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Le radici coloniali dell’omofobia in Africa

1 Settembre 2021 11 min lettura

Le radici coloniali dell’omofobia in Africa

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Nel mio paese di origine, il Camerun, sono cresciuta con la narrazione dell‘omosessualità come “les choses des blancs” (le cose dei bianchi) che noi dovevamo “leurs laisser ça là bas chez eux” (lasciarle là tra di loro).

L’omosessualità e la transessualità sono illegali in 32 paesi africani su 54, punibili con l’ergastolo in Uganda, Tanzania e Sierra Leone e la pena di morte in Sudan, Somalia, Mauritania e nella Nigeria settentrionale.

Nei continenti asiatico, americano ed europeo, da secoli, spesso con termini velati, a volte in modo stigmatizzante, l'omosessualità è stata descritta, praticata, mostrata o menzionata. Nel continente africano, la maggior parte dei riferimenti alla pratica della sessualità tra persone dello stesso sesso ne evidenzia l'origine necessariamente straniera. E, in questo contesto, la lotta contro l’omosessualità e la “perversione delle società africane” si tinge di una forte connotazione politica di riaffermazione del proprio dominio territoriale. Si combatte l'omosessualità in quanto importazione occidentale per riaffermare la propria sovranità.

Il recente caso dell’arresto delle influencer transgender Shakiro e Patricia, l’8 febbraio scorso in Camerun, non ne è che uno dei tanti esempi.

Shakiro in una foto sulla sua pagina Facebook

Le due donne, ora in libertà provvisoria, erano state arrestate per “tentata omosessualità, oltraggio pubblico ai costumi del paese e mancanza di un documento d’identità nazionale”, condannate a 5 anni di prigione e una multa di 200.000 FCFA (300 euro) e 22.300 FCFA (33 euro), secondo le dichiarazioni di uno dei loro legali Richard Tamfu.

Shakiro, essendo molto conosciuta sui social per i suoi anni di attivismo e i suoi video, ha ricevuto un enorme sostegno internazionale, da parte di associazioni e personaggi famosi, tanto che i suoi avvocati hanno dichiarato che l’applicazione della pena massima per una “presunta” violazione della legge è un chiaro messaggio politico.

“Questa è la pena massima prevista dalla legge che reprime l'omosessualità in Camerun”, ha detto Alice Nkom, presidente dell'Associazione per la difesa dei diritti degli omosessuali (Adefho) e una degli avvocati di Shakiro. “È una condanna politica che invia un messaggio chiaro e spaventoso: non vogliamo più persone LGBT qui in Camerun. Dobbiamo combattere questa mentalità e lo faremo.”

Negli ultimi decenni, questa idea dell’omosessualità come export neocoloniale, che l’Occidente tenterebbe di imporre è andata diffondendosi sempre più radicalmente in molti paesi africani, cavalcata da alcuni leader politici e religiosi per alimentare preoccupazioni popolari e mantenere invariate le loro legislazioni che incentivano la persecuzione delle persone omosessuali e, in particolare, dei giovani uomini gay.

Tuttavia, come vedremo, questa retorica è in contrasto con la realtà storica e le ricerche antropologiche del continente. Gli studi confermano le radici coloniali dell’attuale conservatorismo africano: è l’omofobia, o meglio la criminalizzazione dei rapporti omosessuali a essere stata importata dalle potenze coloniali ai tempi dello scramble for Africa (ndr, la spartizione dell’Africa), per poi essere rafforzata successivamente dall'azione di gruppi religiosi statunitensi e, in altri contesti, islamici.

I resoconti dei primi ricercatori e missionari europei

Dal XVI secolo in poi, l'omosessualità è presentata dai primi esploratori e missionari europei come prova della necessità dell'evangelizzazione dei popoli africani. I portoghesi furono tra i primi europei a esplorare il continente. Da queste prime esplorazioni, come descritto dall’antropologo belga Daniel Vangroenweghe, si possono avere una gamma di testimonianze della varietà della sessualità che caratterizzava quelle realtà allora. Già nel 1558 João Dos Santos, missionario domenicano portoghese, parlava di uomini passivi, chiamati Chibudi nel basso Congo e nel nord dell'Angola. Andrew Battell, un viaggiatore inglese nel 1590, scrisse in riferimento all’Imbangala dell’Angola: “Sono bestiali nella loro vita, perché hanno uomini in abiti femminili, che tengono tra le loro mogli”. 

Il sociologo camerunese Charles Gueboguo, professore all’università del Michigan, osserva che l’omosessualità in Africa è stata praticata in diversi contesti. Le parole e le espressioni che designano certe pratiche in alcune società africane testimoniano che si trattava di realtà concettualizzate (ma non ovunque accettate) molto prima dell’arrivo dei colonizzatori. 

In lingua Kiswahili, ad esempio, parlata a Zanzibar, la parola kufira si riferisce alla penetrazione anale, mentre la parola kulambana, che significa “leccarsi a vicenda”, si riferisce all’omosessualità femminile. In Hausa, yan daudu designa un “uomo effeminato” che interpreta il ruolo della moglie di un altro uomo. Altri termini descrivono la masturbazione reciproca: è il caso ad esempio di kuzunda (lingua wawihé) che specifica che in questo contatto sessuale, sono i peni i soggetti; o il termine kusagana (Zanzibar Kiswahili) che traduce il fatto che le donne si sfregano i genitali l'uno contro l'altro.

In Zimbabwe, le pitture rupestri sembrano indicare che i boscimani avevano relazioni omosessuali sufficientemente accettate socialmente per essere celebrate. Tuttavia è importante sottolineare che queste pratiche non vanno analizzate in maniera monolitica e omogenea, né tantomeno con sguardo eurocentrico, in quanto si inseriscono in contesti sociali ben specifici, spesso legate a riti o tradizioni della tribù.

Tra il popolo Bantu di lingua fang in Gabon, Camerun o Guinea Equatoriale (il gruppo Pahouin) per esempio, le relazioni omosessuali, tra uomini di tutte le età, erano viste come la medicina per essere ricchi. Questa ricchezza veniva trasmessa dal partner ricettivo al partner insertivo in una relazione penio-anale. Tra gli Azande del sud-est del Sudan era diffusa la pratica di sposare giovani tra i soldati. In questo tipo di rapporto i pretendenti pagavano una dote ai genitori dei giovani per sposarsi. I genitori dei giovani venivano allora chiamati dai corteggiatori con i termini di gbiore e negbore, che designavano rispettivamente il suocero e la suocera. Anche i ragazzi ricevevano doni e nelle coppie così formate si usava chiamarsi badiare, “il mio amore” o “il mio amante”. Il ruolo del ragazzo era di svolgere tutte le faccende domestiche durante il giorno nelle tende del campo e di notte di soddisfare sessualmente il loro compagno guerriero. Questo, fino a quando i ragazzi crescevano e prendevano a loro volta altri ragazzi per “donne”. Si trattava quindi di una sorta di riproduzione socio-sessuale istituita, con l’obiettivo di perpetuare una prassi che impediva alle donne di finire nei campi militari e agli uomini di astenersi dal sesso per troppo tempo. Gli Azande non consideravano improprie tali relazioni, poiché era concesso per un uomo andare a letto con ragazzi, quando le donne non erano disponibili.

Tra questo popolo il lesbismo era praticato nelle case poligame; così era anche per le donne Nkundó della Repubblica Democratica del Congo. Tra le donne Azande, i rapporti sessuali avvenivano tra di loro utilizzando forme falliche ricavate da patate dolci, pezzi di manioca o utilizzando banane, mentre tra le donne di Zanzibar la soddisfazione sessuale veniva raggiunta attraverso il cunnilingus (kulambana) o attraverso l’intromissione di un pene d’ebano (kijitia mbo ya mpingo). Questa pratica è stata riscontrata anche tra le donne Wahiwe, che la facevano in assenza degli uomini, oltre alle masturbazioni reciproche (kuzunda). Va sottolineato che il lesbismo non era affatto accettato dagli uomini in queste società, che lo consideravano una pratica pericolosa. Questo è il motivo per cui le donne tenevano segrete queste loro attività. Gli uomini non erano aperti alle pratiche lesbiche, tuttavia, non si preoccupavano delle pratiche omosessuali con i giovani, in assenza delle loro mogli e, talvolta, anche in loro presenza. È la manifestazione stessa del dominio maschile, che si inserisce in società spesso patriarcali.

Le relazioni omosessuali intergenerazionali tra i Bangalla dell'Angola erano molto comuni, soprattutto durante i viaggi, quando non erano in compagnia delle donne. Questo è uno dei motivi per cui la masturbazione reciproca (Okulikoweta) e il sesso anale (Omututa) erano prevalenti e visti con poca o nessuna vergogna. Al contrario, era la masturbazione solitaria, l'Okukoweka che veniva vista con disprezzo. Il sesso non è quindi percepito come un'attività solitaria, ma necessariamente comunitaria. 

Le leggi contro l’omosessualità da parte dei colonizzatori europei e la politicizzazione dell'omofobia da parte dei leader africani

Queste sono solo alcune delle pratiche “omosessuali” raccontate dagli etnografi in Africa. L'idea che l'omosessualità sia un'importazione dall'Europea (e quindi una "cosa dei bianchi") deriva dall'immaginario che alcuni europei hanno voluto dare dell'Africa nei primi anni del '900.

Nel 1936, l’etnografo Henri-Alexandre Junod scriveva che nella società bantu “non si praticano due vizi molto diffusi in certe nazioni civili, l’onanismo e la sodomia. Queste usanze immorali erano del tutto sconosciute alla tribù Thonga prima dell’arrivo della civiltà. Purtroppo non è più così”. E così anche in Les Nuer, un’opera dell’antropologo britannico sir Edward Evans-Pritchard pubblicata nel 1940: non vengono menzionate le relazioni omosessuali dei Nuer, etnia del sud del Sudan, relazioni di cui esisteva peraltro un’ampia documentazione. Solo a distanza di trent’anni Evans-Pritchard ha ammesso l’esistenza di pratiche omosessuali nella società africana tradizionale.

Durante il periodo coloniale, gli abitanti dell’Africa subsahariana venivano quindi regolarmente descritti come “figli della natura” risparmiati dai vizi delle società “civilizzate” (non senza una buona dose di ipersessualizzazione e animalizzazione).

Analizzando i sistemi legali messi in atto dai colonizzatori europei tra il XIX e XX secolo, tuttavia, si nota che sono state emanate 38 legislazioni con leggi che criminalizzavano in un modo o nell’altro l’omosessualità. Queste leggi sono state raramente applicate prima dell’inizio del XX secolo.

Come anche in India, i primi a esportare leggi che punissero "atti contro l'ordine della natura" in Africa (la prima in Kenya) furono i britannici. In uno studio che raccoglie dati legali da 185 paesi, i ricercatori Enze Han e Joseph O’Mahoney hanno scoperto che le ex colonie britanniche avevano molte più probabilità di avere leggi che criminalizzano il comportamento omosessuale rispetto alle ex colonie di altre potenze europee o di altri stati in generale.

Nel Regno Unito fin dal 1533 gli atti omosessuali erano punibili con la pena di morte, le leggi contro la sodomia (che si erano modificate nel tempo) furono abrogate definitivamente in Uk solo nel 1967.

In seguito all’evoluzione dei concetti di libertà propri dell’Illuminismo, il codice penale francese del 1791 ha depenalizzato la sodomia tra adulti consenzienti. Tuttavia, nelle colonie questi valori non furono mai applicati. Durante il periodo dell’indipendenza (intorno al 1960 per quanto riguarda le colonie francesi e britanniche), diverse delle ex colonie hanno quindi adottato leggi che vietavano l’omosessualità, ricalcando spesso i modelli di legge dei vecchi colonizzatori.

Oltre alle istituzioni coloniali, a lottare per un cambiamento nell’attitudine degli africani verso l’omosessualità ci hanno pensato gli evangelisti cristiani occidentali. Negli ultimi decenni a propagare ulteriormente la stigmatizzazione dell’omosessualità vi sono stati i gruppi di missionari provenienti dagli Stati Uniti, che a più riprese hanno contribuito a condannare l’attivismo in favore dei diritti umani in generale e di quelli LGBT (specialmente in seguito all’ondata di HIV nel continente) in particolare come un tentativo neocoloniale di distruggere le tradizioni e i valori africani. Una retorica fatta propria da diversi leader africani – tra cui Robert Mugabe, che ha chiamato l’omosessualità “la malattia dei bianchi”, “non africana”: lo stesso che nel 2013 si era scagliato contro la dichiarazione di Obama di tagliare gli aiuti ai paesi africani che continuassero ad applicare leggi omofobe.  Nel 1999, il presidente del Kenya Daniel Moi dichiarò che l’omosessualità era contro “gli insegnamenti cristiani e le tradizioni africane”. Nel 2015 il presidente keniano Uhuru Kenyatta durante un discorso a Nairobi, in risposta al discorso di Barack Obama che promuove la tolleranza verso le minoranze sessuali affermò: “È molto difficile per noi imporre alle persone ciò che loro stesse non accettano”.

Da quando l'Europa ha colonizzato l'Africa affidandosi alla propaganda imperialista della “missione civilizzatrice”, quindi, l'Occidente è sempre stato visto come il distruttore della tradizione,  un salvatore modernizzante in soccorso di un'Africa riluttante in preda a una millantata esistenza tribale. In questa storia, l'Africa precoloniale sarebbe stata organizzata in unità tribali caratterizzate dalla stessa lingua, cultura, parentela, stessa eredità e stesse leggi imposte dalle gerarchie tribali di potere.

E se da una parte è diventata sempre più chiara la relazione colonizzatori-colonie e il ruolo che questa ha giocato nella costruzione socio-economica e politica dell’Africa contemporanea, dall’altra questa narrazione spesso manca di una visione corretta proprio di quella realtà “originaria” del continente (ben lontana dall’essere così omogenea e culturalmente coesa). Tuttavia questa retorica diventa funzionale quando si tratta di populismo politico ed è il motivo per cui gli interventi internazionali in questo campo, seppur in buona fede, hanno generalmente l’effetto opposto, con un irrigidimento delle posizioni contro l’omosessualità per mantenere “saldi quei valori e tradizioni africane".

Negli ultimi anni, le critiche alle azioni svolte da attivisti internazionali occidentali sono arrivate dalle organizzazioni africane di lotta per le minoranze sessuali stesse. Alla fine del 2011, il primo ministro britannico, David Cameron, annunciò che gli Stati africani che criminalizzavano l'omosessualità avrebbero rischiato di vedersi ridurre gli aiuti da parte loro: una dichiarazione percepita subito come un lampante esempio di imperialismo culturale a cui diversi leader africani (ad esempio in Ghana o in Uganda) hanno risposto che nulla gli avrebbe fatto abbandonare i propri valori, denunciando la minaccia alla sovranità statale rappresentata da questa dichiarazione. Allo stesso tempo, una petizione degli “attivisti africani per la giustizia sociale” firmata da più di cinquanta organizzazioni africane (principalmente per la difesa delle minoranze sessuali) spiegava che questo non era il miglior servizio da rendere ai diretti interessati, sottolineando in particolare l'appartenenza delle minoranze sessuali alle popolazioni che beneficiano di aiuti economici, la necessità di agire attraverso l'educazione piuttosto che attraverso le sanzioni e i rischi di contraccolpo a cui le persone interessate avrebbero potuto essere esposte a seguito dell'applicazione di tali misure.

Nel 2007 un testo firmato da venti gruppi africani, diffuso al World Social Forum di Nairobi, metteva in guardia contro l'organizzazione britannica OutRage!, guidata dall'attivista Peter Tatchell, che aveva lanciato una campagna contro l'approvazione di una legge che avrebbe vietato il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Nigeria. L’attivista fu accusato di imporre metodi e un'agenda lesiva degli interessi delle persone interessate senza consultarle. Questa critica ripropone la questione della rappresentanza politica, diritto di cui alcuni attori esterni abuserebbero in nome della necessità di parlare per i senza voce.

Tutto questo mostra come l'omofobia sia un tema fortemente politicizzato. L'obiettivo di questo articolo è ridimensionare l'immagine di un'Africa intrinsecamente omofoba e mettere in luce la storicità delle recenti esplosioni di omofobia, in particolare il modo in cui si relazionano al passato coloniale e alla sua realtà postcoloniale, senza per questo minimizzare la reale forza dei movimenti anti-omosessualità nel continente oggi. Se le responsabilità in questo caso rimangono dei singoli leader e del modo in cui essi amministrano i loro Stati, è importante sottolineare la necessità di un’analisi decoloniale dell’Africa e della sua realtà socio-culturale, che vada oltre alla narrazione del salvatore bianco, che spesso tende a identificare certi fenomeni come intrinsechi a una cultura “incivile” (allo stesso modo in cui secoli fa lo si fece per imporre ciò che oggi si ripugna).

È inoltre fondamentale notare come la mancanza di autodeterminazione e la tendenza degli occidentali a voler imporre i propri modelli sugli altri, senza analisi critica e concreta dei diversi contesti di riferimento, sia spesso deleteria per le popolazioni che vi risiedono.

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Da un punto di vista pratico, nonostante tutte queste differenze, emerge una realtà innegabile: gli interventi dall'esterno sull'Africa di politici o attivisti, che prescrivono determinati valori, possono facilmente diventare controproducenti. 

La soluzione a questo problema non sta tanto negli sforzi messi in atto per dimostrare che l'omofobia (più che l'omosessualità) non è culturalmente africana, quanto nel rendere la difesa dei diritti umani parte integrante dei movimenti anticoloniali e nazionalisti, come d’altronde fanno da decenni le diverse associazioni locali che si battono per i propri diritti.

Immagine in anteprima via Australian Institute of International Affairs

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