Per una regolamentazione delle piattaforme digitali
16 min letturaL’attuale situazione nell’ecosistema digitale è il risultato di un approccio di laissez-faire che ha permesso alle imprese private di occupare uno spazio che di fatto è pubblico.
L’autoregolamentazione, inizialmente partita negli USA dove l’autonomia imprenditoriale è un valore molto sentito, ha consentito di innovare velocemente l’ambiente, riducendo o esentando le imprese da oneri di controllo e da responsabilità per i contenuti immessi dagli utenti. Cosa di per sé positiva, avendo portato alla realizzazione di un ecosistema ricco di attori e prevalentemente non presidiato. Internet nasce come un luogo di comunicazione senza barriere, aperto a tutte le idee, un luogo di comunicazione orizzontale non più verticale.
Nel tempo, però, poche grandi imprese hanno letteralmente fagocitato gli attori minori, diventando semimonopolisti, e nel contempo eliminando fin dalla nascita possibili competitori.
Le grandi aziende hanno così potuto realizzare dei sistemi a costi ridotti o addirittura nulli (pagati dalla pubblicità sfruttando i dati degli utenti), e una user experience frictionless (senza attrito), eliminando ogni possibile ostacolo a una veloce e facile fruizione dei contenuti e partecipazione alle discussioni (vedi tasti like, share, la possibilità di accedere a diverse App e servizi tramite le stesse credenziali di accesso, ecc…). L’assenza di attrito, di difficoltà (“acquista con 1-click”) ha alimentato l’imbarbarimento delle discussioni online. A ciò si aggiungono altre problematiche, quali le fake news, la disinformazione politica, la pubblicità targhettizzata per influenzare le elezioni, l’abuso dei dati degli utenti, ecc…
L’ideale di una Rete aperta si è diluito nel tempo. Un numero crescente di paesi ha visto quest’impostazione con sospetto o aperta ostilità, portando a realizzare sottoreti più o meno controllate all’interno del territorio statale (es. Cina, Russia, Corea del Nord). La moltiplicazione dei problemi in Rete ha, alla fine, convinto anche gli Stati occidentali, più aperti, a seppellire progressivamente l’idea di uno spazio di comunicazione aperto, libero e senza confini.
La risposta governativa è stata per lo più strumentale. Piuttosto che preoccuparsi di regolamentare l’ecosistema digitale per tutelare i diritti dei cittadini ci si è incamminati in una direzione contraria:
- Da un lato si è cercato di imbrigliare il “potere” delle piattaforme di controllo del flusso delle informazioni.
- Dall’altro, si è favorito il consolidamento di poche grandi aziende del web.
Così come in passato si è fatto con i media tradizionali (Tv e giornali), sono stati imposti progressivamente degli oneri alle piattaforme del web, trasformandole in una sorta di super-editori al quale addossare le responsabilità della regolamentazione dei contenuti online (copyright, hate speech, terrorismo, fake news). L’intermediario tecnico (provider) diventa a tutti gli effetti l’intermediario sociale, in tal modo ricostruendo il “filtro editoriale” dei vecchi media ma in modo molto più pervasivo.
Il controllo del flusso di informazioni online è impossibile se l’ambiente digitale è pervaso da migliaia di attori in concorrenza tra loro, molto più semplice (nonostante la loro grandezza) se gli attori sono solo quattro o cinque aziende. Le poche normative che realmente impongono oneri alle piattaforme del web (es. obbligo di filtraggio, direttiva copyright) finiscono per creare indirettamente delle barriere all’ingresso del mercato di riferimento con ciò riducendo enormemente la possibilità di altri attori di emergere.
Al laissez-faire iniziale si sta progressivamente sostituendo l’incentivazione di sistemi di autoregolamentazione (es. codici di condotta). A livello comunitario come anche dei singoli Stati, si introducono sempre più norme settoriali che impongono alle piattaforme di “regolamentare” i contenuti online, per lo più senza alcuna indicazione di come e cosa regolamentare, lasciando alle piattaforme stesse il compito di valutare e giudicare. Si tratta di una vera e propria delega di funzioni statali.
Il classico esempio è in tema di copyright, laddove però in quel settore almeno esistono norme che stabiliscono cosa è lecito e cosa non lo è. Il problema casomai sta nello strumento utilizzato, cioè i software di filtraggio, incapaci di comprendere il contesto e quindi incapaci di distinguere realmente tra ciò che è illecito e ciò che è lecito. Il problema non è realmente preso in considerazione da parte dei legislatori, la direttiva copyright impone alle piattaforme un obbligo di rimozione disinteressandosi nella sostanza delle conseguenze di tale obbligo sugli altri diritti che insistono nell’ecosistema digitale.
Va molto peggio per gli altri “problemi” del web: hate speech, fake news. Alle piattaforme viene chiesto (es. hate speech) con sempre maggior forza di occuparsi del problema senza nemmeno fornire un’adeguata definizione del problema stesso (cosa è hate speech?), delegando alle stesse l’intero processo di regolamentazione.
A questo proposito è anche utile far notare che molte proposte partono da una mancanza di conoscenza del problema. Ad esempio, si dà per scontato che il pregiudizio e l’odio siano dei comportamenti devianti, ma gli studi contestano questa ipotesi. L’hate speech in realtà è connaturato all'uomo, la misoginia è radicata nella cultura occidentale, e quindi le molestie non possono essere combattute solo rimuovendo singoli contenuti. L’effetto è quello di spostare lo sporco sotto il tappeto, e di trasferire altrove l’hate speech. Sarà meno visibile ai cittadini (risultato perfettamente spendibile in campagna elettorale), ma il problema (il motivo alla base dell’hate speech) non viene davvero risolto.
La differenza dell’era tecnologica sta nel mezzo. Se un tempo era solo l’élite a poter diffondere il proprio pensiero (tramite la televisione e i giornali), oggi con Internet chiunque può farlo. L’élite, però, tende ad autoassolversi e a giustificare i propri discorsi d’odio (spesso utilizzandoli per contrastare il dissenso).
Il risultato di tutte queste dinamiche è l’incorporazione nell’ecosistema digitale delle strutture di incentivazione dei mercati. Di fatto un’azienda privata, che agisce per profitto, eserciterà la regolamentazione delegatagli dagli attori statali contemperando le sue esigenze economiche (piuttosto ché i diritti in gioco). Laddove ci sarà l’incentivo economico rimuoverà, ad esempio per non doverne rispondere (pagare multe e sanzioni) per conto dell’utente, e questo indipendentemente da ogni valutazione sull’impatto dei diritti fondamentali dei cittadini.
Anche in merito all’emergente problema della pubblicità politica (ma lì il problema è principalmente il microtargeting), nella quale si concentrano talvolta fake news e hate speech, l’approccio è meramente utilitaristico. Come abbiamo visto Facebook ha preferito esentare la pubblicità politica da valutazioni di ogni tipo, sostenendo che il discorso politico è importante e non si può sottrarlo ai cittadini. In realtà si tratta di una scelta puramente utilitaristica, perché è evidente a tutti che se la piattaforma avesse dovuto regolamentare la pubblicità politica, l’attore più bersagliato sarebbe stato proprio il Presidente degli Stati Uniti d’America.
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Di contro Twitter fa una scelta radicalmente opposta, e cioè di non pubblicare più pubblicità politica (in realtà Twitter ha delle scelte opinabili su ciò che è “politico”). Scelta che a ben vedere, appare semplicemente un modo per distinguersi dal concorrente Facebook (teniamo però presente che anche LinkedIn, Microsoft e Twitch non accettano pubblicità politica, per cui l'anomalia è Facebook). In realtà, la maggior parte della spesa pubblicitaria dei politici va a Facebook per cui Twitter non perderebbe granché.
Da questo episodio appare evidente che le piattaforme, come tutte le grandi aziende del resto, hanno generalmente la tendenza a mantenere buoni i rapporti con il governo in carica. Nello specifico, oltre a Trump, Bolsonaro in Brasile e Duterte nelle Filippine fanno ampio affidamento sulle pubblicità su Facebook per continuare a mantenere il potere, e sono attori che potrebbero escludere Facebook dal loro mercato locale.
I problemi dell’attuale modello di regolamentazione si possono così sintetizzare:
- Accordi a porte chiuse tra governi (Commissione europea) e aziende, oppure solo tra aziende (codici di condotta) senza la partecipazione dei cittadini (associazioni di rappresentanza).
- Delega alle aziende che può portare ad una compressione dei diritti dei cittadini o anche a violazioni della normativa anticoncorrenziale (rimozione di contenuti di concorrenti).
- Inesistenza o inefficacia di strumenti di impugnazione delle decisioni aziendali;
- Inesistenza di definizioni certe delle categorie di contenuti da rimuovere (es. terrorismo, hate speech), così un aiuto umanitario in territorio di guerra può essere considerato atto di terrorismo e rimosso.
- Possibile cancellazione di elementi di indagine.
- Promozione della contronarrazioni, lasciando alle aziende un vero e proprio potere editoriale di modificare il flusso delle notizie.
- L’impressione è che alla Commissione europea non interessi cosa si rimuove ma solo quanto si rimuove.
- Possibile criminalizzazione del dissenso politico quale discorso d’odio.
- Imponendo obblighi legali si rischia che l’applicazione sia estesa a tutti i contenuti “incerti”.
Internet come spazio unico e indivisibile
Ma Internet, come diceva Stefano Rodotà già nel 1998, non è solo uno spazio economico, ma è anche spazio sociale, spazio politico, spazio simbolico che permette nuove forme di rappresentazione del sé, incide sull’identità e consente nuove forme di espressione. Tutti questi spazi, avvertiva Rodotà, non sono separati né separabili, non si può pensare Internet sezionandola.
L’errore è di vedere i vari spazi come separati e quindi applicare normative o regolamentazioni settoriali (es. la normativa sul copyright) senza valutare l’impatto che si ha sugli altri aspetti dell’ecosistema digitale (es. privacy o libertà di espressione). Internet è una rete, "per cui noi non possiamo pensare lo spazio economico di Internet come a qualcosa di separato; pensare alle regole del commercio elettronico senza perciò riflettere sugli effetti che tutto ciò potrà produrre, ad esempio su Internet come spazio sociale, su Internet come spazio pubblico per definizione. Dobbiamo trovare quindi non solo regole specifiche per ciascuno di questi spazi, ma regole di compatibilità, che impediscano ad esempio alla dinamica economica che prende sempre più forza nella rete di oscurare, non voglio dire di cancellare, le potenzialità di Internet come grande spazio pubblico di confronto e di discussione”.
Gli attori governativi si sono preoccupati di regolamentare le dinamiche economiche, ad esempio per impedire che qualcuno “rubi” i contenuti nella titolarità dei grandi produttori di contenuti (in tal modo delegando la funzione giurisdizionale ad un privato), senza però chiedersi né preoccuparsi dell’impatto sui diritti fondamentali della rete. E adesso si stanno affacciando nuove e più stringenti regolamentazioni (es. il Digital Service Act che regolamenterà le piattaforme del web) che sono mosse dallo stesso intento: settoriale, economico.
Del resto l’intera impalcatura europea, il Digital Single Market è alla base di tutte le regolamentazioni europee. Lo stesso GDPR, il regolamento per la protezione dei dati personali nasce per motivi economici, in particolare, compreso che i cittadini hanno timore di usare i servizi digitali non sapendo “che fine fanno i loro dati”, la realizzazione di un framework normativo che, almeno all’apparenza, riporta l’utente al centro del trattamento (in realtà al centro vi è il titolare), instilla maggiore fiducia e favorisce la crescita dei servizi digitali. L’incentivo è anche qui economico.
Ad esempio, nel regolamento n. 679/2016 si lascia sostanzialmente agli Stati membri (art. 85) il compito di riconciliare il diritto alla protezione dei dati personali con la libertà di espressione, con ovvie problematiche di differente attuazione del compito medesimo. Inoltre, lo stesso articolo obbliga gli Stati membri a riconoscere specifiche eccezioni "ai fini del trattamento effettuato a scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria". Cioè sono imposti obblighi relativi ad eccezioni che di fatto riguardano categorie privilegiate e professionalizzate, senza alcun effettivo riferimento alla "libertà di espressione" in senso lato. In tale ottica il tweet su un meccanico disonesto, la recensione di un prodotto oppure la critica ad un venditore di Amazon, non ricadono nelle esenzioni previste.
Il risultato è la privatizzazione della sfera pubblica consentendo, al contempo, di esternalizzare i costi sociali, economici e democratici.
Problemi dell’ecosistema digitale
I problemi che si stanno accumulando nell’ecosistema digitale, anche a causa di una regolamentazione sbagliata, sono principalmente questi:
- Declino dell’affidabilità delle informazioni.
- Indebolimento delle istituzioni democratiche.
- Fino a possibili minacce all’integrità dello stesso sistema elettorale.
- Distorsione del mercato dovuta all’aumento del comportamento monopolistico.
L’affidabilità delle informazioni, una volta strettamente legata all’autorevolezza della fonte (il media) è ai minimi storici. Non è questo il luogo per un’analisi del fenomeno, ma appare evidente che una serie di dinamiche concorrono a questo risultato.
Il passaggio al digitale è stato traumatico per tutte le grandi aziende che operano al di fuori del Web. Ancora oggi si continuano ad ascoltare anacronistici elogi della “carta” in contrapposizione al Web, come fossero due cose separate e non due “mezzi” (media) sui quali veicolare lo stesso contenuto (casomai con modalità differenti per sfruttare le caratteristiche proprie del mezzo) per raggiungere target anche differenti (i giovani si informano più sul Web, gli anziani attraverso Tv e giornali).
Nell’approcciarsi al Web gli editori hanno preferito utilizzare il modello di business pubblicitario che ha fatto progressivamente emergere dei problemi importanti e mai veramente risolti, in particolare il giornale si è trasformato da venditore di contenuti (informazioni) a intermediario per vendere un pubblico a un inserzionista. In questa modo si è progressivamente trasformato, finendo per adattare i contenuti al modello di business: gli articoli sono sempre più scandalistici, sensazionalistici, mai approfonditi (perché spendere in inchieste?), perché servono per vendere pubblicità (o propaganda, pubblicità politica), non più per informare. Il declino dell’affidabilità delle informazioni è principalmente una conseguenza del modello di business tossico utilizzato, la cui immediata conseguenza è che l’autorevolezza del giornale ormai deve dipendere da un attore terzo e separato, quale ente certificatore (es. per le fake news). L'impressione è che i giornali che sopravvivono meglio sono quelli che hanno come scopo principale l'amplificazione della propaganda politica.
Il declino dell’affidabilità delle informazioni ha una conseguenza diretta e immediata sull’opinione pubblica, in quanto l’intero processo democratico si basa sulle informazioni che raggiungono il pubblico. L’esercizio della sovranità popolare non si può ridurre alla scelta di un simbolo di partito tra 3 già preconfezionati, oppure al ricorso al voto elettronico una tantum, ma è qualcosa di molto più complesso che deve inglobare:
- Capacità critica di uso del mezzo (quindi alfabetizzazione informatica che dovrebbe essere compito dello Stato tramite il sistema educativo).
- Possibilità di ricevere informazioni per formarsi un’opinione sui fatti rilevanti per la società.
- Possibilità di esprimere la propria opinione e partecipare al dibattito pubblico (possibilità non esercitabile tramite i media tradizionali, ma solo tramite i nuovi media, e per questo la tecnologia digitale viene talvolta demonizzata dai politici, in quanto è l’unica che li espone a vere critiche).
- Strumento di coesione e di organizzazione per l’esercizio dei diritti (es. diritto di assemblea e sciopero).
Sempre nel 1998, Stefano Rodotà avvertiva del rischio dell’impoverimento della democrazia tramite il ricorso agli strumenti elettronici. Il referendum elettronico può facilmente diventare “null'altro che la via alla manipolazione della partecipazione politica, il passaggio da una democrazia dei cittadini a una democrazia del plebiscito, in cui i cittadini saranno magari nevroticamente chiamati a votare tutti i giorni, ma esclusi dai processi di elaborazione politica”.
Non è un problema del mezzo, ma un problema di chi sceglie di servirsene in questo modo, come non sono gli “algoritmi” a distruggere i posti di lavoro, ma sono i datori di lavoro che scelgono di servirsene in modo da eliminare il fastidio di lavoratori che possono ammalarsi, protestare e scioperare. Il cittadino che riceve informazioni distorte e manipolate, e che vede il suo apporto alla società svilito e sminuito tramite “referendum” irrilevanti, è in realtà estromesso dalla società, quando invece i nuovi media consentirebbero di inserirlo direttamente nell’intero processo formativo delle leggi, fin dalla fase di proposizione e discussione. È ovvio che perché tale funzione non sia deleteria occorre che vi siano delle regole che impediscano gli abusi del sistema e la manipolazione dello stesso, a partire dalle informazioni che veicolano i media (tv, giornali e Internet).
Cosa fare
La situazione rende ormai indifferibile realizzare una qualche forma di governance dell’intero ambiente digitale, e in particolare delle piattaforme online. Le proposte sono già molte, e alcune di esse in fase avanzata di discussione.
Ad esempio, Article 19, una delle principali organizzazioni internazionali sulla tutela della libertà di espressione, ha proposto il Social Media Council, un forum che fornirebbe un meccanismo di responsabilità multi-stakeholder per affrontare la moderazione dei contenuti sulle piattaforme di social media. Si tratterebbe di un approccio volontario ma vincolante. Il progetto prevede una serie di SMC nazionali e regionali, incaricati di fornire una guida generale alle piattaforme di social media e di decidere i reclami individuali degli utenti, operando sulla base di standard legali internazionali, in materia di diritti umani. Un SMC nazionale (o regionale) garantirebbe, inoltre, una sufficiente vicinanza alle problematiche specifiche.
Il punto fondamentale riguarda, ovviamente, le “regole” da applicare. Vi è un generale consenso che il framework normativo sui diritti umani sia adeguato, ma è ovvio che nell’applicazione pratica ci sono diversi modi che possono differire da caso a caso. Il SMC potrebbe, quindi, riferirsi direttamente alla giurisprudenza della Corti internazionali a nazionali, oppure si potrebbe adottare un codice specifico a partire dagli standard internazionali. In entrambi i casi si garantirebbe un certo margine di apprezzamento e una certa flessibilità nell’applicazione (tenendo, ad esempio, conto delle differenze tra i vari social network).
Altro punto di discussione è se i SMC debbano fornire solo consulenza (elaborando raccomandazioni o osservazioni) o assumere un ruolo di giudicante (quale giudice di appello, ad esempio). Ovviamente sarebbero necessarie regole procedurali chiare e trasparenti. Il progetto è attualmente in consultazione fino a fine novembre 2019.
Esistono altre proposte, ma vi è una evidente convergenza su una serie di elementi:
- Evitare gli approcci solamente legislativi, che spesso comportano sanzioni sproporzionate e un impatto negativo sulla libertà di espressione.
- Evitare di lasciare alle piattaforme l’autoregolamentazione dell’ecosistema digitale.
- Ripristinare la fiducia degli utenti tramite trasparenza e responsabilità.
- Realizzare una regolamentazione efficace ma flessibile e adattabile alle realtà specifiche (es. minoranze).
- Garantire che la moderazione sia fatta sulla base degli standard internazionali in materia di diritti umani (piuttosto che in base ad esigenze economiche).
Il punto fondamentale è quest’ultimo. Ne ha già parlato ampiamente Fabio Chiusi, citando il rapporto del relatore speciale dell’ONU per la libertà di espressione, David Kaye (che supporta il progetto di Article 19). È vero che i diritti umani sembrano troppo generici per una applicazione, ma in realtà negli anni un’ampia giurisprudenza delle Corti internazionali e nazionali ha fissato dei confini abbastanza chiari e definizioni circoscritte. Si tratta solo di sfumare le differenze esistenti tra le interpretazioni nazionali sulla base della giurisprudenza della Corte per i diritti umani (CEDU).
Quello che occorre tenere presente è che i diritti umani non sono un framework per tutelare il singolo da ciò che non gli piace o non gli aggrada. Se esiste un diritto alle molteplici opinioni, non esiste un diritto a molteplici realtà. I diritti umani sono un framework che tutela l’essere umano all’interno della formazione sociale, e quindi non può essere utilizzato per smantellare la società con la scusa di proteggere, ad esempio, il diritto a propagandare ideologie totalitarie e antitetiche alla società stessa. Inoltre, il framework normativo sui diritti umani è principalmente un modo per tutelare i cittadini dalle intrusioni del loro stesso governo. Quindi il governo non può utilizzare queste norme per limitare i diritti fondamentali del cittadino in nome della tutela di interessi economici (es. copyright) o per silenziare il dissenso (di fatto è l'argomento principale dei politici quando parlano di Internet).
Conclusioni
Oggi, la discussione sulla regolamentazione delle piattaforme del web viaggia tra due estremi.
Da un lato, chi ne sostiene l’imbrigliamento, sostanziato in obblighi di rimozione e eliminazione delle esenzioni da responsabilità, rendendo le piattaforme responsabili direttamente per qualsiasi cosa pubblichino i loro utenti, fino a giungere a idee (piuttosto retrò in verità) di smembramento delle stesse per eccessivo potere. Quest’ultima idea in realtà ha uno specifico fondamento e Tim Wu ci ha scritto profusamente (Tim Wu, The curse of bigness) chiarendo che la “grandezza” delle aziende, se non porta di per sé ad un’alterazione delle dinamiche del mercato (e quindi a danni effettivi per i consumatori, anzi spesso i consumatori ne ricevono benefici perché un’azienda in regime di monopolio può, dopo aver eliminato i concorrenti, anche eventualmente abbassare i prezzi) però può comportare comunque una modifica dei processi di formazione delle leggi. Una grande azienda, infatti, ha il potere di orientare gli stessi politici anche senza scadere in una vera e propria corruzione.
Dall’altro lato, ci sono coloro che ritengono che la regolamentazione statale può determinare danni, specialmente per l’innovazione, e quindi è preferibile lasciar fare alle aziende. L’auto-regolamentazione sul lungo periodo dovrebbe, secondo loro, portare i benefici attesi.
Negli anni sessanta una discussione simile si avviò in tema di regolamentazione della televisione. Un media che ci illuse di una libertà conquistata, dell’ampliamento della comunicazione e del dialogo. L’illusione si è spenta proprio per l’assenza di un quadro regolatorio adeguato che ha fatto nascere e prosperare pure logiche di mercato. Come con Internet, questo non aveva a che fare con la tecnologia, ma con ciò che siamo e ciò al quale noi diamo priorità. Qualsiasi libertà, ce lo ricorda ancora Rodotà, “ha sempre bisogno di un quadro istituzionale non che la protegga, ma che consenta ad essa di rimanere al riparo dai molti attacchi che alla libertà possono essere portati anche senza una volontà censoria” (ad esempio, per motivi economici).
Le piattaforme infrastrutturali hanno il merito di aver reso il web “invisibile” ai più, consentendo a tutti di poter usufruire facilmente di queste nuove tecnologie e delle informazioni che veicolano in maniera semplice e accessibile. Ma anche se non sono tecnicamente “editori” (e mai potranno esserlo) perché non “leggono” i contenuti che veicolano, comunque applicano ad essi una serie di regole, filtri e controlli, tali da alterare (manipolare) il flusso delle informazioni. E queste manipolazioni sono sempre più richieste direttamente dagli attori governativi a fini di “pulizia” del web o per fini strumentali.
Pensare, e regolamentare queste nuove piattaforme come fossero giornali e Tv è un grave errore (pensiamo che Google sta creando un intero quartiere a Toronto). Sono qualcosa di molto diverso, ma generalmente sono servizi al pubblico mossi dal profitto, guidati spesso dalla pubblicità, e come tali dovrebbero essere regolati. Le piattaforme non tendono a regolare i contenuti come un editore, ma tendono comunque a imporre una propria visione del mondo che è funzionale al loro business. Hanno una visione della vita pubblica che è costantemente ricordata e pubblicizzata, e nel contempo anche imposta tramite le loro regole (i TOS). Sia essa la “comunità” o la “connessione”, connettere miliardi di persone è una mission oppure un modo per modificare la società stessa?
Queste aziende hanno i loro termini di servizio, le loro regole, le loro “parole”, le loro definizioni che difendono e che non necessariamente corrispondono alle definizioni normalmente utilizzate. La “privacy”, tanto per fare un esempio, non è necessariamente quella che noi intendiamo, laddove per queste aziende significa che i dati degli utenti sono tutelati finché si trovano nella mani dell’azienda stessa. Al di fuori loro non garantiscono.
Non dobbiamo commettere l’errore di chiederci quale è l’impatto di queste piattaforme sulla nostra società, come se fossero due cose separate, come se esistesse l’online e l’offline (la carta e il digitale), queste piattaforme sono la società perché formate da milioni di persone che sono la società. Si differenziano per tante cose (come la Tv si differenzia dai giornali), ma sono parte integrante della società. E come tali devono essere regolate. Allora i principi da utilizzare per regolamentare sono quelli pubblici, fondati sulla responsabilità democratica. Se sono formate da persone, allora è fondamentale che la regolamentazione tenga conto di questo fatto e qualsiasi regolamentazione non deve cancellare i diritti delle persone, ma tenerli in debito conto e tutelarli.
In conclusione dobbiamo evitare regolamentazioni che:
- Partono da idee sbagliate su cosa è e come funziona il digitale.
- Cerchino di fermare il cambiamento.
- Lascino alle aziende di definirne i termini.
- Si preoccupino solo dell’aspetto economico.
E, soprattutto, sta a noi decidere se questo processo di regolamentazione, ormai indifferibile, debba essere un processo da realizzarsi nelle chiuse stanze del potere oppure se debba diventare un processo corale e realmente partecipato.
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