Dalla mobilitazione all’annessione: il discorso di Putin e come si sgretola il sistema di potere
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La cerimonia di venerdì 30 settembre nella Sala di San Giorgio al Cremlino di Mosca e il discorso di Vladimir Putin hanno rappresentato un passaggio importante nella guerra in Ucraina, con la firma dei protocolli d’annessione delle regioni di Cherson e Zaporiž’ja e delle repubbliche di Donetsk e Lugansk alla Russia. La sede della firma non è stata casuale, si tratta della stessa sala in cui nel 2014 la Crimea venne dichiarata russa, e la modalità racconta tanto del sistema politico russo: un’ampia platea di sedie in file ordinate, dirette verso l’oratore, unico vero protagonista sulla scena, una modalità di comunicazione differente anche rispetto alle altre repubbliche presidenziali. In sala, oltre ai deputati della Duma e ai senatori del Consiglio della Federazione, vi sono i governatori delle regioni e le massime autorità civili e militari, mentre il patriarca Kirill, positivo alla COVID-19, è assente. Le parole del discorso del presidente del 18 marzo di otto anni prima, quando la Federazione Russa allargò per la prima volta i suoi confini, suonano oggi beffarde: "Non credete a chi vi spaventa con la Russia, a chi grida che dopo la Crimea verranno altre regioni. Noi non vogliamo la divisione dell’Ucraina, non ci serve. Per quanto riguarda la Crimea essa era e resterà russa, ucraina e tatara della Crimea".
Nell’intervento di venerdì scorso Putin rivendica la memoria degli “eroi della Primavera russa”, ovvero i combattenti delle prime fasi del conflitto nel sud-est ucraino, mettendoli ancora una volta al fianco dei soldati della Grande guerra patriottica del 1941-45, e prima dell’epopea imperiale.
Il discorso è diviso in tre parti: la continuità di una Russia manifestatasi prima come impero, poi come Unione Sovietica e oggi come Federazione Russa; l’uso di un certo tipo di retorica anticolonialista e, infine, la battaglia ideologica contro l’Occidente da posizioni sovrapponibili alle teorie complottiste dell’estrema destra americana e europea. L’amore del presidente per gli excursus storici è ormai cosa nota, in una reinterpretazione del passato che attinge e rielabora episodi e figure per renderli compatibili con la narrazione proposta: le terre dell’Ucraina meridionale e orientale, denominate Novorossija da Caterina la Grande, vengono descritte come parte della Russia da sempre, quando in realtà l’impero zarista ne entra in possesso definitivamente solo a metà del Settecento, incentivandone l’insediamento di serbi, ungheresi, bulgari, croati provenienti dai possedimenti asburgici prima, e poi, sotto l’attento controllo del principe Grigorij Potiomkin, costruendo le città oggi tristemente note per via della guerra (Cherson, Melitopol’, Mariupol’).
Sul banco degli imputati sono chiamati da Putin i dirigenti della tarda età sovietica, accusati di aver distrutto l’URSS senza tener conto della volontà popolare, ma soprattutto (refrain ricorrente nei discorsi del presidente) di aver distrutto la Russia storica, accettando i confini “fantasiosi” tracciati negli anni Venti del Novecento. Anche in questo caso si fornisce un’immagine distorta, perché nella dacia della foresta di Belovežsk, dove vennero firmati gli accordi omonimi sullo scioglimento dell’Unione Sovietica, vi erano i leader di Bielorussia, Russia e Ucraina, ormai usciti dal Partito Comunista da tempo e in lotta con quel che restava della sua nomenklatura, come dimostra la parabola di Boris Eltsin, figura sempre risparmiata dagli strali di Putin, forse grato della successione voluta e pianificata dall’allora presidente. Questa omissione risulta interessante per un altro motivo ricorrente della retorica putiniana, i “terribili anni Novanta”, durante i quali l’attuale presidente era uomo di fiducia del primo sindaco di San Pietroburgo Anatolij Sobčak e il suo predecessore al Cremlino guidava il paese, invocato nell’intervento.
La dissoluzione dell’URSS ha significato la divisione della patria “storica”, e la nazione russa si è trovata, nelle parole di Putin, a dover affrontare il “genocidio” nel Donbass e l’odio verso tutto ciò che è russo nelle regioni di Zaporiž’ja e Cherson. La persecuzione dei russi denunciata dal presidente è voluta e praticata dall’Occidente, inebriato dalla fine della Guerra Fredda, e volto a stabilire il suo dominio neocoloniale sul mondo. Qui Putin si rivolge all’Africa, diventata negli ultimi anni uno degli scenari della politica estera di Mosca, dove la competizione con alcuni paesi europei (specialmente la Francia) e anche con la Cina è forte, in un tentativo di guadagnare influenza. La presenza della compagnia Wagner nella Repubblica Centrafricana e in Mali, come in altri paesi del continente, è ormai esibita come parte di un’espansione dove il commercio d’armi è un’altra delle chiavi della penetrazione russa (gli stati africani ammontano da qualche anno al 30-40% delle esportazioni del complesso militar-industriale di Mosca). Il leader russo ha denunciato la politica d’espropriazione del Terzo Mondo attuata dall’Occidente, volta ad ottenere la maggiore rendita possibile:
Il mantenimento di questa rendita è la loro motivazione principale, evidente e assolutamente egoistica. Nei loro (dei paesi occidentali – nda) interessi vi è la totale desovranizzazione, e da qui viene la loro aggressività verso gli stati indipendenti, verso i valori tradizionali e le culture autoctone, da qui vengono i tentativi di minare i processi internazionali e di integrazione, le nuove valute, i nuovi centri di sviluppo tecnologico che sono fuori dal loro controllo. Per essi è fondamentale che tutti i paesi cedano la propria sovranità agli Stati Uniti.
Una critica la quale, più che riecheggiare Lenin o Frantz Fanon, riprende le idee di Alain de Benoist e della Nouvelle Droite sul diritto alla differenza e sul neocolonialismo americano come causa dell’immigrazione controllata. Un’influenza visibile anche in un altro passaggio successivo, quando Putin sostiene come l’accordo sul trasporto del grano dall’Ucraina abbia in realtà dimostrato ancora una volta l’egoismo occidentale e la sua tendenza al suicidio, perché “l'élite americana usa la tragedia di queste persone per indebolire i propri concorrenti, per distruggere gli stati nazionali. Questo vale anche per l’Europa, questo vale per l’identità di Francia, Italia, Spagna e altri paesi con una lunga storia”. Si tratta di un riconoscimento della teoria della Grande sostituzione come reale, una legittimazione di uno dei principali slogan delle destre estreme europee e d’Oltreoceano, che avviene per bocca del presidente di un paese membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e la rivendicazione del ruolo della Russia come alfiere della lotta all’apartheid e al colonialismo confonde volontariamente la Mosca di oggi con l’Unione Sovietica, sostituendola ad essa nell’immaginario presentato al continente africano.
Gli ammiccamenti da anni presenti nei testi e nei discorsi del Cremlino sono stati sistematizzati in una serie di accuse all’Occidente, dove i protagonisti sono diventati i principali spauracchi promossi dall’estrema destra e dal cospirazionismo militante. Si denuncia Washington come responsabile degli attacchi ai “nostri filosofi”, riferimento evidente alla morte di Dar’ja Dugina e alle polemiche attorno alla figura del padre Aleksandr. Le relazioni internazionali sono state paragonate ai rapporti “non tradizionali”, forma utilizzata per descrivere i legami tra persone dello stesso sesso, e al masochismo, e l’opera degli americani è diretta a distruggere la famiglia e la società. Dichiarando di volersi rivolgere a tutto il popolo russo, Putin illustra uno dei principali leitmotif della “lotta al gender” in Occidente:
Vogliamo avere, qui, nel nostro Paese , in Russia, invece di mamma e papà "genitore numero uno", "numero due", "numero tre" - sono già completamente pazzi lì (in Occidente - nda)? Vogliamo davvero che le perversioni che portano al degrado e all'estinzione siano imposte ai bambini delle nostre scuole fin dalle elementari? Per inculcar loro che vi sono probabilmente altri generi, oltre quello maschile e quello femminile, e offrire un’operazione per il cambio di sesso? È questo che vogliamo per il nostro paese e i nostri figli? Tutto questo è inaccettabile, noi abbiamo un futuro diverso, il nostro. Lo ripeto, la dittatura delle élites occidentali è diretta contro tutte le società, comprese quelle dei popoli degli stessi paesi occidentali, e si tratta di una sfida per tutti. È una totale negazione dell’uomo, questo rovesciamento della fede e dei valori tradizionali, questa soppressione della libertà che acquisice i tratti di una “religione all’inverso”, di un vero e proprio satanismo.
D’altronde, per il presidente, la famiglia è la base della società, come sostenuto a più riprese da Ivan Il’in, il filosofo dell’emigrazione antibolscevica diventato sostenitore del fascismo e della collaborazione con il regime nazista negli anni Venti e Trenta, citato nelle conclusioni con un paragrafo dello scritto Ljubov’ k rodine (L’amore per la patria), ripubblicato nella raccolta Za nacional’nuju Rossiju: manifest russkogo dviženija (Per la Russia nazionale: manifesto del movimento russo), dove si legge che "se considero la Russia la mia patria, significa che amo da russo, contemplo e penso, canto e parlo da russo; che credo nella forza spirituale del popolo russo. Il suo spirito è il mio spirito; il suo destino è il mio destino; la sua sofferenza è il mio dolore, la sua fioritura è la mia gioia". Una concezione della nazione che non lascia spazio ad equivoci.
Ancora una volta Putin torna sulla minaccia atomica, ricordando che nel 1945 a lanciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki sono stati gli americani, costituendo un precedente, un’affermazione molto più che allusiva, criticando anche i bombardamenti su Dresda, Amburgo e Colonia, definiti come privi di senso.
A invocare però una “piccola bomba nucleare” è Ramzan Kadyrov, in un post sul suo canale Telegram il 1° ottobre, in cui attacca il generale Aleksandr Lapin, reo di essersi ritirato con le truppe da Liman, centro urbano riconquistato dalle forze ucraine nella stessa giornata. Lapin, comandante delle truppe del Distretto militare centrale e insignito dell’onorificenza di Eroe della Russia lo scorso luglio, è stato accusato dal capo ceceno di incompetenza, e di esprimere il nepotismo diffuso nell’esercito russo, stilettata all’alto ufficiale, che ha decorato lo scorso maggio il figlio Denis mentre era in corso la ritirata dalla regione di Černihiv. L’uomo forte di Groznyj, da febbraio in poi, si è distinto per critiche, attacchi e accuse al cui centro vi è la gestione delle operazioni militari da parte del Ministero della Difesa, in una continua competizione con il corpo ufficiali, dileggiandolo e allo stesso tempo elogiando le formazioni cecene inviate al fronte.
Kadyrov non è solo nel contrasto alla linea di Sergej Shoigu, e le sue posizioni si trovano a coincidere con quelle di un settore molto acceso del nazionalismo russo, rappresentato dal pubblicista Egor Cholmogorov, da Aleksandr Dugin e dall’oligarca Konstantin Malofeev, e la sua ultima dichiarazione è stata seguita dalle parole di Evgenij Prigožin, il patron della Wagner: “Il colorito appello di Kadyrov, è vero, non è nelle mie corde, ma posso dire: “Ramzan, sei grande, vai avanti”, tutti questi sfigati devono andare scalzi con i kalashnikov al fronte”.
Non vi è stata risposta alle critiche sferrate da questa strana alleanza, ma emerge un problema di non poco conto, la tenuta della cosiddetta “verticale del potere”, da sempre una delle parti costituenti del sistema putiniano, dove si è sempre rappresentato il presidente come il centro da cui si irradiano le principali decisioni, in una sorta di interpretazione manageriale del governo del paese inizialmente, e oggi con le caratteristiche dei siloviki. Quanto il capo di una repubblica autonoma possa dire a un generale (e al ministro della Difesa) cosa si dovrebbe fare, utilizzando espressioni forti, è qualcosa forse in linea con la figura di Kadyrov, ma il fatto stesso si pone al di fuori dalla logica della “verticale”, dove, nonostante il posto particolare occupato dalla Cecenia, le regioni della Federazione Russa sono sotto la cura attenta dell’Amministrazione presidenziale a Mosca, una sorveglianza molto attenta e che non lascia nulla a caso, come dimostrato dall’eliminazione della denominazione di “presidente” dagli ordinamenti dei territori non-russi con status repubblicano. La dinamica diventa ancor più pericolosa per l’architettura del sistema quando interviene Prigožin, cittadino comune senza alcun incarico istituzionale, finanziatore di una compagnia equipaggiata dal Ministero della Difesa ma con propri interessi e finalità che l’hanno posto in contrapposizione con Shoigu già nel passato.
Appare molto improbabile quanto si legge anche su alcune testate italiane, quando si scrive di un possibile golpe da parte dei fautori della linea oltranzista, al momento ipotesi alquanto remota, ma vi è un processo avviato di sgretolamento della “verticale” testimoniato da scontri non più tenuti al chiuso degli uffici ministeriali e delle sale del Cremlino, ma lanciati via social e condivisi poi anche da semplici sostenitori. Si tratta della messa in discussione delle modalità di gestione del dibattito politico interno al sistema, avviene sotto gli occhi di tutti e potrebbe portare a ulteriori conseguenze difficili da prevedere nel medio-lungo periodo.
Immagine in anteprima: frame video The Telegraph via YouTube