A un anno dall’invasione in Ucraina nessuno è in grado di fermare Putin
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A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, i cambiamenti avvenuti all’interno della società russa iniziano a essere visibili con maggiore nettezza. Le cifre raccontano di un paese che nel corso del 2022 ha visto circa un milione di suoi cittadini emigrati per sfuggire alla mobilitazione o alla repressione; almeno 14.709 soldati sono caduti nelle battaglie al fronte, di cui 1.082 mobilitati. I dati di OVD-Info, progetto che monitora le persecuzioni politiche in Russia, parlano di 19.535 arresti nelle iniziative contro la guerra e la mobilitazione dal 24 febbraio 2022, mentre secondo il procuratore generale Igor Krasnov attualmente vi sono 187 processi in corso per vilipendio alle forze armate e fake news. La guerra, seppur al momento marginalmente, è diventata parte della vita quotidiana in alcune aree di Russia, ovvero in quei distretti ai confini con l’Ucraina e diventati anche loro teatro di distruzioni di gran lunga inferiori a quanto avviene nelle città ucraine, ma comunque significative: dalle regioni di Kursk, di Belgorod e di Brjansk ogni giorno arrivano notizie di bombardamenti di artiglieria, e alcuni villaggi sono stati evacuati durante questi mesi. In questi territori si è anche registrato un aumento record dei delitti a mano armata: dal gennaio all’ottobre 2022 nelle regioni di Kursk e di Belgorod si son avuti incrementi significativi, rispettivamente del 675% e del 213%, secondo i dati del Ministero russo degli Interni, che fissa una crescita di questo tipo di crimini al 30% per tutta la Russia.
L’atomizzazione della società russa, tema su cui da anni gli studiosi dibattono, continua a essere la vera questione del presente e del futuro del paese. La vasta zona grigia in cui sono presenti diffidenze, paure, interessi opportunistici, pigrizia mentale, delusione e tanti altri sentimenti resta maggioritaria, unita dall’idea del mantenimento di una stabilità, marchio del primo decennio putiniano, ormai illusoria. La mobilitazione parziale ha prodotto però delle oscillazioni, per ora non in grado di essere portatrici di un cambio di fase, fenomeno confermato anche dai sondaggi commissionati dal Cremlino. Valerij Fedorov, direttore del VTSIOM, il centro russo di studi sull’opinione pubblica, ente di proprietà statale, in un’intervista al quotidiano Argumenty i fakty del 29 dicembre 2022 ha spiegato come la mobilitazione abbia cambiato l’atteggiamento delle persone, perché "(in quel momento) capisci che a combattere non saranno più soltanto i professionisti, gli spetsnaz, i quali alla fine sono pagati per quello. Ognuno ha capito che adesso (a combattere) sarebbe andato lui stesso, o il fratello, un parente, un conoscente, un collega… cioè gente che non ha mai pensato di imbracciare un’arma e andare lì, dove bisogna uccidere e dove si può essere uccisi, e ovviamente questo genera ansia. Si può dire che l’ansia permanga come il più importante fattore nella società". Ed è questo tipo di sentimento a prevalere anche nelle proteste contro la guerra, come avvenuto in occasione del bombardamento di Dnipro, con la deposizione di fiori e di cartelli di solidarietà in varie città russe. A essere determinante nella mancata trasformazione dell’ansia in un’espressione più politica e forte del dissenso è l’assenza di organizzazioni e di strutture, in gran parte a causa della repressione contro i media indipendenti e gli attivisti di ogni colore (non solo liberali, ma anche ecologisti, socialisti, comunisti, sindacalisti e persino nazionalisti) dal 2012, anno del ritorno di Vladimir Putin al Cremlino dopo il quadriennio di Dmitrij Medvedev da presidente.
I russi che omaggiano le vittime dell’attacco di Dnipro sfidando censura e repressione
La distruzione di ogni possibile alternativa organizzata all’interno della società russa ha creato una situazione per cui figure da anni attive all’estero, come Mikhail Khodorkovsky e ancor di più Garry Kasparov, non sono in grado di rappresentare al momento un polo d’aggregazione per quei russi che si oppongono a Putin, né in patria né all’estero, a differenza di Alexey Navalny e Ilya Yashin, e, seppur in misura minore, del sindacalista Mikhail Lobanov. La partecipazione dei due esuli alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza appare come un dialogo con dei singoli, senza tener conto della situazione reale in Russia, dove a muoversi è principalmente (ma non solo) una generazione di nuovi attivisti, lontana dall’epoca in cui Kasparov e Khodorkovsky erano presenti sulla scena politica all’interno del paese. Attorno a Navalny nel recente passato vi sono state mobilitazioni che hanno portato in strada migliaia di persone, spesso con serie conseguenze per gli arrestati, un indicatore di come in realtà in Russia vi fosse uno spazio, la cui distruzione è stata scientificamente perseguita dal Cremlino, d’alternativa e d’opposizione ancor prima della guerra in Ucraina. L’avvelenamento e l’arresto del politico hanno rappresentato uno dei momenti di maggiore scontro politico nei due decenni del potere putiniano, e il duro regime di detenzione a cui è sottoposto, con ormai frequenti periodi in isolamento, non sembrano piegarne la volontà. Oggi Navalny è uno dei simboli dell’opposizione, probabilmente il più seguito tra le sue figure, e il giorno prima della relazione di Putin all’Assemblea federale è stata pubblicata una piattaforma in quindici punti, nei quali il detenuto illustra la propria visione del futuro della Russia. Divise in tre sezioni, le tesi di Navalny partono dalla situazione attuale, denunciando la guerra e i crimini commessi dall’esercito russo, e individuando le cause nei problemi, sociali e politici, accumulatisi all’interno della Russia e nelle interpretazioni di Putin del proprio ruolo come riunificatore delle “terre russe”. L’esponente dell’opposizione, nella parte dedicata al che fare, fa propria la rivendicazione dell’Ucraina nei confini del 1991, un passaggio significativo viste le polemiche in passato riguardo alle dichiarazioni a proposito dello status della Crimea, da definire attraverso un “referendum normale”, e in seguito ritenuto una questione da risolvere, nel rispetto della volontà popolare, dalla nuova Russia democratica.
Oggi la posizione di Navalny è diversa, ed è riassunta in un passaggio della quindicesima tesi, quando scrive che "quasi tutti i confini al mondo sono casuali e causano l’insoddisfazione di qualcuno, ma combattere per cambiarli nel XXI secolo non si può, altrimenti il mondo sprofonderà nel caos". Le compensazioni per i danni di guerra sono un obbligo morale, da pagare anche attraverso una nuova stagione di ripristino degli scambi commerciali. Appare, per la prima volta in un documento della variegata opposizione russa, la rivendicazione dell’Assemblea Costituente come fase necessaria per ripensare la Russia e il suo sistema politico, per cui Navalny propone la repubblica parlamentare. È assente, però, ogni riferimento alla struttura federale, al centro di una forte discussione dentro e (soprattutto) al di fuori della Russia, con posizioni che variano da una ridefinizione in chiave sinceramente federalista ad appelli alla secessione da Mosca; più volte accusato di simpatie e flirt con il nazionalismo russo per aver preso posizioni contro l’immigrazione dall’Asia centrale e dal Caucaso e partecipato alla Russkij Marš, la Marcia russa appuntamento storico dell’estrema destra, Navalny ha rivisto in alcuni casi le sue idee e ha adottato un tono diverso rispetto alla questione nazionale in Russia, problema di enorme importanza per l’equilibrio stesso del paese. La risposta alle accuse di adesione all’imperialismo russo, mossa anche in questi mesi dagli attivisti per la decolonizzazione della Federazione Russa, è nelle tesi 9 e 10, dove si condanna la imperskost’, ovvero la coscienza imperiale, ma si ribadisce come essa non sia il tratto costitutivo di tutti i russi, e ricordando come ogni tipo di espansione territoriale, per uno Stato già di suo esteso, sia letale per il suo sviluppo. La piattaforma rappresenta un tentativo di elaborare una proposta in grado di consentire una riflessione immediata sulla fine della guerra, che al momento appare lontana.
Da parte del regime l’idea di società proposta nel corso di quest’anno continua a essere la rivendicazione dei valori tradizionali come perno della visione della Russia propugnata dal Cremlino. Negli interventi di Putin ormai la condanna delle famiglie omogenitoriali e delle “perversioni” è una costante, accompagnata dall’attacco all’Occidente collettivo ora decadente, ora satanista. Anche nella relazione all’Assemblea federale del 21 febbraio, il presidente russo è tornato a sventolare il vessillo della tradizione religiosa e della famiglia come unione tra uomo e donna, tra accuse di pedofilia e di blasfemia all’indirizzo delle società occidentali. Se nel discorso, durato un’ora e tre quarti, non vi è stata la chiamata alla mobilitazione della popolazione attorno al leader e all’operazione speciale, dandole per acquisite, vi è però un aspetto che rivela su quale parte della società il Cremlino voglia investire per garantire stabilità al regime.
I militari, i volontari e i mercenari, ex detenuti e semplici avventurieri, sono le figure su cui punta Putin, e al cui inserimento sociale è stato dedicato ampio spazio nella sua relazione. I partecipanti all’operazione speciale e le loro famiglie non dovranno solo ottenere il sostegno delle autorità federali e regionali nell’accesso ai serviI sociali e alla sanità, ma essere ricollocati con la creazione di nuovi posti di lavoro in vari settori, dall’istruzione sempre più militarizzata alle amministrazioni locali. Per i lavoratori del complesso militar-industriale, settore di cruciale importanza per l’economia russa già prima della guerra, affitti agevolati e incentivi per stimolare la produzione, chiarendo anche quali saranno le direttrici dello sviluppo industriale dei prossimi anni, tra promesse di realizzare opere in cantiere da decenni (come la BAM, la ferrovia Bajkal-Amur, iniziata negli anni Trenta del XX secolo) e il pagamento dei sussidi per la maternità dal 2007 a oggi alle donne con figli nei territori ucraini annessi.
Nel complesso si stima che il costo complessivo delle misure proposte da Putin ammontino tra i 400 e i 500 miliardi di rubli (4,9-6,2 miliardi di euro), e i tempi e le modalità della loro realizzazione non sono chiari a differenza dell’obiettivo di favorire il consolidamento di un nuovo gruppo sociale, i combattenti, da utilizzare come nucleo del sostegno a Putin. Un messaggio significativo, perché accompagnato dal monito verso la classe imprenditoriale russa, a cui il presidente ha ricordato il blocco degli investimenti e dei conti, l’espropriazione delle residenze e delle proprietà all’estero come una sorta di contrappasso dovuto alla mancanza di investimenti in Russia.
L’annuncio della sospensione della partecipazione della Russia allo START III, avvenuta verso la fine della relazione, non deve essere letta unicamente come replica di Putin alla visita di Biden a Kyiv, ma anche come tentativo di rilanciare l’idea di negoziati sulla sicurezza, dato che il presidente russo ha citato esplicitamente gli arsenali nucleari di Francia e Gran Bretagna, paesi membri dell’Alleanza Atlantica e quindi parte in causa. Già nel corso del 22 febbraio, però, il Ministero russo della Difesa ha annunciato che verranno rispettate le limitazioni stabilite dai trattati e verranno mantenute le comunicazioni, senza però acconsentire alle ispezioni dell’Agenzia atomica internazionale, come sottolineato da Putin.
La frattura tra Mosca, l’Unione Europea e gli Stati Uniti non è mai stata così ampia, e nemmeno le convergenze con l’Iran, i rapporti con la Cina e la Turchia sembrano però essere una vera base per un blocco anti-occidentale, a più riprese promosso a parole dal Cremlino ma di difficile realizzazione. Quel che sembra apparire, alla luce di questi mesi, come centrale nelle relazioni internazionali, è il vecchio adagio dello zar Alessandro III (più volte elogiato da Putin) sull’esercito e la flotta come unici, veri e affidabili alleati della Russia. La militarizzazione annunciata, con il ruolo privilegiato che dovranno avere l’esercito e i volontari nella società russa, rientra in questa ottica ma non è esente da rischi. Possibili velleità di ottenere maggior potere da parte delle varie cordate in cui è diviso già oggi il futuro blocco sociale di riferimento di Putin non sono da escludere, e in verità già sono in corso scontri ormai di pubblico dominio. Infatti, l’annuncio del presidente avviene nei giorni in cui lo scontro tra Evgenij Prigožin e il Ministero della Difesa assume toni sempre più accesi, e alle ripetute dichiarazioni sui mancati rifornimenti alla Wagner i vertici militari rispondono accusando i mercenari di essere divisivi.
La stabilità putiniana, a distanza di un anno dall’inizio dell’aggressione militare, appare un ricordo di un’epoca lontana, e la struttura del potere è alle prese con pressioni e sollecitazioni inedite; la comparsa di figure esterne all’establishment, come Prigožin o i voenkory, gli attivisti nazionalisti presenti al fronte e ribattezzatisi corrispondenti di guerra, spesso in aperta polemica con i vertici delle forze armate senza (al momento) conseguenze, appare paradossale in un paese dove aumentano i prigionieri politici per reati d’opinione. C'è una canzone dei Kino, gruppo leggenda del rock sovietico, Električka (così vengono popolarmente chiamati i treni suburbani), del 1982, ritenuta tra i principali simboli dell'epoca brežneviana ormai giunta al termine. In quell’anno Viktor Tsoy nel ritornello cantava “il treno mi porta dove non voglio andare”: una metafora oggi, a distanza di quarant’anni, adatta a descrivere lo stato d’animo di molto russi. Nessuno però al momento appare in grado di fermare la guerra, e il treno continua a correre spedito verso ulteriori tragedie.
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