Putin vuole il dominio dell’Ucraina
4 min letturaDopo l’incontro tra le delegazioni statunitense e ucraina, avvenuto lo scorso 11 marzo a Gedda, in Arabia Saudita, e la dichiarazione congiunta sulla disponibilità a una tregua di 30 giorni, l’attesa per una risposta da parte del Cremlino era forte. Il clima di tensione internazionale e la necessità di una svolta nel conflitto in Ucraina hanno reso l’incontro un momento di grande rilievo diplomatico, segnato dall’appello esplicito del segretario di Stato Marco Rubio: “la palla passa alla Russia”.
Due giorni dopo, nella conferenza stampa tenuta al termine del vertice con il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, Vladimir Putin ha finalmente preso posizione. Ma, per rimanere nella metafora usata da Rubio, la sua risposta è stata un tiro a “campanile”: un gesto che, più che imprimere una direzione chiara e risolutiva, ha lasciato ulteriori interrogativi su cosa accadrà nei prossimi giorni.
Il presidente russo ha infatti evitato di pronunciarsi direttamente sull’eventualità di un cessate il fuoco immediato, con un’espressione – da, no est’ njuansy (sì, ma ci sono delle sfumature) – che, in modo cordiale ma fermo, ha introdotto le condizioni di Mosca per accettare in toto la proposta proveniente dai colloqui di Gedda. Putin ha sollevato una serie di questioni sul cessate il fuoco di primaria importanza: il controllo della linea del fronte, estesa per circa 2000 chilometri; il rifornimento di armi e una possibile nuova mobilitazione in Ucraina; infine, il destino delle truppe di Kyiv in ritirata dalla regione di Kursk, dopo che l’ultimo importante centro sotto controllo ucraino, Sudzha, è stato ripreso dai russi.
Già prima della conferenza stampa si erano avute le prime indiscrezioni sulla posizione del Cremlino, tramite le dichiarazioni ai giornalisti di Yurii Ushakov, consigliere di Putin. Nel commentare l’offerta congiunta, Ushakov aveva fatto notare come l’eventuale tregua in Ucraina avrebbe potuto rappresentare, di fatto, solo una pausa in grado di poter fornire un raggruppamento operativo al nemico, senza per questo essere un autentico passo verso la risoluzione del conflitto. Sempre secondo quanto detto dal rappresentante russo alla stampa durante un colloquio con il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti, Mike Waltz, sarebbe stata ribadita la posizione di Mosca, sottolineando come la Russia miri a una soluzione pacifica di lungo periodo, dove gli obiettivi del Cremlino in termini di sicurezza dovranno essere tenuti in considerazione. «Passi che simulano azioni di pace non servono a nessuno» ha poi aggiunto Ushakov, lasciando intendere che Mosca non fosse disposta ad accettare tregue meramente simboliche, utili solo a consentire all’Ucraina di riorganizzare le proprie forze, piuttosto che a costruire un vero dialogo.
Un’anticipazione, come poi si è rivelato più tardi, dell’intervento di Vladimir Putin in conferenza stampa, le cui valutazioni «più concrete e sostanziali» sulla questione sono state introdotte dal consigliere del Cremlino, il quale ha inoltre sottolineato come, nel quadro delle discussioni sulla risoluzione del conflitto e sul futuro dell’Ucraina, tanto Mosca quanto Washington ritengano che la prospettiva di un’adesione di Kiev alla NATO non possa essere presa in considerazione.
Nulla di nuovo rispetto a quanto già affermato nelle scorse settimane dai diplomatici russi d’alto rango, dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov al suo vice Sergei Ryabkov, nelle cui dichiarazioni più volte si son ribadite le condizioni russe – neutralità di Kyiv, stop al rifornimento di armi, demilitarizzazione del paese, riconoscimento della “nuova realtà territoriale” (ovvero l’annessione delle aree occupate) e nuove elezioni – ritenute imprescindibili per l’avvio di trattative e per raggiungere una pace duratura.
Posizioni soltanto apparentemente in contrasto con il tono dei talk-show e delle trasmissioni televisive in onda sulle reti russe, dove le prime settimane della presidenza Trump sono state celebrate in contrasto, raggiungendo il culmine dopo lo scontro tra il tycoon americano e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in diretta alla Casa Bianca: l’idea è di mostrare un Occidente diviso tra chi, come sottolineato da Lavrov, «crede in Satana» e i sostenitori del ritorno ai valori tradizionali. Una considerazione che ha portato persino alla teorizzazione, da parte del sempre attivissimo Aleksandr Dugin (sempre pronto a cogliere il momento), della «rivoluzione trumpiana», analizzata in un recente libro, dove si individua nell’antiglobalismo, anti-woke e post-liberalismo le sue principali caratteristiche.
Nell’affrontare la questione delle trattative sfugge un elemento fondamentale presente (e ribadito a più riprese) nelle posizioni presentate dal Cremlino, basate su un discrimine ideologico imprescindibile: la necessità di porre fine a quella “anomalia storica” che l’Ucraina rappresenterebbe. Sin dal luglio 2021, quando apparve il saggio di Vladimir Putin sull’unità storica dei russi e degli ucraini, il tema della costruzione “artificiale” dell’identità ucraina, riprendendo anche argomenti del nazionalismo russo d’inizio Novecento, è stato più volte al centro degli interventi del presidente, soprattutto negli snodi principali della guerra, dal riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donec'k e Luhans'k fino all’annessione delle regioni del sud-est dell’Ucraina.
Una questione difficilmente risolvibile al tavolo delle trattative, e da più parti emergono indiscrezioni su come la tattica di Putin sia volutamente volta a dilazionare il tempo, ritenendo che esso sia dalla propria parte, basandosi sulla lenta (e dispendiosa in termini di uomini e mezzi) avanzata in Donbas unito all’entusiasmo suscitato dalla riconquista del distretto di Sudzha, ultimo avamposto ucraino nella regione di Kursk. Dovrebbero far riflettere anche le parole dedicate dal presidente russo nel corso della conferenza stampa a quest’ultimo caso, sostenendo la necessità di creare una “zona cuscinetto” al confine, forse alludendo alla possibilità di avanzare nella regione ucraina di Sumy.
Le possibilità di Donald Trump nel poter fare pressioni su Mosca, attraverso l’utilizzo di ulteriori sanzioni e di strumenti finanziari ed economici (nella serata di giovedì Washington non ha rinnovato la licenza alle compagnie americane di poter acquistare petrolio e gas pagando direttamente tramite le banche russe), appaiono in questo modo, alla luce dell’elemento ideologico presente nella retorica e nelle posizioni del Cremlino, votate al rischio di scontrarsi con una visione dell’Ucraina da sconfiggere e asservire totalmente. Posizioni difficilmente accettabili per chi vuol farsi passare come risolutore e pacificatore di conflitti, soprattutto se l’interlocutore ritiene che sia necessario ottenere un unico risultato: delenda Kyiv.
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