Le famiglie che trasformano il dolore privato in lotta per i diritti umani
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In Argentina le chiamano le irregolari. Sono le madri e le nonne (le abuelas) di Plaza de Mayo che si sono rifiutate di soccombere al lutto e sono scese in piazza per urlare e chiedere verità e giustizia per i loro cari fatti sparire, torturati e uccisi dalla polizia della dittatura militare (1976-1983). La loro storia inizia il 30 aprile 1977, quando sedici donne, madri di ragazze e ragazzi desaparecidos durante il golpe si incontrano nella piazza principale di Buenos Aires per chiedere notizie dei loro figli. Da quel giorno, ogni giovedì le donne si sono ritrovate sempre più numerose per manifestare di fronte alla Casa Rosada, la sede del governo, chiedendo notizie dei propri figli. Una lotta che è nata dal basso ma è stata simbolo della resistenza argentina contro la dittatura del paese, affermatasi con il golpe il 24 marzo 1976.
Nel 2003, durante il Discorso all’ONU del 25 settembre, l’allora neo presidente peronista, Nestor Kirchner, ha affermato di far parte di una ‘generazione decimata’ e si è dichiarato ‘figlio’ delle Madres e delle Abuelas: si deve alla sua presidenza il percorso di “necessaria riconciliazione nazionale”.
Quello che fa Kirchner fra il 2003 e il 2007, è annullare il decreto che impedisce l’estradizione dei militari per i processi all’estero. In questo modo ottiene dal Congresso che le leggi d’impunità siano annullate e consente così la riapertura dei processi contro centinaia di militari e di civili sino ad allora rimasti impuniti. Nel frattempo, continuano le iniziative dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti nella ricerca della Verità e nella promozione della Memoria.
Le irregolari, dicevamo. E gli irregolari. Da pochi giorni abbiamo tra i nostri cittadini un nuovo irregolare, si chiama Gino Cecchettin. Sua figlia Giulia è stata uccisa lo scorso 26 novembre dall’ex fidanzato e lui ha accettato inviti a trasmissioni come Che tempo che fa per parlare di patriarcato e violenza sulle donne ed è stato per questo fortemente – e molto stupidamente – criticato. Frasi del tipo “ci vorrebbe un po’ di silenzio” sono forse quelle che mi hanno colpito di più, molto di più dell’insulto vero e proprio. A chi può fare paura questo tipo di rumore?
Rumore, molto rumore, lo fanno Claudio Regeni e Paola Deffendi, i genitori di Giulio, il ricercatore ucciso in Egitto a gennaio 2016. Il 13 dicembre scorso hanno inaugurato a Torino la prima panchina gialla e la 111esima in Italia. A ospitarla è stato lo storico Circolo Risorgimento, che da anni lavora sul territorio in una delle zone più difficili di Torino, creando aggregazione e punti di ritrovo per anziani e giovani del quartiere. A dipingere la panchina sono state le bambine e i bambini che fanno parte del progetto Mappature Utopiche.
Il rumore della famiglia Regeni ha portato all’avvio del processo contro i 4 imputati accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio. Il processo si è reso possibile dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 27 settembre scorso che ha dichiarato illegittimo l’art. 420-bis comma 3 del codice di procedura penale perché sarebbe incostituzionale non avviare un procedimento giudiziario contro persone accusate di atti di tortura «quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo».
«L’assenza degli imputati non ridurrà il processo ad un simulacro - ha assicurato il pm romano Colaiocco - Poter ricostruire pubblicamente in un dibattimento penale i fatti e le singole responsabilità corrisponde ad un obbligo costituzionale e sovranazionale. Un obbligo che la Procura di Roma con orgoglio ha sin dall’inizio delle indagini cercato di adempiere con piena convinzione». L’avvio del processo avverrà il 20 febbraio 2024.
Ho riflettuto molto prima, durante e mentre scrivevo questo articolo sull’incontro con i Regeni e l’avvocata Ballerini, rifletto sempre sulle frasi che vengono pronunciate, sulle parole sbagliate che possono provocare dei danni irreparabili. Giulio Regeni era un ricercatore ed è di fatto un morto sul lavoro. Per anni la stampa italiana l’ha chiamato studente, ragazzo, quasi a sminuire il lavoro sul campo che stava svolgendo. Sminuirlo per poi colpevolizzarlo perché questo è un paese che colpevolizza le vittime, da sempre.
Sul sito della Farnesina 'Viaggiare Sicuri', alla sezione Egitto c’è questo avvertimento:
“I connazionali che si recano nel paese per motivi professionali, di studio o turistici, devono essere pienamente consapevoli di tale contesto generale, così come dei rischi di detenzione o di altre misure coercitive connesse alla partecipazione ad attività politiche o anche soltanto a discussioni potenzialmente ricollegabili al contesto politico interno, come dimostra l’omicidio di Giulio Regeni. Come noto, nel 2016, è stato rinvenuto, vicino al Cairo, il corpo del giovane ricercatore italiano, torturato e barbaramente ucciso. La partecipazione a manifestazioni politiche non autorizzate è punita severamente. Si raccomanda pertanto ai connazionali in viaggio nel paese di non partecipare o comunque di non avvicinarsi ad eventuali proteste di piazza e, più in generale, di astenersi da dichiarazioni di carattere politico, anche tramite i social media. La legislazione locale è molto rigida nei confronti di attività reputate “sovversive” o ritenute, in qualche misura, tali da minacciare la stabilità dello Stato. Si tratta di reati che prevedono pene detentive molto severe ed il ricorso a periodi di carcerazione preventiva (fino a un massimo di due anni), in attesa del processo”.
Quasi un “non andartela a cercare”, una giustificazione della gratuita violenza di uno Stato su un libero cittadino che soggiornava a Il Cairo per motivi di lavoro. E allora torniamo a questi genitori, fratelli, sorelle irregolari che non scelgono, come tradizione vorrebbe di vestirsi di nero e chiudersi nel silenzio della propria casa, ma decidono di colorarsi di giallo e uscire, incontrare persone, chiedere giustizia non solo per il proprio figlio o figlia, fratello o sorella, ma per tutti coloro che hanno subìto o subiranno il loro destino. Trasformano il loro dolore in una lotta continua per i diritti umani di tutte e tutti e aprono gli occhi su nuova realtà. E a noi non resta che camminare a fianco a loro, urlando con loro, imparando ogni giorno da loro. Ogni istante.