Il referendum e il futuro della democrazia in Turchia
7 min letturadi Angelo Romano e Andrea Zitelli
Evet (Sì) o Hayır (No)? Il prossimo 16 aprile si terrà in Turchia il referendum costituzionale per approvare o bocciare diciotto emendamenti alla Costituzione turca. Le modifiche sono state proposte dal partito di governo AKP (conservatore) insieme al partito nazionalista (MHP) all’opposizione. La votazione si svolgerà sotto lo stato di emergenza (SOE), entrato in vigore dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso (in cui morirono più di 200 persone) ad opera di una parte delle forze militari turche. Il referendum, scrive Kareem Shaheen sul Guardian, potrebbe rappresentare il cambiamento politico più significativo da quando è stata dichiarata la Repubblica turca nel 1923.
Cosa prevede il referendum
La riforma costituzionale prevede di cambiare il sistema istituzionale della Turchia da parlamentare a presidenziale. Tra i 18 emendamenti alla Costituzione, i principali prevedono:
Le ragioni del Sì
Secondo la campagna per il «sì» la riforma sarebbe necessaria per ottenere una stabilità politica. Il sistema presidenziale, infatti, secondo i sostenitori del “Sì” permetterà decisioni più rapide, la riduzione del rischio di crisi politiche e una solidità che consentirà di fronteggiare il terrorismo, la minaccia dell’Isis e la questione curda.
Secondo Recep Erdoğan, presidente della Repubblica, infatti, l’attuale sistema porta a formare governi di coalizione deboli che non hanno i numeri e la forza per decidere. La vittoria del “Sì” significherebbe quindi il superamento di una costituzione ritenuta antiquata, redatta sotto il governo militare, prodotto di un “esecutivo a due teste”, con poteri in conflitto. Chi voterà contro i cambiamenti, ha affermato il presidente turco, rafforzerà i nemici della Turchia: «Chi dice di no? Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Chi dice di no? Coloro che vogliono dividere questo paese. Chi dice di no? Coloro che sono contro la nostra bandiera».
Le ragioni del No
Coloro che invece si oppongono alla riforma costituzionale – tra di essi ci sono il partito di centro-sinistra CHP e quello di sinistra popolare democratico (HDP) – affermano che con le modifiche previste ci sarà troppa concentrazione di poteri nel futuro presidente turco. Zia Wiese su Politico.eu raccontava come tra gli oppositori della riforma durante la campagna referendaria ci sia stato timore per pressioni, minacce e intimidazioni, anche dopo il caso di İrfan Değirmenci, conduttore televisivo e giornalista turco, licenziato dopo che su Twitter aveva manifestato le ragioni del “No”.
1-Bilim insanını, sanatçıyı, yazarı, çizeri, öğrenciyi, işçiyi, çiftçiyi, madenciyi, gazeteciyi, itaat etmeyen herkesi düşman bilene #Hayır
— irfan Değirmenci (@degirmencirfan) February 10, 2017
«Negli ultimi sette anni, ho espresso su Twitter opinioni su questioni come i diritti umani o le proteste anti-governative a Gezi Park nel 2013. Ma questa volta, il capo mi ha chiamato, dicendomi detto: “Non vogliamo più lavorare con te”», racconta Değirmenci alla BBC. L’emittente britannica racconta come la demonizzazione del “No” in vista del voto del 16 aprile abbia raggiunto livelli assurdi. Melih Gökçek, il sindaco di Ankara, ad esempio, ha twittato che tutti i “traditori dicono ‘no’”.
HAYIR DİYENLERE KİMSE HAİN DİYEMEZ...BU BÜYÜK HAKSIZLIK OLUR..
AMA HAİNLERİN HEPSİ DE HAYIR DİYOR...BU DA DOĞRU TESPİT.
VAR MI İTİRAZI OLAN?— İbrahim Melih Gökçek (@06melihgokcek) February 21, 2017
Il contesto politico turco e internazionale in cui si inserisce il referendum
Il referendum, come scritto, si svolge sotto lo stato di emergenza. Una situazione politica e sociale difficile. Secondo i dati dell’osservatorio indipendente Turkey Purge, dal giorno del fallito colpo di Stato sono state licenziate circa 130mila persone (tra cui migliaia di docenti universitari e giudici), chiuse scuole, dormitori, università e diversi media e arrestate migliaia di persone, tra cui oltre 160 giornalisti, scrive Arzu Geybullayeva su Global Voices. La maggior parte delle persone colpite dalle autorità turche, spiega ancora Geybullayeva, è stata collegata alla rete di Fethullah Gülen, il religioso musulmano auto-esiliatosi negli Stati Uniti nel 1999, accusato dal governo turco di aver fomentato i disordini del luglio scorso. Per anni alleati, Erdoğan ha rotto con Gülen nel 2013, dopo gli scandali di corruzione che coinvolsero alcuni ministri del suo governo. Il presidente turco accusò i seguaci del religioso di aver intercettato i suoi telefoni, falsificato le prove a suo carico e creato uno “stato parallelo”. Il tentato colpo di Stato di luglio 2016 non sarebbe stato altro, secondo Erdoğan, che la legittimazione dei sospetti del 2013, scrive BBC. Le agenzie di intelligence dell’Unione europea e la Germania continuano a nutrire dubbi sul fatto che ci sia Gülen dietro il tentato golpe e la Turchia non è riuscita ancora a ottenere la sua estradizione dagli Stati Uniti.
Secondo gli avversari di Erdoğan, riporta il Guardian, l’epurazione degli autori del colpo di stato si è trasformata in una caccia alle streghe contro ogni opposizione politica. Il commissario del Consiglio d'Europa per i diritti umani, Nils Muižnieks, proprio riguardo la situazione della libertà di stampa e di espressione in Turchia, ha dichiarato lo scorso febbraio:
Lo spazio per il dibattito democratico in Turchia si è ridotto in maniera allarmante in seguito all’aumento della persecuzione giudiziaria di grandi strati della società, compresi i giornalisti, parlamentari, accademici e cittadini comuni, e all'azione del governo che ha ridotto il pluralismo, portando all'auto-censura. Questo deterioramento è avvenuto in un contesto molto difficile, ma né il tentato colpo di Stato, né altre minacce terroristiche affrontate dalla Turchia possono giustificare misure che violano la libertà dei media e sconfessare lo stato di diritto fino a tal punto. Le autorità dovrebbero cambiare con urgenza rotta con una revisione della normativa criminale, ri-sviluppare l'indipendenza giudiziaria e riaffermare il loro impegno per proteggere la libertà di parola.
A tutto ciò si aggiungono problematiche di carattere geopolitico ed economico: “All'ombra della guerra civile siriana, jihadisti e militanti curdi stanno conducendo campagne contro lo Stato turco. (...) L'economia, una volta un punto di forza, sta crescendo lentamente, afflitta da clientelismo, cattiva gestione e un crollo nel settore del turismo”, scrive ad esempio L’Economist.
Più di 500 persone sono morte in Turchia dal 2015 a causa di attacchi terroristici da parte dell’Isis, del PKK (il partito dei lavoratori del Kurdistan) e del TAK (i “Falchi per la liberazione del Kurdistan). L’ultimo attacco da parte dello Stato Islamico è stato quello alla discoteca Reina la vigilia di Capodanno in cui sono morte 39 persone. Nel mese di luglio 2015, la rottura della tregua con il PKK ha ridato avvio a un conflitto che sin dal 1980 ha causato 40mila vittime. Le Nazioni Unite stimano che siano state uccise 2000 persone tra militari e civili, mentre per l'esercito turco le vittime sarebbero state militanti del PKK, riporta BBC. Tredici deputati del partito pro-curdo HDP, diventato la terza forza in Parlamento nel 2015, sono stati imprigionati per presunti legami con il PKK e 86 sindaci sostituiti dal governo.
Per quanto riguarda l’economia, gli effetti del voto, scrivono Nevzat Devranoglu e David Dolan su Reuters si vedranno sul medio termine e non avranno una ricaduta nell’immediato. Secondo il vice primo ministro Mehmet Şimşek, una vittoria del ”Sì” potrebbe creare le condizioni per una maggiore stabilità politica e consentire di “attuare in modo sistematico le riforme fiscali e della giustizia già preparate”, riportano Devranoglu e Dolan. Le riforme consentirebbero, ha proseguito Şimşek, di far crescere l’economia turca del 6% e favorire gli investimenti. Tuttavia, gli investitori sembrano scettici. «Abbiamo già ascoltato promesse del genere prima di un voto, ma negli ultimi sei o sette anni nulla di quanto detto poi è stato mantenuto», ha dichiarato all’agenzia di stampa britannica Williams Jackson di Capital Economics in London.
«Stiamo attraversando una crisi economica», dice alla BBC Tekin Acar, la cui catena di negozi di cosmetici è in sofferenza. «Nessuno lo sta dicendo, ma le vendite sono in calo, come i profitti e dovremo aprire negozi più piccoli con meno personale». Questo malessere potrebbe giocare nel referendum, si legge ancora nell’articolo. «Potrebbe esserci un voto di protesta per la situazione dell’economia ma anche per le bugie di Erdoğan, che ora vediamo attraverso i social media», afferma Ali Avci, titolare di un negozio di ceramica nel Gran Bazar di Istanbul, che dichiara di aver votato sempre per il partito di Erdoğan ma di essere pronto a dire “no” al referendum. «Passano interi giorni senza i clienti. Finora ho potuto sopravvivere, ma se va avanti così per un altro anno, sarò costretto a chiudere. La gente ha paura di dire che stanno andando a votare “No”, ma un sacco lo faranno».
Qualsiasi sarà l’esito del referendum, non sarà un buon risultato per la Turchia, spiega Sevgi Akarçeşme su Politico. La vittoria del “Sì” istituzionalizzerebbe di fatto un sistema basato su un uomo solo al potere sotto la presidenza di Erdoğan. Se a prevalere fosse il “No”, potrebbero riaccendersi le speranze di chi spera in un cambiamento rispetto alla leadership attuale, ma paradossalmente si rischierebbe di assistere a un inasprimento ancora più forte della repressione da parte di un Erdoğan probabilmente indebolito.
Infine, il referendum si inserisce in un quadro di contrasto diplomatico tra Turchia e Unione europea (che hanno stretto un accordo sulla gestione del flusso migratorio in Europa, accordo che a poco più di un anno dalla firma presenta problematicità di attuazione e criticità sulla tutela dei diritti umani). In Germania e Olanda, ad esempio, lo scorso mese non è stato consentito a ministri e alti funzionari turchi di poter fare campagna per il voto referendario. Proprio le modifiche costituzionali proposte sono state criticate dall’Ue perché potrebbero concentrare troppi poteri nelle mani del presidente.
Foto anteprima via CFP, il presidente Erdogan saluta i sostenitori del "sì" durante un incontro ad Ankara.