo della RDC è un concentrato di risorse e minerali preziosi. Rame, cobalto, coltan, uranio, diamanti, sono solo alcuni. Il Rwanda ha esportato negli anni scorsi molti più minerali di quelli che possiede. Minerali contrabbandati dalla RDC. Solo lo scorso anno secondo le Nazioni Unite, i ribelli che operano nella parte orientale del paese hanno esportato in modo fraudolento almeno 150 tonnellate di coltan in Rwanda. Mentre anche l'oro nell'Ituri (area nord-orientale del paese) continua ad essere sfruttato al di fuori del controllo statale, generando almeno 140 milioni di dollari all’anno a gruppi armati e reti criminali. Ricordiamo che nel maggio 2024, prima dunque della nuova offensiva cominciata a fine gennaio di quest’anno, l’M23 (di cui parleremo tra breve) aveva conquistato Rubaya (nord Kivu) una città mineraria chiave che produce il 15% del coltan mondiale. Non a caso la Global Initiative against Transnational Organized Crime ha definito le agende – dunque le motivazioni - dei gruppi armati nella parte orientale della RDC come “orientate al profitto”. 

E poi, c’è il fattore etnico. La rivalità, l’odio se vogliamo definirlo tale, tra hutu e tutsi che ha radici profondissime e che si fanno risalire tra l’altro alle divisioni operate prima dai tedeschi e poi dai belgi durante il periodo coloniale in Rwanda, si intrecciano con le aspirazioni politiche ed economiche dei leader di questi due paesi e vengono di fatto sfruttati come vessillo per nascondere interessi ben più materialistici. 

Se non si tengono a mente tutti questi elementi finora citati è impossibile districarsi tra le mille sfaccettature del conflitto in corso nella RDC. Conflitto che in realtà va avanti dagli anni Novanta del secolo scorso e che periodicamente si nasconde sotto la cenere (letteralmente, di tutte le case e villaggi distrutti e gente massacrata) per poi tornare più aggressivo e violento. 

Nel paese operano oltre cento gruppi armati (e questo fa capire la sostanziale debolezza o magari disinteresse del governo centrale) ma la vera battaglia si sta svolgendo tra il presidente della RDC Félix Tshisekedi e quello del Rwanda, Paul Kagame. Il primo accusa il secondo di sostenere materialmente e alimentare l’ideologia dell’M23, gruppo armato che agisce all’interno del più vasto gruppo politico-militare Alliance Fleuve Congo (AFC) e che nelle ultime settimane ha conquistato Goma, Bukavo, capitale del sud Kivu e altre città minori. Aree, va sottolineato, in cui quelle risorse minerarie così preziose, così maledette, abbondano. Dall’altro lato, Kagame accusa Tshisekedi di tollerare il gruppo Forces démocratiques de libération du Rwanda (FDLR) costituito anni fa da hutu che hanno partecipato o sostenuto il genocidio in Rwanda del 1994. Dal capo di Stato congolese Kagame esigerebbe mano forte perché questo gruppo, letale secondo Kagame alla vita e sicurezza dei tutsi rwandesi/congolesi, venga combattuto e annientato.

Ed ecco che siamo a quella che è la scintilla etnica sempre facile a prendere fuoco. Questo conflitto e rivalità tra i due paesi ha i suoi prodromi in uno dei più terribili e traumatici genocidi del secolo scorso, quello dei tutsi e hutu moderati da parte degli hutu. Tanto che alcuni considerano questa guerra come uno spillover del genocidio in Rwanda. Tra il 7 aprile e il 19 luglio 1994 un numero che rimane imprecisato, tra gli 800.000 e il milione di persone, rimasero brutalmente uccise, la maggior parte a colpi di machete, da una furia sanguinaria collettiva. Fu l’ingresso del Front patriotique rwandais, (FPR) partito fondato da tutsi in esilio in Uganda e con a capo un giovane Kagame a mettere fine al massacro. 

Per la paura di rappresaglie furono tantissimi i genocidari che confusi con quelli che fuggivano alla violenza attraversarono i confini orientali che uniscono il Rwanda alla RDC. Si “nascosero” nei campi profughi cominciando a progettare – sostengono dalla madrepatria - una contro-rivolta. Così, in un paese così enorme, complesso, caratterizzato da contrasti estremi, ricchezze enormi e povertà assoluta, si aggiungeva un altro pesante motivo di tensione. 

A proposito di povertà: la Repubblica Democratica del Congo – dati World Bank - è tra le cinque nazioni più povere del mondo. Si stima che, nel 2024, il 73,5% dei congolesi vivesse con meno di 2,15 dollari al giorno. Il settore minerario invece, continua a crescere e nel 2023 ha contribuito per oltre il 70% alla crescita complessiva del paese. L’agricoltura impegna il 60% della forza lavoro e la distruzione dei villaggi, delle terre, dei nuclei familiari che si è intensificata nelle ultime settimane ha costretto la gente a scappare e ovviamente a lasciare i campi, cosa che andrà ulteriormente ad alimentare il livello di povertà estrema. Insomma, una situazione angosciante. Qualche giorno fa il primo ministro congolese Judith Suminwa ha affermato che in circa un mese di battaglie almeno 7.000 persone sono rimaste uccise, la maggior parte sono civili, mentre almeno 2.500 corpi sono stati seppelliti senza essere identificati. 

Una sezione a parte nel capitolo delle violenze riguarda le donne. Ha fatto tremare i polsi, ma non agli autori di tali crimini, la notizia di almeno 165 donne violentate e bruciate vive (alcune insieme ai loro figli) nel carcere di Goma il giorno della presa della città, 27 gennaio. Ma la violenza sulle donne è un’arma impugnata da molti nella RDC, sia dai numerosi gruppi armati, sia dall’esercito regolare, le Forces Armées de la République Démocratique du Congo (FARD) e persino da coloro mandati nel paese a portare la pace. Risalgono già a molti anni fa le denunce di violenza sessuale perpetrata da membri delle missioni ONU, la MONUSCO è l’ultima in ordine di tempo in un paese che dal momento stesso della sua indipendenza, il 1960, ha visto schierate missioni e personale ONU più di ogni altro al mondo. La risposta alle denunce è stata qualche sospensione e la creazione di un’unità di controllo. 

I numeri oggi sono allarmanti: si calcola che più di 1,5 milioni di donne siano state vittime di stupro nella RDC. Secondo le testimonianze raccolte da Save the Children molti casi riguardano bambine. Particolarmente esposti sono i campi profughi, dove trovano rifugio migliaia di donne e bambini. Secondo dati del 2023, all’epoca più di un milione di persone era fuggito dai combattimenti nella parte orientale del paese, tra cui 500.000 bambini. In quel periodo sono stati documentati circa 800 casi di violenza sessuale nelle province di conflitto, una cifra probabilmente ben al di sotto della realtà a causa dello stigma e della paura che dissuadono le vittime dal testimoniare. Ma questo non riguarda solo il conflitto ma una mentalità diffusa. Secondo UN Women oltre la metà della popolazione femminile ha riferito di aver subito violenza fisica e quasi un terzo ha subito violenza sessuale, più comunemente da parte del partner. 

A questa barbarie non sfuggono neanche i bambini. Avviene per soddisfare istinti bestiali o anche come forma di “pagamento” per un po’ di cibo. Che sarà di loro quando diventeranno grandi? Da quale parte saranno: quella delle vittime o quella degli oppressori? 

Altra questione fondamentale è quella degli sfollati interni e dei rifugiati. A causa degli elevati livelli di insicurezza e della violenza su larga scala contro i civili, circa 5,6 milioni di congolesi sono sfollati interni, di questi oltre 4 milioni nelle sole province orientali del sud e nord Kivu e dell’Ituri. Nelle ultime due settimane almeno 40.000 persone hanno raggiunto il confinante Burundi, anche questo un paese che nei decenni scorsi ha vissuto le violenze etniche tra i gruppi hutu e tutsi e che ultimamente sta sperimentando un periodo di tranquillità che si spera non venga alterata da quanto sta accadendo nella RDC. 

La RDC – ricordiamo – confina con nove Stati e i confini sono ancora meno sicuri di quanto lo sia l’interno del paese. Cosa che non esclude ulteriori coinvolgimenti e apertura di fronti di battaglia. Mentre l’M23 ha già dichiarato l’intenzione di marciare verso Kinshasa. Insomma, un colpo di Stato dichiarato a gran voce. È stata forse la tensione a spingere il presidente Tshisekedi ad appellarsi direttamente al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump affinché acquisti dalla RDC i minerali grezzi di cui l’industria elettronica (tra le altre) ha assolutamente bisogno. È il nostro paese, dice, il vero proprietario di queste risorse che invece il Rwanda sta saccheggiando attraverso la violenza e usando i gruppi armati contro le popolazioni civili che hanno (a questo punto) la sfortuna di vivere in quei luoghi. 

In una posizione imbarazzante a questo proposito si trova anche l’Unione Europea che a febbraio 2024 aveva firmato una partnership con il governo rwandese sulla catena di sostenibilità delle materie prime in cui le parti si impegnano nella transizione verde e digitale. La domanda è: la tracciabilità dei minerali indispensabili per la transizione ecologica può essere assicurata in un territorio in gran parte occupato dai ribelli? Parliamo di quella stessa Unione Europea che l’anno prima aveva condannato con chiarezza le violenze nell’est della RDC da parte dei gruppi ribelli, M23 in testa. Ecco perché oggi c’è chi, come il Belgio, sta facendo una certa pressione affinché l’UE sospenda l’accordo con il Rwanda. Staremo a vedere. 

Intanto, il Regno Unito ha fatto sapere di aver ritirato gli aiuti economici al Rwanda ed Emmanuel Macron sta cercando di intensificare gli sforzi diplomatici tra i due paesi. Nei giorni scorsi, è arrivato nella RDC Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan. La sua missione è indagare sulle violenze in corso nelle zone di conflitto e occupate dall’M23. 

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Cerca di muoversi anche la diplomazia: tre ex leader africani a nome della Comunità dell'Africa Orientale (EAC) e della Comunità per lo Sviluppo dell'Africa Australe (SADC) sono stati nominati come “facilitatori” per cercare la strada per la pace. Si tratta dell’ex presidente kenyano Uhuru Kenyatta, l’ex primo ministro etiope Hailemariam Desalegn e l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo. L’obiettivo, hanno affermato, è un "cessate il fuoco immediato e incondizionato". Ma non dimentichiamo che ogni volta che si è arrivati ad un accordo umanitario, presentato appunto come una soluzione per alleviare le sofferenze della popolazione poi questi accordi sono sempre stati violati da una parte e dall’altra. 

La gente, più di ogni accreditato analista, sa che un cessate il fuoco tra la RDC e l’M23 non è sufficiente. Servirebbe una soluzione sostenibile a lungo termine che affronti le cause profonde di questo conflitto che nei momenti di pausa sembra solo raccogliere più forza, più alleanze e più rabbia per poi ricominciare. Ed è questa rabbia, unita alla smania per la ricchezza e per il controllo delle risorse che fa in modo che questo conflitto non abbia regole, nonostante gli appelli della comunità internazionale, non abbia limiti e non mostri alcuna pietà per cittadini inermi del cui destino non sapremo mai nulla. 

Immagine in anteprima: frame video DW via YouTube

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