‘Quando c’era Berlinguer’: Veltroni ha diretto un film comico
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Sul piano della realizzazione, Quando c'era Berlinguer è un film inizialmente pensato per il circuito televisivo, come fatto capire da Veltroni stesso in un'intervista ad Andrea Scanzi per Il Fatto Quotidiano, e si nota. Il film è troppo lungo, come uno speciale in due parti visto senza sosta. Molti spezzoni d'intervista si potevano tranquillamente tagliare, sono ridondanti e creano l'effetto Vecchi Amici e Presidenti della Repubblica Che Ricordano Enrico. Non capisco, inoltre, cosa c'entri Jovanotti, presentato come «cantante e artista», in mezzo a politici, amici e parenti di Berlinguer. A che titolo Jovanotti mi racconta Berlinguer, in particolare l'episodio in cui Benigni lo solleva? Avrebbe avuto senso intervistare quest'ultimo, al limite. Domina poi il kitsch, le due lacrimucce kunderiane che dicono allo spettatore: «com'è bello commuoversi per Berlinguer! Non sarebbe bello se tutti ci commuovessimo per Berlinguer?».
Ma il vero problema del film è il problema di qualunque produzione culturale di Walter Veltroni, ossia Walter Veltroni stesso, la sua storia politica, gli errori commessi, la rimozione continua di quegli errori e la convinzione di dover continuare la missione politica con altri mezzi, saltando la fase dell'assunzione di responsabilità.
Non puoi fare un film su Enrico Berlinguer, sul PCI, se hai operato per distruggere la trasmissibilità di quella tradizione che attraverso Berlinguer evochi nostalgicamente. Se lo fai, crei continui cortocircuiti di senso, specie se ancora hai bisogno di rimuovere l'idea di essere stato comunista. Risulti comico. Non puoi essere voce narrante sullo schermo (ricordando, al primo comizio, che tu eri là, e inquadrando persino la compagna dai capelli rossi che non ti si filava!) e attore politico di primo piano negli ultimi 20-30 anni, pensando che i due piani risultino sovrapposti solo quando tu li senti tali.
È ovvio che la cultura in casi del genere è la prosecuzione del potere politico con altri mezzi, e lo sguardo con cui Veltroni si approccia al passato si sovrappone con l'immagine che vorrebbe dare di sé nel presente. Quando, grafico alla mano, il narratore Veltroni fa vedere che Berlinguer aveva portato il PCI oltre il 30%, perché lo spettatore dovrebbe far finta che a parlare non sia l'ex segretario che ha portato il PD al 37%? Uno che, insomma, pur perdendo clamorosamente le elezioni, ha fatto meglio di Berlinguer, e sempre nel solco di un'estromissione dell'estrema sinistra?
Quel che è peggio, ed è tipico del linguaggio di potere, Veltroni dice quel che sente come se non dovesse poi dimostrare la validità dell'enunciato, tanto poi ciò che sta attorno si adegua all'enunciato (per conformismo, paura o convenienza). Non parlo naturalmente della ricostruzione storica; dico dello sguardo dell'autore, della lente con cui filtra il mondo per restituirlo attraverso l'opera. All'inizio del documentario, ad esempio, Veltroni loda il modo di esprimersi di Berlinguer, così diverso dagli altri funzionari del PCI, definendolo «poetico»: lo stacco però ci mostra Berlinguer seduto a un tavolo, occhiali spessi inforcati, mentre legge come un professore universitario a un convegno. Un poeta molto noioso, il buon Enrico.
Restando su questo piano, il Pasolini citato nel film è completamente decontestualizzato:
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.
È il Pasolini di Che cos'è questo golpe? (l'Io so), plasmato per dare un'immagine del PCI funzionale alla storia che si vuole raccontare sullo schermo, dove quel PCI è rappresentato da Berlinguer. Ma in quello stesso articolo Pasolini continuava in modo critico, seppure da sinistra:
proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere. Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto [corsivi miei].
Già nel 2011 Veltroni aveva operato questa rilettura completamente priva di contesto di Pasolini, imitandolo addirittura in una lettera al Corriere in cui riecheggiava l'Io so: Io so che questa Italia merita di più. Si vede ancora il meccanismo che si autoassolve nella parodia, nel continuo accecamento. Perché Veltroni sa, ma sa in quanto politico, eppure non dice se ha le prove, non cita gli indizi. Piuttosto, rimuove tutto indossando la maschera dell'intellettuale engagé, retrocedendo così dalla responsabilità politica:
Io so che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono stati uccisi solo dalla mafia. Io so che lo Stato, o pezzi di esso, ha collaborato, coperto, deviato. Io so che l' attentato dell'Addaura fu organizzato da «menti raffinatissime», che volevano togliere di mezzo quel magistrato scomodo per tutti. Io so che qualcuno mandò lì, per salvare Falcone, due ragazzi, due agenti dei servizi leali allo Stato. Si chiamavano Antonino Agostino e Emanuele Piazza. Io so che non è stata solo la mafia ad ucciderli, l' uno massacrato con sua moglie e l' altro sciolto nell' acido, nelle campagne di Capaci.
Ma mentre indossa la maschera se la fa scappare di dosso, mostrando il vero volto per un istante:
Io so che il potere in Italia, è più opaco che altrove. Leonardo Sciascia diceva che nel nostro Paese «Il potere è altrove», non nei governi, non nel Parlamento. So, per la breve esperienza di due anni che ho avuto al governo, che non ci sono cassetti da aprire che non siano già stati svuotati. So che a chi governa, e lo accetta, è richiesta una cieca continuità. Che Ustica rimanga un cedimento strutturale e la morte di Calvi un suicidio. Perché solo così quel grumo di interessi opaco potrà continuare a dominare condizionando con la violenza, come sempre è stato, il destino politico del Paese [corsivo mio].
Questo meccanismo parodiante mi sembra culturalmente dannoso, nella comicità involontaria che esprime. È un comico che si sovrappone a un genere, distruggendolo. È comico non per stile, ma per contrasto tra stile e debordamento delle intenzioni reali. Su un piano simbolico, immaginate Edipo che, alla fine della tragedia, invece di accecarsi una volta compresa la colpa commessa, prenda la parola per dire: «c'è del marcio a Tebe! Bisogna far qualcosa per il morbo che sta distruggendo la città! Purtroppo qualcuno ha ucciso il nostro amato re, Laio, che per me era come un padre, ma noi dobbiamo farci forza e sconfiggere il morbo! Io so, chi è stato, ma non ho le prove, non ho nemmeno indizi! Noi siamo impotenti di fronte a questa sciagura, ma sapete che vi dico? Comporrò un'opera su Tebe, perché la memoria è importante, specie in tempi così bui». E se qualcuno dicesse «Edipo, stai scherzando? L'hai ammazzato te, Laio», Edipo risponderebbe «andate a chiamare l'indovino Tiresia»; nel frattempo Tiresia, se è furbo, è scappato molto lontano da Tebe. Temo però che attorno a Edipo, oggi, ci sia la fila di persone pronte a gioire: «un'opera su Tebe? Che grande idea, o mio Re, se serve una mano sono a disposizione».