L’attacco a Rafah conferma il vero obiettivo del governo Netanyahu
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“Sono profondamente preoccupato per la notizia dei bombardamenti e del potenziale attacco di terra da parte delle forze israeliane a Rafah”. A parlare, dopo settimane di sostanziale silenzio che non gli ha risparmiato critiche asprissime, è perfino Karim Khan, il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale con sede all’Aja, vale a dire l’altro organismo di giustizia globale che, assieme alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), ha dossier aperti sulla guerra su Gaza. La pressione è evidente: Khan sottolinea, in un tweet con il crisma istituzionale, che il suo “ufficio ha in corso un'indagine continua e attiva sulla situazione nello Stato di Palestina che viene portata avanti con la massima urgenza, al fine di assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini previsti dallo Statuto di Roma”. A differenza della ICJ, in cui sono gli Stati a comparire nelle udienze, nel caso del Tribunale Penale Internazionale sono gli individui a essere perseguiti. Per ogni crimine commesso.
Non solo gli occhi delle diplomazie e delle cancellerie di tutto il mondo, ma anche e persino gli occhi della giustizia internazionale sono, dunque, puntati su Rafah. E non poteva essere altrimenti, visto che Israele ha un mese di tempo per eseguire l’ordine impartito dalla ICJ il 26 gennaio scorso, e cioè prevenire l’intento genocidiario. I fatti sul terreno, però, dicono che il governo Netanyahu e le forze armate israeliane non hanno sinora fatto nulla di quello che era stato indicato nel dispositivo della decisione dell’Aja, sul quale ha peraltro anche votato Aharon Barak, il giudice ad hoc israeliano indicato dallo stesso premier.
Nulla ferma Netanyahu, che rimane attaccato al suo obiettivo. O meglio, ai suoi obiettivi, anzitutto quello di continuare una guerra su Gaza i cui scopi si sono modificati nel corso dei mesi, e poi quello di rimanere premier ancora per un po’ di tempo, rinviando le sue dimissioni almeno sino a quando le elezioni americane saranno influenzate dalla politica estera. Cioè, dalla guerra su Gaza. E a non farlo desistere sarà anche il risultato dell’attacco di domenica notte a Rafah. La liberazione di due tra gli oltre centotrenta ostaggi ancora nelle mani delle Brigate al Qassam e delle Brigate al Quds è, per Netanyahu, un successo. Nonostante venga considerato solo un saggio di un’operazione di terra molto più pesante e lunga, l’attacco ha già provocato una carneficina, almeno cento persone uccise, in gran parte donne e bambini: l’ennesima in una lunga sequenza di massacri nel sud di Gaza che ha fatto salire il numero di vittime palestinesi ben oltre le 28mila, oltre diecimila delle quali bambini, secondo i dati forniti dal ministero della Sanità di Gaza del governo di Hamas.
I numeri di un massacro di civili che continua da quattro mesi, all’indomani dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, non ferma però Israele. E preoccupa sempre di più Washington, che nonostante l’attacco su Rafah - iniziato per inciso poche ore dopo il ricovero d’urgenza del segretario della Difesa USA Lloyd Austin in terapia intensiva in un ospedale di Washington - continua a sostenere il negoziato sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi israeliani. La trattativa non si è mai fermata, a dire il vero, e lo conferma la presenza al Cairo dei mediatori di massimo livello, a cominciare dal capo della CIA, William Burns, che ha in programma di incontrare l’emissario del Mossad e il capo dell’intelligence militare egiziana, Abbas Kamel, assieme all’altro ago della bilancia, il Qatar. Per l’amministrazione americana l’accordo sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi significa scongiurare Rafah e, di conseguenza, tentare di spegnere la guerra su Gaza prima che questa incida sulle primarie democratiche.
Le presidenziali di novembre sono infatti molto più vicine di quanto appaia, soprattutto per il Partito Democratico, ed è per questo che Joe Biden ora non nasconde, attraverso le ripetute notizie fatte filtrare alla stampa, il suo fastidio nei confronti di Benjamin Netanyahu, un politico mai amato dal presidente statunitense e, in compenso, considerato un alleato di ferro per Donald Trump. Netanyahu non ascolta le pressioni internazionali, tanto meno quelle statunitensi, nonostante Washington abbia continuato a inviare con costanza i suoi aiuti militari, quegli aiuti militari tanto imponenti che creano ora a Biden un problema sempre più evidente di consenso interno e internazionale. A manifestare l’insofferenza non è infatti solo l’elettorato che alle scorse presidenziali ha fatto vincere Biden, e cioè le fasce giovani e afroamericane che nell’ultimo sondaggio hanno fatto capire di essere contro la politica di sostegno totale a Israele. È anche dall’Europa che arrivano le critiche, come quelle contenute in una frase di Josef Borrel, riportata da Reuters, in cui l’alto rappresentante della politica estera della UE sottolinea ironicamente che, “se ritieni che troppe persone sono state uccise, magari dovresti fornire meno armi per prevenire che tante persone vengano uccise”.
Rafah, finora sconosciuta ai più, al pari della Striscia di Gaza di cui è l’ultima cittadina a ridosso del confine con l’Egitto, è ora il simbolo di quattro mesi di bombardamenti e di incursioni via terra da parte delle forze armate israeliane. È anche, Rafah, la conferma dell’obiettivo che man mano il governo israeliano ha reso sempre più chiaro, nei fatti: il tentativo, cioè, di espellere la popolazione di Gaza verso il Sinai egiziano, premendo proprio lungo quel confine – ora chiuso anche da un lungo e incombente muro di cemento – in cui è concentrato almeno un milione e mezzo di persone.
Due terzi della popolazione palestinese di Gaza sono stati spinti dalle forze armate israeliane in un cul de sac, prima definito un’area sicura proprio dai militari di Tel Aviv, da cui non si può uscire se non sfondando il confine. E gli Stati Uniti sono nel mezzo, tra Israele di cui hanno sostanzialmente condiviso la scelta di bombardare Gaza senza porre alcun limite, e l’Egitto, che in questi ultimi giorni sta nei fatti rompendo gli accordi sul Sinai che sono nati da Camp David, dalla pace del 1979. Il Cairo ha infatti inviato già una quarantina tra carri armati e veicoli di trasporto truppe di fanteria, l’assaggio di una minaccia già lanciata dal regime di Abdel Fattah al Sisi. In sintesi, l’Egitto considera la pressione umanitaria sul confine il punto di non ritorno che mette in discussione la stessa pace di Camp David del 1979, cioè l’inizio – per Israele – di un lungo periodo in cui Tel Aviv non ha avuto più un avversario arabo che potesse metterne a rischio l’esistenza. Quanto questa minaccia sia reale non è ancora dato saperlo, vista la pesantissima crisi socio-economica in cui versa l’Egitto e l’evidente mancanza di volontà, da parte di al-Sisi, di mettersi del tutto in gioco per i palestinesi. L’ipotesi di una nuova nakba, però, rende tutti gli scenari possibili.
Immagine in anteprima: frame video CBS News via YouTube