La virtù di spaccarsi la schiena: Renzi e la retorica del merito
8 min letturaIl referendum sul reddito di cittadinanza è una grande operazione educativa e culturale. [...] Ai ragazzi va detto: studiate, provate, mettevi in gioco, poi se fallite vi diamo una mano ma rischiate. Se il messaggio è «non vi preoccupate, tanto lo Stato vi dà un sussidio, state a casa e poi eventualmente fate un lavoretto in nero, tanto non se ne accorge nessuno, così rimpinguate lo stipendio», se c’è questo messaggio è diseducativo. Io voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza perché voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela, se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi. I nostri nonni hanno fatto l’Italia spaccandosi la schiena, non prendendo i sussidi dallo Stato.
Così si è espresso Matteo Renzi ad Assisi, durante la presentazione del suo nuovo libro. Affermazione che arriva in un periodo in cui, anche a causa della pandemia, i dati sull’occupazione ci consegnano scenari drammatici, mentre, nella sua Firenze, si è da poco avuta una mobilitazione nazionale per i lavoratori della GKN.
Eppure il tempismo renziano, più che infelice, appare ideologicamente coerente. Nella sua imperturbabile tracotanza, che non viene toccata dall’avere il 40% o il 2% di consensi, Renzi è il sintomo di qualcosa molto più strutturale della sua persona e della sua ricerca di attenzione.
Sempre questa estate, a giugno, anche l’imprenditore Guido Barilla invitava i giovani a «rinunciare ai sussidi e a mettersi in gioco». Il che farebbe ridere, se solo si prova a immaginare il colloquio di Guido Barilla con l’azienda Barilla («Per cominciare ci dica qualcosa di lei»). Ma sarebbe superficiale pensare in termini di esperienze personali, senza il quadro più ampio dell’ideologia di riferimento che permette a Barilla di dire una frase del genere senza timore di apparire ridicolo.
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Pensiamo anche al recente, storico oro di Marcell Jacobs nei centro metri. Benché sia cittadino italiano per ius sanguinis (la madre è italiana), la sua vittoria è stata l’occasione per una tirata del presidente del Coni, Giovanni Malagò, a favore dello ius soli sportivo. Secondo questa logica, per gli sportivi stranieri dovrebbe essere più facile acquisire la cittadinanza italiana una volta superati i diciotto anni.
Gli inviti a “sudare”, a “mettersi in gioco”, l’assunto che le competenze e i talenti (come quelli sportivi) vadano premiati e non debbano incontrare ostacoli; l’idea che l’inattività, a prescindere dalla causa, sia una colpa individuale, così come il fallimento; il paternalismo neanche troppo mascherato; l’idea che per essere aiutati si debba quanto meno prima provare a far qualcosa, e che quindi non basti trovarsi in una condizione di bisogno, di necessità, ma si debba dar prova di meritare un aiuto. Possiamo vedere nella mappa di significati tracciata da questi esempi l’ideologia meritocratica e la sua retorica. Ovvero l’idea che si debba "premiare il merito".
In questa visione, la posizione sociale e i diritti di cui una persona gode sono funzionali ai risultati. Come spiegato, tra gli altri, da Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito, la meritocrazia utilizza e fa proprie parole che di per sé hanno un significato positivo o autoevidente. Chi vorrebbe del resto mettere a capo di un reparto ospedaliero un inetto? Tutti noi vorremmo che a guidarlo vi fosse la persona più competente a disposizione. Ma queste parole delineano un’ideologia dove la vita politica e i valori di riferimento coincidono con il modello economico. Così le competenze, la loro acquisizione e la loro valutazione sono tutti filtrati attraverso l’idea che l’uomo non sia cittadino, ma impresa. Come ci insegnò Margaret Thatcher, non esiste la società: esistono gli individui, la loro iniziativa singola che non può trasformarsi in agire collettivo.
Le competenze di cui sopra devono essere “utili”, assolvere a una funzione, produrre qualcosa che serva al sistema economico. Persino i morti sono semplificabili in un ruolo funzionale all’economia, riconducibili a rotella del sistema produttivo. Vi ricordate i morti di Brescia e Bergamo per COVID-19 che, ancora secondo Renzi, ci invitavano a riaprire?
Se non sono utili e spendibili nel “mercato del lavoro”, le competenze sono poco più di un orpello, qualcosa da sfoggiare. E qui entra in ballo uno dei principali problemi, ossia che il “merito” vede il sapere critico – e quindi la dialettica, il confronto, la cultura umanistica – come qualcosa che rallenta. Per acquisire competenze, ci insegna il sistema meritocratico, serve sudare in funzione di un obiettivo, e questo richiede prima di tutto l’accettazione passiva delle regole. Per cui tanto più l’intelligenza devia da questa strada dritta, tanto più viene osteggiata, persino ingiuriata.
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Si spiegano così, venendo a episodi ancora recenti, certe reazioni infastidite al discorso tenuto da tre neolaureate della Normale di Pisa, in occasione della cerimonia di consegna del diploma di laurea. Invece di svolgere il compito previsto dal cerimoniale, hanno usato quello spazio per evidenziare alcuni problemi dell’università. Per lanciare – orrore! – un messaggio politico. Eccezionale, a dispetto delle intenzioni dell’autore, il commento di Claudio Giunta sul Post, che ci mostra per l’appunto un altro aspetto dell’ideologia meritocratica: l’accettazione dello status quo elitario.
Giunta, infatti, rimprovera alle tre prima di tutto la presunzione di voler capire l’università e di poter esprimere un giudizio critico solo per averla frequentata «quattro o cinque anni»; ossia di non aver abbastanza competenze per esprimere un parere critico. Poi, tra i vari argomenti, fa presente quella che, secondo lui, sarebbe ipocrisia o contraddizione di fondo: «Se uno accetta di giocare a un gioco poi non deve lamentarsi quando si accorge che quel gioco ha regole difficili da rispettare».
L’università, nelle sue parole, è un club esclusivo, e far parte di un club esclusivo comporta l’accettare delle regole («la gara non si ferma, la selezione continua»). Anche questo è in linea con la visione meritocratica, perché l’acquisizione di competenze e la valutazione delle medesime richiede prima di tutto adesione allo status quo. Essere elitari e preservare lo status quo. In fondo, Giunta rimprovera alle tre studentesse, e ai giovani in generale, di non avere abbastanza competenze per esercitare una critica. Di essere consumatrici che pretendono di valutare i docenti.
Se il modello di riferimento è l’impresa e la continua valutazione della performance misura il successo, ecco che la meritocrazia ha nei disoccupati e in chi sfugge a questa valutazione le proprie nemesi. Per portare avanti le proprie politiche liberiste, Ronald Reagan evocava per esempio la figura della Welfare queen: la donna nera troppo pigra per lavorare, che preferiva stare a casa a vivere di rendita grazie ai sussidi.
In Italia va di moda ormai il pigro recettore di "reddito di cittadinanza". Di solito è meridionale, o è giovane, comunque indolente. È per l’appunto la figura evocata da Renzi nella citazione di apertura. Abbiamo poi anche i “furbetti del reddito di cittadinanza”, quelli che insomma, non è che sono soltanto pigri: sono disonesti proprio e sottraggono soldi. Ma le cronache sono piene di falsi invalidi, o pensioni d’oro, o furbetti del cartellino – lo statale, ovvero il lavoratore garantito per eccellenza, ovvero l’antitesi dello spirito imprenditoriale. Persone che abusano di diritti e che, attraverso la demonizzazione e la pubblica gogna, – quella forma di cancel culture socialmente accettata, perché promossa dallo status quo mediatico – permettono di attaccare ideologicamente i diritti. Sarà un caso, per esempio, che nei miti della cronaca italiana non trovino particolare spazio il “furbetto del cantierino” o il “furbetto della morte bianca” o “il furbetto del caporalato”.
Può sembrare folle, durante una pandemia, che ancora sia così dominante il volontarismo magico del “se vuoi, puoi”, “prima o poi i risultati si ottengono” e così via. Se c’è un evento che incarna la confutazione del successo come conseguenza delle proprie capacità, della disoccupazione come colpa individuale, è proprio la pandemia. La quale ci ha traumaticamente mostrato non solo che la società esista, ma che siamo tutti connessi in un modo che solitamente non percepiamo. Un governo scellerato dall’altra parte del mondo può per esempio agevolare la possibilità che emergano nuove varianti del virus, e vanificare gli sforzi compiuti da una nazione a noi vicina. La produzione e la diffusione dei vaccini attraverso la “mano invisibile del mercato”, le disuguaglianze che questa dinamica agevola, invece di premiare i virtuosi crea seri problemi nell'affrontare la pandemia a livello mondiale.
Ma per lo zelante meritocratico fermarsi significa fermare l’economia, e senza economia, senza un certo tipo di economia, il mondo è semplicemente impensabile. Si spiega così la tendenza a inquadrare salute e lavoro come una coppia in opposizione, come qualcosa tra cui scegliere. È solo avendo una scala di valori dove la produzione e il PIL sono in cima, che si può allora comprendere la logica del governo britannico, che inizialmente aveva pensato di poter puntare all’immunità di gregge, e che a ogni ondata ha sempre esitato prima di imporre il lockdown. “Meglio che i cadaveri si impilino piuttosto di un terzo lockdown” è una delle frasi che documenteranno ai posteri l’inumana gestione del primo ministro Boris Johnson. In altri tempi, sacerdoti di culti ben più pittoreschi della meritocrazia avrebbero considerato quelle pile sacrifici umani.
Non commettiamo l’errore, insomma, di credere che questa crudeltà sia un’eccezione. Se valutiamo tutto in termini di performance, di risultati, se il diritto diventa un premio da meritare, allora è spalancata la porta per ammettere pensieri solitamente sgradevoli, ammantandoli di apparente razionalità. Disabili, malati incurabili, anziani, neurodivergenti. Sono tutte categorie che gli oggettivi criteri meritocratici non possono considerare “sane”, e quindi perfettamente funzionanti e produttive, “curabili”. L’abbiamo vista all’opera in quest’ultimo anno, in fondo, una certa retorica secondo cui alla fine la maggior parte dei morti di coronavirus erano anziani. Ricordiamo su tutti l'eclatante tweet di Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, sui deceduti che erano «anziani non indispensabili».
Come evidenziato da Michael Sandel nel prologo a La tirannia del merito, c'è una contraddizione di fondo tra l'idea che nella pandemia «ci siamo dentro tutti» e le disuguaglianze sociali che permangono, o persino si aggravano. In particolare nella società americana, dove la possibilità di essere curati è strettamente legata al reddito e al successo professionale, questa apparente comunanza stride con l'idea che, nella piramide sociale, arrivare in cima o cadere verso i gradini più bassi sia il compimento di un destino. Tuttavia la favola del destino non regge, quando bisogna contare i morti su larga scala.
Ma abbiamo visto anche nel nostro paese che, se la comunanza del "ci siamo dentro tutti" si esprime attraverso la paura del contagio, e non attraverso una responsabilizzazione collettiva, eccoci ancora scissi in individui, o al massimo in nuclei familiari, pronti a cercare capri espiatori - il runner, l'insegnante che non vuole tornare in classe, la movida, e così via. Ed è forse anche per questo che un certo tipo di retorica, quando si appella al sudore, ai sacrifici, o invita a darsi da fare, appare più ripugnante del solito, perché pesando di più la mancanza di una collettività politica si è più esposti alla violenza ideologica del classismo.
Immagine in anteprima: frame video presentazione del libro di Renzi ad Assisi via Italia Viva