Cosa sta succedendo dentro il sistema di potere di Putin dopo 9 mesi di guerra e la ‘mobilitazione parziale’
8 min letturaAggiornamento del 28 dicembre 2022: In questi giorni è apparso su Važnye istorii, media di particolare interesse, una piccola ma assai significativa analisi su come Prigožin si stia facendo dei nemici.
Oltre al ministero della Difesa, il ristoratore diventato ras della compagnia di mercenari Wagner ha iniziato a rendersi sgradito dall'amministrazione presidenziale, da alcuni amici di Putin e dall'FSB. Andiamo con ordine, provando a riassumere cosa Važnye istorii avrebbe ricostruito attraverso le sue fonti:
- Sergej Kirienko, che nell'amministrazione presidenziale oltre alla politica interna cura l'integrazione dei territori occupati, è contrariato dai continui interventi di Prigožin in queste due aree di sua competenza: i costanti attacchi al governatore di Pietroburgo Beglov e le interferenze in Donbass irritano non poco Kirienko, personaggio che ha una lunga storia nei circoli di potere in Russia (brevemente primo ministro nel 1998, poi a capo di Rosatom);
- tra gli amici di Putin, e soprattutto da parte di Jurij Koval'čuk, considerato una delle menti più vicine al presidente e alla guida della banca Rossija, vi sarebbe sconcerto perché i due mondi - quello del crimine organizzato da cui proviene Prigožin e le amicizie presidenziali - non si intersecavano. Questa parte mi convince poco, dopo spiegherò il perché;
- l'FSB sarebbe contrariato, perché Prigožin non è sotto il loro controllo, recluta detenuti e si serve degli agenti come scorta nei suoi viaggi nei penitenziari.
Inoltre a unire i vari "scontenti" vi sarebbe l'insoddisfazione per l'accesso diretto del capo della Wagner a Putin, senza passare da loro.
Se in molte parti la ricostruzione collima con quanto osservato e scritto in questi mesi, convince poco (a meno che non si tratti di un cambio repentino di posizioni) quanto si dice su Koval'čuk, che secondo altre fonti sarebbe colui che ha facilitato l'ascesa di Prigožin.
Resta però un fatto, d'importanza enorme: lo sgretolamento della verticale del potere, con l'emersione di personaggi e interessi i cui interessi e scontri sono diventati pubblici e che appaiono difficilmente ricomponibili dietro le quinte, come avveniva in passato. In più a rendere tutto questo molto importante è la questione del monopolio della forza.
La guerra in Ucraina scatenata da Vladimir Putin sta mettendo a dura prova la capacità di resistere alle pressioni del regime russo. Con le dovute cautele, si può definire il 2022 il primo momento di crisi per il sistema dalle proteste contro i brogli elettorali di undici anni fa, culminate con la manifestazione in piazza Bolotnaja il 6 maggio 2012, in concomitanza con il ritorno di Putin al Cremlino dopo il mandato di Dmitrij Medvedev. La cosiddetta operazione speciale, passata dal dover essere una specie di guerra-lampo a mesi di conflitto brutale, è riuscita a far emergere crepe importanti nella “verticale del potere” a Mosca, e a rivelare particolari debolezze prima nascoste in modo più o meno abile.
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Tornare indietro al 23 febbraio, il giorno prima dell’attacco mosso contro l’Ucraina, è impossibile. Dopo mesi di bombardamenti e atrocità, le élite russe non hanno spazi di manovra per ottenere una via d’uscita in grado di far passare la guerra come l’ultimo, tragico, atto di un presidente settantenne e da troppo tempo ai vertici del paese. Anche se, come più volte ricostruito attraverso il lavoro dei giornalisti esperti di Cremlino (si vedano, ad esempio, la puntuale disamina di Farida Rustamova e la discussione tra Andrey Pertsev e Konstantin Gaaze), la decisione di iniziare le ostilità è stata presa da Putin coinvolgendo solo alcune personalità, tra cui il ministro della Difesa Sergei Shoigu e la direzione dell’FSB, non vi sono state posizioni pubbliche contro l’avventura militare. A minacciare la stabilità del sistema putiniano è però lo stesso presidente.
L’immagine di invincibilità costruita sulla figura di Putin sin dal 1999, innervata di decisionismo e di efficienza, è stata ed è al centro della propaganda russa. Un’immagine usata anche, con un discreto successo, dal merchandising per dar vita a un culto della personalità post-moderno, non controllato o direttamente promosso dall’alto, ma diffuso tra fasce della popolazione e diventato un mantra per i siloviki e per i quadri amministrativi. Esemplare di quanto sia pervasiva questa immagine è la frase pronunciata dal presidente della Duma Vyacheslav Volodin nel 2014, quando ancora era responsabile dell’Amministrazione presidenziale: “C'è Putin - c'è la Russia, non c'è Putin - non c'è la Russia”. Gli alti indici di gradimento, spesso ottenuti attraverso vari accorgimenti, hanno rappresentato in questo contesto una modalità distorta di misurazione della popolarità del leader, così come le decisioni controverse in vari campi sensibili, come nel caso della riforma delle pensioni del 2018, sono state attribuite al governo in una ripetizione attualizzata del vecchio adagio dello zar buono e dei boiari cattivi. La proiezione crescente sulla politica estera, culminata, ancor prima dell’aggressione definitiva all’Ucraina, nell’intervento nella guerra civile siriana nel 2015, è stato un ulteriore elemento nella costruzione del mito putiniano, dopo che i successi economici degli anni Duemila avevano iniziato a spegnersi con il ribasso dei prezzi di petrolio e gas e le sanzioni seguite all’annessione della Crimea. Un Putin sempre più rivolto all’esterno, una scelta strategica anche in chiave interna, per presentare il presidente come protagonista indiscusso degli scenari globali, di volta in volta difensore dei cristiani perseguitati o della laicità in Siria, vendicatore dei russi oppressi nei paesi una volta parte dell’Urss, o ideale capo della variegata galassia ultraconservatrice, religiosa e d’estrema destra in Europa.
Allo stesso tempo nell’establishment russo hanno iniziato a guadagnare spazio figure e posizioni espressione del nuovo corso nazional-imperiale intrapreso da Putin. L’oligarca Konstantin Malofeev, a capo di un impero mediatico e finanziario costruito partendo dalle telecomunicazioni, con la sua holding Tsargrad è riuscito a diventare un punto di riferimento fondamentale dell’estrema destra russa, unendo anche personaggi e sensibilità diverse nella comune battaglia. Convinto sostenitore della monarchia e nostalgico dell’età zarista, Malofeev nel 2014 si fa promotore di una riunione a Vienna in occasione del bicentenario della Santa Alleanza, consesso a cui hanno preso parte esponenti di antiche casate aristocratiche, come Sisto Enrico di Borbone-Parma o il conte Serge de Pahlen (marito di Margherita Agnelli), e rappresentanti dei principali partiti della destra populista e estrema in Europa, dal FPO austriaco al Front National francese, per cui era presente Marion Marechal-Le Pen. A tenere i fili della riunione era Aleksandr Dugin, il celebre pensatore neo-eurasista diventato inseparabile sostegno ideologico e di networking di Malofeev. Il coinvolgimento dell’oligarca negli affari esteri di Mosca non si limita però solo a riunioni di leader xenofobi. Igor Strelkov, comandante delle unità russe che si sono introdotte nel Donbas in sostegno ai separatisti nel 2014, era stato poco prima responsabile della sicurezza personale di Malofeev. Aleksandr Borodai, già premier della repubblica popolare di Donetsk, aveva collaborato per anni ai progetti del proprietario di Tsargrad, a cui è legato da rapporti di amicizia. In un’intervista del 2015 Malofeev ha definito Putin
Il miglior governante che abbiamo avuto, probabilmente dai tempi della rivoluzione [...] Se si parla di qualità morali, poi, Vladimir Vladimirovich, per quel che ne so, è assai devoto, vive una vita cristiana. È una gioia enorme, perché per 80 anni dopo la rivoluzione non abbiamo avuto governanti simili.
Ci sono stati tentativi da parte del magnate ortodosso di entrare in politica, come quando ha tentato di acquisire il controllo del partito Russia Giusta, ma i conflitti sorti con la direzione hanno mandato a monte l’operazione. Anche se attualmente a capo di un proprio movimento, l’associazione Tsargrad (il toponimo antico russo di Costantinopoli ricorre nelle iniziative dell’imprenditore), il potere di Malofeev è nella capacità di muovere capitali e tessere relazioni, attraverso lo stretto legame con la Chiesa ortodossa russa (è vicepresidente dell’Assemblea mondiale popolare russa, presieduta dal patriarca Kirill) e il World Congress of Families. Contatti tra Malofeev e Gianluca Savoini, presidente di Lombardia-Russia e attualmente indagato per il caso Metropol, sono stati confermati dal primo, il cui canale tv ha ospitato un’intervista di Dugin a Matteo Salvini nel 2016.
Le ambizioni politiche di Malofeev sembrano essersi sublimate, dopo l’insuccesso nell’ottenere il controllo di Russia Giusta, in un ruolo di possibile regista di quell’area definita dal politologo Konstantin Gaaze il “partito della Terza via”, ovvero quello spazio d’ultradestra, radicalizzato e compattato dalla guerra in Ucraina. In questo senso, l’oligarca agirebbe su più fronti, tramite i propri canali mediatici e utilizzando la propria posizione nell’entourage della Chiesa ortodossa con iniziative come la formazione dei “consigli per la conservazione e il rafforzamento dei valori tradizionali” a livello locale, sulla scia della legge contro la propaganda LGBT appena approvata. Attualmente il vero esponente di punta di quest’area è Evgenij Prigožin, il ristoratore a capo della compagnia di contractors Wagner, diventatone nel corso di questi mesi simbolo. L’ascesa del proprietario della holding Konkord, specializzata in catering e mense, è diventata irresistibile. La libertà di manovra acquisita per il sostegno a Putin e l’impegno dei cosiddetti “musicisti”, ovvero i mercenari della Wagner, consente a Prigožin di attaccare il governatore di San Pietroburgo Aleksandr Beglov, colpevole a suo dire di corruzione e di non aver rispettato gli impegni presi dopo un finanziamento di due miliardi di rubli durante le ultime elezioni. Beglov in più occasioni ha fatto allusioni al passato e al presente criminale dell’imprenditore, ma questo non è servito a fermare le polemiche e le denunce all’Fsb e alla Procura generale, l’ultima per alto tradimento.
D’altronde, Prigožin si presenta come autorità vera e propria nel mondo criminale, dopo aver reclutato migliaia di detenuti nei penitenziari russi e addirittura facendo da garante per il caso di Pavel Nikolin, un soldato della Wagner arruolato nella colonia penale di Ufa e disperso durante i combattimenti per il controllo di Bahmut. Nikolin ha aperto il fuoco contro una pattuglia in borghese della polizia russa nel centro di Novoshatinsk, nella regione di Rostov, e ha spiegato il gesto sostenendo di aver confuso gli agenti con i militari ucraini. Prigožin ha depositato una dichiarazione presso la corte per prendere sotto la propria tutela il soldato e riportarlo al fronte. Un gesto che segue altre azioni del ristoratore, il quale ha viaggiato in questi mesi per le carceri e le colonie penali russe promettendo la concessione della grazia e onorificenze ai detenuti pronti a partire per il fronte, senza dover passare dal riesame o da altre procedure giudiziarie. Il 22 novembre scorso Prigožin ha risposto alle domande del sito Republic, inserito nella lista degli agenti stranieri e bloccato in Russia, e ha dichiarato di non aver intenzione di aderire ad alcun partito o di fondare nuovi raggruppamenti, sebbene abbia ricevuto l’invito dell’attuale leader del Partito liberal-democratico Leonid Slutsky a partecipare alla vita della formazione, orfana di Vladimir Zhirinovsky. Il rifiuto dell’invito è stata l’occasione per un ulteriore scandalo, perché il ristoratore ha dichiarato di provare la più totale mancanza di rispetto per Slutsky.
Episodi del genere rafforzano dinamiche inedite: la solidità della verticale del potere appare minata dagli scontri tra potenti, e una delle regole indiscutibili del sistema costruito attorno a Putin, ovvero evitare di rendere pubblici i conflitti all’interno dell’establishment, è caduta in questi mesi, per iniziativa dei sostenitori più oltranzisti del presidente e della sua linea. A tacere sono quegli esponenti, come il sindaco di Mosca Sergei Sobianin e il primo ministro Mikhail Mishustin, considerati poco o nulla d’accordo con la decisione di entrare in guerra, e ormai coinvolti a pieno nello sforzo bellico attraverso il Consiglio di coordinamento per l’approvvigionamento dell’esercito. La crescente fragilità del sistema è evidente anche dai sondaggi riservati condotti dall’FSO, il Servizio di sicurezza federale responsabile dell’incolumità delle alte autorità russe e da qualche anno anche incaricato di condurre rilevazioni sociologiche, dove il 55% degli intervistati sarebbe a favore di colloqui di pace immediati. Anche la ulteriore svolta omofoba e ultratradizionalista sembrerebbe avere grandi difficoltà ad affermarsi, soprattutto tra le giovani generazioni: uno studio dell’Università statale di Nižnij Novgorod N.I. Lobačevskij, intitolato “La percezione della famiglia e dei rapporti familiari da parte degli studenti”, fornisce dati in totale contrapposizione ai desiderata del regime putiniano. Infatti, tra i giovani che hanno preso parte alla ricerca, il 48% ritiene normale divorziare, il 53% diventare madre da single, il 78% la convivenza senza avere figli, e il 42% dichiara di accettare l’esistenza di coppie omosessuali.
(Immagine in anteprima via Wikimedia Commons)