Putin, l’uso distorto della storia sovietica, l’invasione dell’Ucraina e le parate della Vittoria annullate
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Il 9 maggio, Giornata della Vittoria, è un momento centrale nella narrazione dei 24 anni di Vladimir Putin al potere. L’anniversario, che sancisce la fine della Seconda guerra mondiale in Europa (la firma definitiva della resa avviene l’8, ma a Mosca era già il giorno successivo), ha sempre avuto un particolare significato per milioni di persone in quella che era l’Unione Sovietica: circa 27 milioni di caduti tra civili e militari, distruzioni immani delle principali città situate nella parte europea del paese, la tragedia della distruzione sistematica delle comunità ebraiche e di interi villaggi. La tragica contabilità dei morti per la guerra sul fronte orientale dal lato sovietico è ancora oggi un’operazione infinita, e il riequilibrio demografico in alcuni luoghi, come la Bielorussia, si raggiunse solo molti decenni dopo. Pochissime famiglie possono dire di non esser state colpite dalla violenza di quegli anni, e il ricordo di chi ha preso parte al conflitto ancora oggi è vivo.
Le conseguenze del conflitto mondiale e una memoria popolare erano ben presenti sin dal dopoguerra, anche perché rafforzati da dati visibili nei centri urbani e nelle campagne, come la forte sproporzione di genere, la presenza di invalidi e di orfani, la ricostruzione di edifici e di interi quartieri. La parata del 24 giugno 1945 rappresentò l’inizio invece del difficile rapporto tra istituzioni sovietiche e Grande guerra patriottica: il 9 maggio divenne giorno festivo fino al 1947, e la successiva sfilata militare sarebbe avvenuta solo nel 1965, vent’anni dopo la capitolazione della Germania nazista. A far tornare il 9 maggio giorno festivo fu Leonid Brežnev, che aveva preso parte alla guerra, sancendo in questo modo anche ufficialmente la centralità anche della vittoria del 1945 nella legittimazione del sistema sovietico. Ulteriori parate si tennero nel 1975, nel 1985 e nel 1990, a distanza decennale a differenza delle sfilate in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre, il 7 novembre, e delle manifestazioni per il 1° maggio, ricorrenze fondative dell’ideologia comunista.
Il crollo dell’Unione Sovietica, con la proclamazione (e, in alcuni casi, la restaurazione) dell’indipendenza delle repubbliche, non parve mettere in dubbio il ricordo della catastrofe del 1941-45, con però nuove, traumatiche, riflessioni (e in alcuni casi, celebrazioni) a proposito del collaborazionismo, spesso utilizzato successivamente dalla propaganda del Cremlino contro i propri vicini, ma in realtà fenomeno che è stato trasversale all’appartenenza etnica.
Nel 1995 avvengono le celebrazioni del cinquantenario della fine della guerra, e Boris Eltsin decide di utilizzare l’occasione per recuperare anche a livello ufficiale la vittoria nella Russia post-sovietica, in un momento di forte crisi valoriale e d’identità. Alla parata di quell’anno arrivano come ospiti a Mosca il presidente statunitense Bill Clinton, il premier britannico John Major, l’allora segretario delle Nazioni Unite Boutros Ghali, e la particolarità della sfilata consiste nella presenza dei veterani sulla Piazza Rossa, assieme ai militari vestiti con le uniformi d’epoca, e nel pomeriggio i mezzi militari sfilano sulla Poklonnaja Gora, la Collina degli Inchini, dove viene inaugurato il Parco della Vittoria. I mezzi militari, pesanti e leggeri, torneranno sulla Piazza Rossa solo nel 2008, ma la parata delle truppe diventa annuale.
Vladimir Putin, diventato presidente nel 2000, non introduce cambiamenti nel cerimoniale fino al 2005, quando le celebrazioni coincidono con un momento particolare per l’area post-sovietica: le rivoluzioni colorate in Georgia, Ucraina e Kirghizistan sembrano minacciare l’influenza di Mosca e di essere da esempio per cambiamenti anche all’interno della Russia. In questo senso, con il sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale entrano in gioco nuovi elementi, presto diventati centrali, nella narrazione del potere putiniano: la ricorrenza viene celebrata con un nuovo simbolo, il nastro di San Giorgio, dai colori arancione e nero. Ideato dai giornalisti dell’agenzia di stampa Ria Novosti, il nastro si diffonde rapidamente fino a diventare un emblema anche al di là del ricordo della Velikaja otečestvennaja vojna (la Grande guerra patriottica), identificando chi nei paesi del cosiddetto “vicino estero” di Mosca sostiene un orientamento pro-russo. I nastrini vengono distribuiti gratuitamente in occasione del 9 maggio, i colori diventano parte della nuova iconografia della vittoria creata dal Cremlino, usati per evocare l’appartenenza a una identità che mescola elementi assai diversi, dal ricordo del sacrificio di milioni di soldati e civili, ben presente in molte famiglie non solo russe ma in tutto lo spazio ex-sovietico, con un sentimento di orgoglio frammisto a un crescente risentimento sapientemente alimentato dalle autorità.
Inizialmente il ricordo della guerra non è utilizzato in chiave anti-occidentale: nel 2010 unità statunitensi, francesi, britanniche e polacche sfilano sulla Piazza Rossa, al culmine della collaborazione tra Mosca e la NATO, nonostante il famoso discorso di Monaco di tre anni prima in cui Putin iniziava ad accusare l’Alleanza Atlantica e gli Stati Uniti di mire espansionistiche in Europa.
La svolta nella reinterpretazione della memoria della Grande guerra patriottica inizia a maturare con il terzo mandato presidenziale putiniano, con aspetti che porteranno a parlare di pobedobesie, ossessione da vittoria. A vincere la guerra, in questa particolare revisione del passato, sembra non esser stata l’Unione Sovietica, ma la Russia, eternamente in lotta per la sopravvivenza contro gli attacchi provenienti da Occidente. Se ancora nel 2010 veniva rivendicato il comune sforzo dei popoli dell’URSS contro l’invasore, con l’inaugurazione del monumento “Nella lotta contro il fascismo eravamo insieme”, in cui sono rappresentate le 15 repubbliche sovietiche, al Parco della Vittoria di Mosca, ora nella narrazione è la nazione russa ad aver guidato e sconfitto la Germania nazista.
La memoria di una tragedia senza pari viene utilizzata per costruire un’immagine tetra e militarista della storia russa; alla frase “basta che non vi sia la guerra” d’età sovietica è stata sostituita l’idea della gloria delle armi e di una estetizzazione della vita militare con esiti discutibili, diffusi da un merchandising quando non ispirato chiaramente avallato dalla visione proposta dal Cremlino. Si diffondono gadget di ogni tipo, dagli adesivi con la scritta “possiamo rifarlo”, con tanto di falce e martello che sodomizza una svastica, alle pilotki, le bustine copricapo militare vendute nei supermercati. In occasione della Giornata della Vittoria come anche il 23 febbraio, giorno del Difensore della patria, gli scaffali dei negozi si riempiono di ogni tipo di merce stilizzata e brandizzata sui colori e i temi della guerra, e spesso negli asili e nelle prime classi delle scuole si organizzano eventi con bambini vestiti in divisa d’epoca. Un merchandising ormai adottato anche dal ministero della Difesa e dalla Società russa di Storia militare, la RVIO, che promuovono attività per grandi e piccini al complesso Patriot, nella regione di Mosca, con tanto di cucine da campo per poter assaporare il rancio d’epoca mentre i bambini giocano alla presa del Reichstag. Più che propaganda totalitaria, una specie di Disneyland della guerra, volta a renderla attraente, eliminando ogni riferimento e spazio al dolore scaturito dalla morte di milioni di cittadini sovietici.
Non vi è spazio per altre narrazioni della guerra, per altre forme di ricordo diverse da quanto proposto dal Cremlino, e quando compaiono, come accaduto per il Bessmertnyj polk, il Reggimento immortale, vi è l’appropriazione e il cambio di senso. L’iniziativa di festeggiare il 9 maggio con i ritratti dei nonni e dei parenti veterani di guerra in strada è sorta da un’idea di un collettivo di giornalisti di Tomsk, nel cuore della Siberia, nel 2012. Nel corso di un triennio, fino al 2015, la manifestazione si è diffusa in Russia e all’estero, fino a esser presa sotto la curatela dell’Amministrazione presidenziale a Mosca: proprio per il settantesimo anniversario, lungo la via Tverskaja nel centro della capitale, sfilarono circa cinquecentomila persone, con Vladimir Putin alla testa del corteo, nelle mani il ritratto del padre, veterano di guerra. La centralizzazione dell’organizzazione del Reggimento immortale ha permesso di utilizzare ulteriori elementi nella costruzione dell’idea putiniana della continuità storica tra le guerre del passato imperiale e sovietico e l’attuale aggressione all’Ucraina, un legame ribadito più volte nel corso degli interventi degli ultimi 14 mesi e sottolineato nel discorso dello scorso 9 maggio 2022.
Ed è questa evocazione del passato, in alcuni momenti più somigliante a un cosplay che a una celebrazione, a ritorcersi contro il Cremlino oggi. Le parate del 9 maggio sono state annullate in 21 città russe (al momento mentre scriviamo si aggiunge Kurgan, dove non vi saranno festeggiamenti a causa degli incendi nella regione), la maggior parte di esse capoluoghi o centri importanti delle regioni confinanti con l’Ucraina. E le sfilate del Reggimento immortale non si terranno in tutta la Russia: ragioni di sicurezza. Le veline dell’Amministrazione presidenziale, invece, forniscono indicazioni precise ai media ufficiali a proposito di come coprire il 9 maggio, diventato tema scomodo, anche perché il grosso dei nuovi mezzi militari sarebbe al fronte.
Ženja Berkovič, regista teatrale e autrice arrestata pochi giorni fa per un proprio spettacolo, Finist jasnyj sokol, opera scritta da Svetlana Petrijčuk (arrestata anche lei) ritenuto dall’Fsb “propaganda del terrorismo”, ha scritto una poesia su un veterano della Grande guerra patriottica che appare in sogno al nipote, i cui versi decostruiscono la vuota retorica delle celebrazioni putiniane e delle polemiche da social:
Non potresti, mio caro amato nipote
non scrivere mai, mai, di me su Facebook?
In nessun contesto, né con la lettera z né senza
Semplicemente non farlo, chiede il nonno.
Nessuna vittoria in mio nome
Proprio nessuna.
(…)
Abbiamo vissuto una sola e pesante vita
Possiamo non illustrarvi più cos’è la guerra
Noi non ci siamo più, ragazzi,
La terra ci ha preso
Potreste far da soli
in qualche modo, da zero, anche voi.
Parole che incitano non all’oblio, ma a una memoria in grado di costruire il futuro, senza retrotopie tragiche e volgari insulti a un passato tragico e glorioso.
Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons