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Referendum Trivelle: le ragioni del Sì, le ragioni del No. Votare informati

16 Marzo 2016 14 min lettura

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Referendum Trivelle: le ragioni del Sì, le ragioni del No. Votare informati

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di Angelo Romano e Antonio Scalari

[hanno collaborato Arianna Ciccone, Marco Nurra, Andrea Zitelli]

Il dibattito sul cosiddetto “referendum anti-trivelle” si è caricato, in queste settimane, di significati politici e simbolici che vanno al di là della stessa questione (tutto sommato limitata) oggetto del quesito referendario. Nel confronto tra le ragioni del sì e quelle del no, o dell’astensione, si è finito spesso per prendere di mira non le tesi, ma i loro sostenitori, finendo per parlare di questioni molto più ampie, come il fabbisogno energetico, l'inquinamento ambientale, i consumi. Da una parte si è evocato il rischio della “marea nera” o dei danni al turismo, dall’altra quello della perdita di posti di lavoro e della fine di un intero settore economico e industriale (in una polemica contro l’“ambientalismo ideologico” e l’“Italia dei no”).

Abbiamo, perciò, messo in in fila alcune delle affermazioni che in queste settimane sono state pronunciate a sostegno del sì e del no, convinti che la correttezza degli argomenti utilizzati in una discussione sia indispensabile per comprendere il tema e quindi votare in modo consapevole.

In un altro articolo abbiamo ricostruito tutto il percorso referendario, la questione istituzionale e lo scontro Stato-Regioni, gli studi sulla qualità del petrolio in Italia, la storia dei nostri giacimenti e i rischi legati alle nuove tecniche di estrazione e ricerca idrocarburi, in particolare la tecnica air-gun e il rischio della subsidenza dei nostri suoli.

Qual è il quesito referendario?

Il testo del quesito referendario è:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?

Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa.

Il quesito referendario, quindi, non riguarda le trivellazioni sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una distanza superiore alle 12 miglia dalla costa (22,2 chilometri), né nuove concessioni entro le 12 miglia marine, vietate dalle norme introdotte nella legge di stabilità 2016.

Cosa succede se vince il sì?

Se il quesito dovesse passare, alla scadenza naturale della concessione, le compagnie petrolifere non potranno rinnovare la licenza anche se i giacimenti non sono ancora esauriti.

Cosa succede se il referendum non passa?

Se il referendum fallisse, alla scadenza delle concessioni le compagnie petrolifere potranno chiedere un prolungamento dell’attività e, ottenute le autorizzazioni in base alla Valutazione di impatto ambientale, potranno estrarre gas o petrolio fino all’esaurimento completo del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale, come previsto dal comma 239 della Legge di Stabilità 2016.

Perché la soglia delle 12 miglia?

La soglia limite delle 12 miglia è stata introdotta nel 2010 dal cosiddetto “Decreto Prestigiacomo”, approvato subito dopo l’esplosione nel Golfo del Messico della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, per la salvaguardia delle coste e la tutela ambientale.

Da allora questa soglia è stata più volte oggetto di revisioni. Nel 2012, il Decreto legge “Misure urgenti per la crescita del Paese” del governo Monti ha esteso il limite previsto dal precedente decreto all’intero litorale nazionale (e non solo alle aree marine protette) e ha stabilito che le richieste delle compagnie debbano essere sottoposte alla valutazione di impatto ambientale e al parere degli enti locali interessati. Questa rimodulazione – ratificata dal Decreto Ministeriale 9 agosto 2013 – ha ridotto del 44% la superficie totale delle zone marine aperte alle attività minerarie. Tuttavia, col nuovo decreto, tale divieto si applicava solo alle nuove richieste di ricerca ed estrazione di idrocarburi in mare, salvando tutte le richieste presentate e le concessioni autorizzate prima dell’emanazione del Decreto Prestigiacomo, ovvero il 20 giugno 2010.

La Legge di Stabilità 2016 ha stabilito il divieto di ricerca e coltivazione idrocarburi nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalle linee di costa, tranne che per “i titoli abilitativi già rilasciati, fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento”. Una compagnia può, così, continuare a trivellare entro le 12 miglia, se ha ottenuto la licenza prima dell’entrata in vigore della legge di stabilità 2016 e potrà farlo fino all’esaurimento del giacimento. In altre parole, con questa norma il governo ha messo le concessioni già autorizzate al riparo dal divieto di poter estrarre idrocarburi entro le 12 miglia. È sparito, inoltre, ogni riferimento al parere sul rinnovo delle concessioni (che ogni 5 anni potevano essere prorogate di volta in volta fino all'infinito) degli enti locali, “posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività”, come recitava la vecchia legge.

Questo referendum, così come è stato riformulato dalla Cassazione, chiede, quindi, di ripristinare uniformare il divieto di estrarre idrocarburi entro le 12 miglia così come già previsto per le nuove licenze, estendendolo anche alle concessioni già autorizzate, consentendo loro però di restare attive fino alla scadenza legale del permesso.

Le ragioni del Sì

Il referendum affronta diverse questioni. Innanzitutto una giuridica. Per il costituzionalista Enzo Di Salvatore (tra i promotori dei quesiti referendari) la norma presente nella “Stabilità 2016” è «palesemente illegittima in quanto una durata a tempo indeterminato delle concessioni viola le regole sulla libera concorrenza». La legge, prosegue Di Salvatore, in altri termini, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con la direttiva 94/22/CE (recepita dall’Italia con d.lgs. 25 novembre 1996, n. 625), che in materia di ricerca e di estrazione di idrocarburi «prescrive che “la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa è stata concessa” e che solo in via eccezionale (e non in via generale e a tempo indeterminato) il legislatore statale possa prevedere proroghe della durata dei titoli abilitativi, “se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione”». La conseguenza, sempre per il costituzionalista, potrebbe essere l’apertura da parte dell’Unione Europea di una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia.

Poi c’è la questione ambientale. Le trivellazioni andrebbero fermate per tutelare i nostri mari. I promotori fanno riferimento ai rischi legati alle tecniche di ricerca (la cosiddetta tecnica air-gun) ed estrazione di idrocarburi, che, secondo loro, possono incidere sulla fauna marina, elevando il livello di stress o provocando danni, al rischio di subsidenza (cioè l'abbassamento della superficie del suolo, causato da fenomeni naturali o indotto dall’attività dell’uomo), ai danni provocati da eventuali incidenti.

A queste, si aggiunge quella di politica energetica. Il voto, per i promotori, ha un grosso valore simbolico. Un'eventuale vittoria del Sì, darebbe un segnale al governo nell’incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Infine, il referendum ha un obiettivo politico. Mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto e ad evitare, qualora non si raggiungesse il quorum o prevalesse il No, che il Parlamento un giorno possa prevedere che si torni a cercare ed estrarre gas e petrolio ovunque, anche all’interno delle 12 miglia. Inoltre, in caso di fallimento del referendum, potrebbe esserci il rischio che le compagnie titolari di licenze possano anche raddoppiare le piattaforme legate alle concessioni loro assegnate.

Le ragioni del No

Contro il referendum è stato fondato il comitato “Ottimisti e razionali", presieduto da Gianfranco Borghini, ex deputato del Partito Comunista e poi del PdS, e che vede al suo interno, tra gli altri, Piercamillo Falasca (presidente di Stradeonline.it), Umberto Minipoli (Associazione Italiana Nucleare), Davide Tabarelli (Nomisma) e Chicco Testa (Presidente di Assoelettrica). Anche nel caso delle posizioni del comitato per il NO al referendum possono essere individuate quattro questioni fondamentali.

La questione energetica. L’Italia estrae sul suo territorio il 10% del gas e del petrolio che utilizza: se le concessioni in scadenza non dovessero essere rinnovate, la quota di energia prodotta da quelle attività estrattive non verrebbe sostituita da altrettante pale eoliche o pannelli solari, ma da altrettanto gas naturale o petrolio proveniente da altre parti del mondo. Diventeremmo quindi maggiormente dipendenti dai paesi fornitori come la Russia.

La questione ambientale. Se il referendum vincesse, arriverebbero in Italia più petroliere, aumentando i rischi di inquinamento da idrocarburi nel mar Mediterraneo.

La questione sociale e occupazionale. La chiusura delle piattaforme significherebbe per le migliaia di persone lavorano nel settore la fine dei loro posti di lavoro.

La questione politica. Il referendum è lo strumento sbagliato per chiedere al governo maggiori investimenti nelle energie rinnovabili e, inoltre, svela, come scrive Giordano Masini su Strade (anch’egli membro del “Comitato Ottimisti e Razionali”), «un approccio fideistico e superstizioso ai problemi ambientali, che ne rifiuta la complessità e ne promuove la non-soluzione irrazionale in cambio di una comoda rimozione - occhio non vede, cuore non duole». Il referendum sarebbe, così, “intriso di sindrombe Nimby”, cioè attento a difendere il proprio cortile, senza porsi una visione d’insieme.

Il referendum fermerà le attività di estrazione di petrolio in Italia?

No > le piattaforme presenti entro le 12 miglia, oggetto del quesito referendario, sono 92, di cui 48 eroganti. Di queste 39 estraggono gas e solo 9 petrolio. Solo l’8,7% del petrolio estratto in Italia è in mare. Gran parte della ricerca di idrocarburi in Italia avviene, infatti, su terraferma. Su 107 concessioni autorizzate, 84 sono su terraferma e 23 sul fondale marino. Le regioni in cui sono presenti pozzi a terra sono l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte, la Sicilia, la Toscana (con i giacimenti nelle aree di Grosseto e Pisa) e la Basilicata, dove viene estratto il 70% del petrolio nazionale.

Se vince il Sì mettiamo a rischio la nostra autosufficienza energetica?

No > perché le quantità di gas e petrolio estratte entro le 12 miglia non sono così significative da comportare scenari da crisi energetica per il nostro paese. Giovanni Esentato, segretario dell’Associazione Imprese Subacquee Italiane, in un post molto condiviso su Facebook ha scritto che:

In pratica con già tutte le strutture fatte, i tubi posati sul fondo del mare e senza dover fare nessuna nuova perforazione, saremmo costretti a chiudere i rubinetti delle piattaforme esistenti da un giorno all’altro rinunciando a circa il 60-70% della produzione di gas nazionale (gas metano stiamo parlando e non petrolio). Non potendo da un giorno all’altro sopperire a questo fabbisogno con le fonti rinnovabili il tutto si tradurrebbe in maggiori importazioni ed incremento di traffico navale (navi gassiere e petroliere) nei nostri mari, alla faccia dello spirito ambientalista che anima i comitati promotori e con sostanzioso impatto sulla nostra bolletta energetica

In realtà, come scrive Dario Faccini su Aspo Italia (Associazione per lo studio del piccolo per il petrolio), basandosi sui dati ufficiali del Ministero dello Sviluppo Economico, se il referendum passasse rinunceremmo al 17,6% della produzione nazionale di gas (pari al 2,1% dei consumi nel 2014) e al 9,1% della produzione nazionale di petrolio (pari allo 0,8% dei consumi nel 2014). In questo calcolo sono state prese in considerazione solo le piattaforme eroganti, cioè funzionanti. Facendo riferimento anche ai pozzi marini senza piattaforme, o alle piattaforme che raccolgono la produzione di pozzi a terra, la percentuale di gas estratto cui rinunceremmo sarebbe maggiore di tre punti percentuali.

via Aspo Italia.
via Aspo Italia.

Le 17 concessioni di gas interessate dal referendum hanno estratto 1,21 miliardi di metri cubi di gas, mentre le 4 concessioni di petrolio hanno estratto 500mila tonnellate di petrolio.

via Aspo Italia.
via Aspo Italia.

Nel 2014, la produzione di idrocarburi in Italia ha soddisfatto quasi il 10% del consumo totale nazionale. I nostri giacimenti hanno prodotto 7.286 milioni di metri cubi di gas (e di questi, 4.863 milioni, pari al 67%, in mare) e 5,75 milioni di tonnellate di petrolio (di cui solo 0,75 milioni in mare).

via Ministero Sviluppo Economico.
via Ministero Sviluppo Economico.

Se vince il Sì, le piattaforme chiuderanno immediatamente e saranno a rischio migliaia di posti di lavoro?

No > perché le concessioni saranno valide fino alla loro scadenza, come era già previsto fino al 31 dicembre 2015, prima che entrasse in vigore la norma della legge di stabilità che ha prorogato le licenze fino all’esaurimento dei giacimento. Di tali concessioni, una scade fra due anni, altre cinque fra 5 anni, tutte le altre scadranno tra 10-20 anni. Questo vuol dire che prima di quelle date non si perderà un solo posto di lavoro per effetto del referendum. Inoltre, 9 piattaforme non sono interessate dal referendum perché la richiesta di proroga è stata fatta prima dell’entrata in vigore della legge di stabilità e, verosimilmente, scrive ancora Faccini su Aspo Italia, verranno concesse anche in caso di vittoria del referendum.

Con queste piattaforme, l’Italia rischia un disastro ambientale come quello che si è verificato nel Golfo del Messico?

No, ma > Nel 2010 una esplosione avvenuta sulla piattaforma di estrazione Deepwater Horizon provocò nelle settimane successive la fuoriuscita di più di 500mila tonnellate di petrolio nel mare del Golfo del Messico provocando un grave disastro ambientale. Sebbene si possa escludere che in uno degli impianti italiani che estraggono petrolio possa accadere un disastro di queste dimensioni in termini di volume, il rischio di incidenti c’è, anche se ad oggi non sono mai avvenuti. Come spiega Ezio Mesini, docente dell’Università di Bologna, la struttura dei pozzi petroliferi italiani è molto diversa da quella delle piattaforme dove si sono verificati gravi incidenti. Negli anni ‘60 nel mare Adriatico si è verificato un incidente al largo di Ravenna, con fuoriuscita di metano ma, dice Mesini, si è trattato di una fuga di gas con danni ambientali non paragonabili a quelli provocati dalla Deepwater Horizon.

Il Mar Mediterraneo, però, soffre già di inquinamento da idrocarburi, causato dal trasporto di petrolio. Secondo quanto riporta l’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (Ispra), dal 1977 al 2010 sono state sversate nel Mediterraneo circa 312.000 tonnellate di petrolio, senza considerare alcune decine di incidenti per i quali non è nota la quantità di greggio fuoriuscito. Nello stesso periodo di tempo nei mari italiani si sono verificati 132 incidenti di cui 52 con sversamento del carico durante il trasporto.

L’Italia dipende ancora dai combustibili fossili per i propri consumi?

Sì, ma > Come gli altri paesi anche l’Italia non può ancora fare a meno di petrolio e gas naturali. Nel 2015, infatti, secondo l'ultimo rapporto di GSE (Gestore Servizi Energetici, responsabile del monitoraggio statistico dello sviluppo delle fonti rinnovabili in Italia) a livello nazionale la stima preliminare del consumo totale di energia (che include tutti i vettori energetici) proveniente da fonti rinnovabili è stato del 17,3%, +4,3% rispetto a cinque anni prima.
Tuttavia, secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico, nel 2014 si è registrata una riduzione del consumo interno lordo di petrolio dell’1,8% e di gas naturale dell’11,6% rispetto al 2013. In generale, il consumo di energia in Italia è diminuito del 3,8%.

Per quanto riguarda la produzione nazionale di energia elettrica si è registrato un aumento del +2,8%, in particolare, proveniente dalla produzione di petrolio (+4,8%) e da fonti rinnovabili (+4,7%), mentre è diminuita la produzione di gas naturale (-7,6%).

Il magazine Strade nota che «un terzo dell'energia elettrica che usiamo, anche quella che tiene accesi i nostri computer e ricarica i nostri smartphone da cui scriviamo accorati appelli "contro le trivelle", viene dal gas». Tuttavia, come mostrano i dati sul consumo interno lordo di energia elettrica, raccolti dalla società Terna, operatore di reti per la trasmissione dell'energia elettrica, nel 2013 la quota percentuale di energia elettrica prodotta da rinnovabili è stata del 33,9%. Ed è salita al 37,5% nel 2014. Mentre l'energia elettrica ricavata da fonti tradizionali è scesa dal 53,3 al 48,8%. Questi numeri dimostrano che il contributo delle fonti rinnovabili alla produzione nazionale di energia elettrica eguaglia (e supera) ormai quello del gas naturale (sceso dal 33% del 2013 al 29,1% nel 2014).

 
Secondo un’indagine pubblicata da "Oil Change International" a dicembre 2015, l’Italia spende in sussidi ai combustibili fossili risorse 42 volte maggiori dei fondi destinati alle politiche climatiche. Per 84 miliardi di dollari l’anno dati all’industria petrolifera, solo 2 vengono destinati al Fondo verde per il clima, creato dall’ONU per catalizzare fondi da spendere in misure di adattamento e mitigazione degli effetti del riscaldamento globale. L’Australia spende in sovvenzioni alla dirty energy 113 volte di più ogni anno rispetto agli impegni che prende con il Fondo per il clima, il Canada ha un rapporto di 79:1, il Giappone 53:1, il Regno Unito 48:1, l’Italia 42:1, gli Stati Uniti 32:1, la Germania 21:1 e la Francia 6:1.

via Oil Change International.
via Oil Change International.

È un referendum “NIMBY”?

No > L’espressione Not In My Back Yard, letteralmente “non nel mio cortile", viene utilizzata per definire la protesta di una comunità locale di fronte alla realizzazione di un impianto o di un’opera in prossimità di un centro abitato, per timore di conseguenze ambientali o sanitarie. L’acronimo NIMBY sottointende un giudizio dispregiativo nei confronti di una protesta che si suppone essere interessata soltanto a impedire che la realizzazione di un’opera avvenga “nel proprio cortile”, cioè vicino a casa propria, per un atteggiamento di egoismo locale. Secondo Dieter Rucht, NIMBY sono quei «gruppi e movimenti che vogliono liberarsi dei problemi nel loro territorio, ma non li definiscono come questioni di principio». Il referendum del 17 aprile non può essere definito una iniziativa NIMBY perché ha come oggetto una questione nazionale, anche se è stato presentato dalle regioni. Inoltre, tra le ragioni alla base del referendum non c’è soltanto la volontà di impedire la costruzione di piattaforme di estrazione vicino alle coste per non danneggiare l’economia del turismo, ma c’è anche la volontà di porre al centro del dibattito nazionale il tema della politica energetica. Gli stessi critici del referendum imputano ai sostenitori del sì l’intenzione di voler dare un segnale politico al di là del merito del quesito. Ma se è così, allora il referendum non può essere ridotto a una iniziativa NIMBY.

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Cosa sai del referendum sulle trivelle?

Domenica 17 aprile ci sarà un referendum che riguarda tutti i cittadini italiani.1) Se vince il SÌ > Le piattaforme ancora attive vicino le coste cesseranno le attività alla scadenza delle concessioni.2) Se vince il NO > Alla scadenza delle concessioni le piattaforme potranno continuare a chiedere proroghe fino all'esaurimento dei giacimenti.Referendum Trivelle: informarsi per votare > www.valigiablu.it/referendum-trivelle

Pubblicato da Valigia Blu su Giovedì 17 marzo 2016

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