Il fallimento del referendum non è colpa del “silenzio dei media”
6 min letturaIl dato di affluenza relativo ai cinque referendum sulla giustizia del 12 giugno è stato basso (20.9%) anche oltre le aspettative della vigilia, già non particolarmente rosee (un sondaggio di Ipsos per il Corriere della Sera del 20 maggio stimava un accesso alle urne tra il 29 e il 31% degli aventi diritto). Ed è un dato che è così basso da rappresentare un unicum che va analizzato un po’ più in profondità, soprattutto per liberare il campo da una serie di equivoci sul perché le cose siano andate in questo modo.
1. I contenuti dei quesiti referendari mal si prestavano a una grande mobilitazione popolare
La storia repubblicana del nostro paese restituisce una tendenza che ciclicamente si ripete, a prescindere dal tipo di referendum (propositivo o abrogativo) e anche dalla fase politica e storica in cui questo genere di consultazione è stata attivato: l’accesso alle urne è direttamente proporzionale al livello di rilevanza politica, e per la vita quotidiana, delle persone.
Quando le cittadine e i cittadini sono stati chiamati a dire la propria su temi di interesse generale, come ad esempio l’ordinamento democratico dello Stato, (Monarchia o Repubblica), l’aborto, il divorzio, il finanziamento pubblico ai partiti (due referendum, e in entrambi i casi il quorum è stato raggiunto), sui beni pubblici o sull’energia nucleare (anche in questo caso, doppio quorum superato) ma anche su riforme costituzionali (riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, referendum costituzionale del 2016, riduzione del numero dei parlamentari nel 2020), referendum questi ultimi che non richiedono un quorum, è stato superato il 50% di affluenza, fino ad arrivare al picco dell’87.7% della consultazione sul divorzio del 1974.
Quando invece la consultazione è apparsa troppo tecnica, su temi troppo specifici e con conseguenze non immediatamente percepibili nel vissuto degli elettori, il quorum non è stato superato.
Il calo progressivo dell’affluenza nelle consultazioni politiche in Italia è un dato di fatto e anche questa doppia tornata di voto per il referendum e per le elezioni amministrative non ha fatto eccezione, così come è corretto mettere in evidenza che solo un quesito referendario di natura abrogativa ha superato il quorum dal 1997 a oggi. Ed è altrettanto significativo sottolineare che l’unico referendum abrogativo che non ha raggiunto il quorum prima di quell’anno riguardava la caccia, altro tema particolarmente specifico.
Allo stesso tempo l’eccezione del 2011, su temi come la pubblicizzazione delle risorse idriche, e il bando all’energia nucleare (oltre che del legittimo impedimento) dimostrano che superare il quorum è possibile anche in una fase di oggettiva disaffezione verso l’esercizio del voto.
A maggior ragione, l’incrocio tra queste due variabili (trend decrescente dell’affluenza e successo di consultazioni su temi di grande interesse popolare) dovrebbe suggerire a chi propone referendum abrogativi di evitare, d’ora in poi, la strada della democrazia diretta per provare a risolvere questioni molto specifiche, che i Governi e i Parlamenti (di qualsiasi maggioranza) sono stati incapaci di affrontare per anni, o di usare i referendum come strumenti di ricerca di un’affermazione popolare in sostituzione delle elezioni politiche vere e proprie.
Questo elemento è stato rilevato poco dopo la comunicazione dell’affluenza definitiva da Roberto Calderoli, uno dei più accesi promotori del referendum del 12 giugno (al punto da intraprendere anche uno sciopero della fame per chiedere maggiore attenzione da parte dei media). L’ideatore del Porcellum ha affermato:
"La Corte Costituzionale ha respinto il voto su cannabis, eutanasia e responsabilità diretta. Erano quesiti attrattivi rispetto a una partecipazione ampia".
È un’affermazione politicamente lunare, dato che il suo partito (la Lega) è storicamente contraria a qualsiasi intervento evolutivo sia per le politiche sul fine vita sia sulla depenalizzazione della coltivazione della cannabis, ma è lucida dal punto di vista del “come” si può rendere un referendum interessante per l’opinione pubblica.
Inoltre c’è da tenere conto di un ulteriore aspetto che rendeva il successo di questi referendum assai improbabile: una certa omogeneità di opinione, nel tempo, da parte degli italiani sugli argomenti su cui sono stati chiamati a votare. Proprio nel 1997, il primo anno di mancato superamento del quorum in un referendum abrogativo dopo una stagione di grande mobilitazione (con eccezione del succitato referendum sulla caccia), la popolazione era stata chiamata a esprimersi (tra le altre cose) sulle carriere dei magistrati e anche in quel caso la percentuale di affluenza fu molto bassa, il 30.2%. Dieci anni prima, nel 1987, c’era stata una consultazione che prevedeva altre norme di riforma della Magistratura e il quorum era stato raggiunto, ma in quell’occasione c’era anche un quesito che impediva allo Stato di imporsi su un Comune in caso di mancata autorizzazione alla costruzione di centrali nucleari.
Come è facile osservare, alcune variabili, anche se osservate in un lasso temporale di quasi ottant’anni, restituiscono risultati simili.
2. Più che un referendum, è sembrato un regolamento di conti
Si è parlato di ‘referendum sulla giustizia’ cercando di sottolineare l’esistenza di un cappello comune che unificasse i cinque quesiti, ma analizzandoli più da vicino pare evidente che questo filo concettuale reggesse molto poco. Mettere insieme una domanda sull’abrogazione della Legge Severino, che attualmente impedisce a chi riceve una condanna in primo grado di svolgere ruoli politici o di candidarsi a essi), una questione sulla reiterazione delle misure cautelari e tre quesiti sul funzionamento della Magistratura è apparsa come una via di mezzo tra la volontà di creare un patchwork di esigenze politiche molto diverse tra loro e una specie di ricerca di una “rivincita” da parte di uno dei poteri dello Stato (quello legislativo) nei confronti di quello giudiziario.
Questi temi di discussione, di sicura importanza per il corretto funzionamento delle istituzioni, sono stati ampiamente presenti sui media in questi anni. Le prime pagine dei quotidiani e gli approfondimenti televisivi sui rapporti tra politica e magistratura non sono certamente mancati (basti pensare alla parabola politica e personale di Silvio Berlusconi), ma in ogni caso non sono diventati ‘comune sentire’ nel lungo periodo, perché hanno riguardato le vite di una piccola élite di italiani (chi governa o chi giudica, in estrema sintesi), raccontate da un’altra piccola ma significativa élite (il sistema giornalistico del nostro paese).
Affermare che il referendum è fallito per ‘il silenzio dei media’, com’è stato ampiamente sostenuto da buona parte dei quotidiani conservatori nei titoli di lunedì 13 giugno, vuol dire da un lato fare finta che il giornalismo italiano ‘mainstream’ non sia strutturato in questo modo (élite che parlano di altre élite) e dall’altro che il proprio potere sia straordinariamente forte, al punto da poter incidere sui comportamenti di decine di milioni di persone. Ma se così fosse stato, l’opinione pubblica sarebbe stata già straordinariamente ‘scaldata’ da anni di discussioni sui rapporti tra politica e Magistratura, al punto da rendere quasi inutile un ‘rush finale’ di copertura giornalistica, tra l’altro in un periodo non esattamente privo di notizie e di preoccupazioni per gli italiani.
3. L’astensione in un referendum abrogativo ha quasi sempre una parte di significato politico
Questo referendum, la sua genesi e i suoi esiti, permettono di sgomberare (spero definitivamente) il campo da un equivoco: non esistono consultazioni popolari nazionali prive di un significato politico specifico. Di conseguenza, anche il comportamento di chi vota, come quello di chi decide di non farlo, non può essere riassunto nella semplicistica riduzione in ‘interesse’ e ‘disinteresse’ per i quesiti referendari proposti, ma rientra all’interno di un campo di scelta ben più raffinato.
La consultazione è nata non in seguito a una raccolta di firme ma attraverso l’altro percorso di attivazione di un referendum abrogativo: la richiesta congiunta da parte di nove consigli regionali (Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto), accomunati tra loro proprio da un tratto politico: sono tutti a maggioranza di centro-destra.
Il referendum di conseguenza è ‘nato politico’, per un’iniziativa diretta di Matteo Salvini e della Lega, e dunque i comportamenti di rifiuto (sia nei confronti di chi lo ha proposto sia della scelta di caricare politicamente quesiti sui rapporti tra poteri indipendenti dello Stato) vanno considerati parte del gioco, esattamente com’è avvenuto per il “referendum di Renzi” del 2016, che a differenza di quello del 2022 non richiedeva un quorum e in cui una parte del voto contrario alle riforme proposte ha contenuto una quota di dissenso nei confronti dell’ex premier.
In un referendum politico di natura abrogativa l’astensione non è mai, dunque, un semplice indice di mancato interesse ma al contrario può rappresentare una scelta attiva da parte dell’elettorato.
A supporto di questa tesi basterebbe citare un dato roboante, e cioè la differenza nell’affluenza per il voto amministrativo nel Comune di Genova rispetto a quello referendario. Tra la prima e la seconda consultazione ci sono stati dieci punti percentuali di differenza: alle comunali ha votato il 48.39% degli aventi diritto, per il referendum hanno ritirato le cinque schede solo il 38.09%. Più del 10% degli elettori genovesi (una città che tra le altre cose ha riconfermato il sindaco in carica, Marco Bucci, proprio di centrodestra) ha platealmente deciso di adottare due comportamenti differenti mentre entrava nel seggio, mostrandosi dunque motivati a votare per il proprio sindaco e altrettanto motivati a non farlo per il referendum.
Non votare, dunque, può essere una scelta politica altrettanto degna dell’attenzione degli osservatori (a partire dai leader politici) e non può essere liquidata come scarsa affezione alla cosa pubblica e anzi, talvolta rappresenta proprio la manifestazione di un’esigenza opposta, e cioè dell’insoddisfazione rispetto all’offerta politica esistente.