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La stabilità instabile del potere di Putin

8 Maggio 2024 7 min lettura

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La stabilità instabile del potere di Putin

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Dodici anni fa, il 7 maggio, era una giornata soleggiata a Mosca: il giorno prima una imponente manifestazione a due passi dal Cremlino, a piazza Bolotnaya, contro i brogli elettorali del dicembre 2011 e convocata per contestare il ritorno di Vladimir Putin alla presidenza, era stata segnata dall'intervento violento delle forze dell'ordine, con arresti, fermi e in seguito condanne ad anni di prigione ad alcuni dei leader e degli attivisti delle proteste di quei mesi. Non era raro, però, quel 7 maggio, incrociare nelle strade del centro della capitale persone con i nastrini bianchi, simbolo della protesta anti putiniana, o ascoltare alcuni slogan come la Russia sarà libera, mentre al Cremlino avveniva il passaggio di consegne tra il presidente uscente Dmitry Medvedev e Vladimir Putin, tra rassicurazioni di consolidare le libertà civili e la democrazia russa, parole oggi che a rileggerle suonano beffarde.

Persino il tempo, dodici anni dopo, sembra voler sottolineare la distanza da quell’epoca, dove già iniziavano a essere visibili le restrizioni: pioggia e nevischio si sono rovesciati sui militari del reggimento presidenziale in attesa durante la cerimonia d’inaugurazione tenuta nella Sala di Sant’Andrea, in una mattinata uggiosa degna di un serial. Ad accogliere il nuovo presidente, in realtà ai vertici dello Stato ormai da quasi 25 anni, deputati, senatori, governatori delle regioni, selezionati dai test per il covid ancora in vigore in occasione dei grandi eventi dove presenzia il leader russo.

Nel breve discorso inaugurale nulla di nuovo è emerso rispetto a quanto ci ha abituato la retorica putiniana di questi due anni di guerra, tra valori tradizionali, richiami alla stabilità e all’unità, con un’apertura di maniera verso l'Occidente dichiarando di essere pronti al dialogo ma su basi paritarie e di reciproco rispetto; un intervento sintetizzato dalla giornalista Ekaterina Vinokurova con le parole “orgogliosi del passato, fiduciosi del presente e orgogliosi del futuro”. 

In una cerimonia priva di sorprese vi sono due dettagli ai margini in grado di gettare luce su come l’establishment veda il futuro del paese: il primo di questi è il sermone del patriarca Kirill in conclusione della messa in onore dell’inaugurazione, nel quale ha augurato al presidente di vedere coincidere la fine del proprio mandato con quella della propria vita, un accenno nemmeno troppo implicito a un sesto mandato per il settantunenne presidente; il secondo è la firma apposta da Putin a un documento di grande rilievo per l'agenda politica del paese, ovvero il decreto sugli obiettivi nazionali di sviluppo della Federazione Russa nel periodo fino al 2030 e in prospettiva fino al 2036: il programma presidenziale viene così ad assumere un’estensione non sui sei ma sui dodici anni, un segnale su come la successione, almeno al momento, non sia vista come una priorità.

Testimonianze delle sensazioni presenti ai vertici riguardo a un momento considerato particolarmente positivo per la lunga presidenza putiniana, priva di opposizione interna dopo la decapitazione di ogni possibile alternativa al sistema, in grado di ottenere qualsiasi genere di risultato elettorale attraverso manipolazioni di ogni genere, e rafforzata dalla situazione al fronte in Ucraina. La visione del Cremlino sembrerebbe, in questa narrazione, vincente, e a contribuire a questo stato di cose è anche quanto avviene nei paesi occidentali, tra la repressione delle proteste contro gli attacchi israeliani a Gaza, un dibattito sempre più spostato a destra e l’attesa per una possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi di novembre. 

Per comprendere meglio però quanto avviene in questi mesi, è necessario guardare al putinismo in una più ampia prospettiva di trasformazione del sistema, avviata con l’invasione dell’Ucraina, e che ha conosciuto anche momenti di crisi: un anno fa i segnali di un processo di sgretolamento erano percepibili ed erano culminati con l’ammutinamento della Wagner, la presa di Rostov e la marcia su Mosca, per poi terminare con l’eliminazione di Evgeny Prigozhin; la capacità di ricorrere ad ogni mezzo necessario per la salvezza del regime ha reso possibile il mantenimento del suo equilibrio interno, ma non ha risolto alcuni nodi cruciali del suo futuro e persino dell’immediato presente. 

L'arresto per corruzione del viceministro della Difesa, Timur Ivanov, braccio destro di Sergei Shoigu, al centro dei flussi di denaro dell'importante dicastero, rischia di indebolirne le posizioni all’interno del sistema. Tuttavia, appare improbabile una sostituzione di Shoigu ai vertici, almeno nel prossimo periodo, nonostante il rinnovo del governo conseguente al nuovo mandato presidenziale. Il caso Ivanov a suo modo è esemplare, per il senso d’impunità del viceministro, coinvolto in una serie di affari legati alla costruzione di basi, alloggi e infrastrutture per l’esercito, e incriminato a causa delle indagini del controspionaggio militare, curato dal generale dell’Fsb Nikolai Yuryev: a rassicurare Ivanov era la partecipazione di Yuryev ad attività opache, ma questo non è bastato a salvarlo dall’arresto. 

La corruzione continua in questo senso a essere un elemento costitutivo del sistema putiniano, e in un contesto dove la competizione tra diversi gruppi di potere e d’affari non è mai cessata, viene utilizzata come arma per colpire gli interessi degli avversari: un gioco pericoloso, mai andato fuori controllo in tempi di pace, ma che rischia, in un’epoca di guerra, di poter diventare incontrollabile, e risulta oggi alquanto semplice poter vedere confermate le accuse mosse da Prigozhin ai vertici militari.

Il tentativo di creare una nuova élite da selezionare tra i combattenti della cosiddetta operazione speciale militare, già più volte analizzato in altri articoli, a più riprese annunciato da Putin e già finanziato con larghezza di fondi e di mezzi dal governo, risponde anche all'esigenza di formare dei quadri non solo fedeli al presidente e forgiati dalla guerra ma in grado di soppiantare in prospettiva quei funzionari, ufficiali, burocrati ritenuti a torto o ragione inaffidabili: ad accompagnare la notizia dello scandalo Ivanov sono tornati alla ribalta dettagli sul lussuoso tenore di vita dello stretto collaboratore di Shoigu e della sua famiglia, con tanto di fotografie di viaggi all’estero (per legge vietati ai militari e ai dipendenti del ministero della Difesa) e di automobili costose. Ad autorizzare l’arresto sarebbe stato Putin in persona, perché tra i capi d’imputazione possibili, oltre all’accertata corruzione, potrebbe esserci l’alto tradimento.

Assieme alla lotta, non più sotterranea, tra vari gruppi di potere, vi sono altri elementi che sembrano fornire un quadro di particolare complessità della situazione russa, e quanto potrebbe avvenire in Cecenia per la successione a Ramzan Kadyrov, sul cui stato di salute da mesi vi sono voci che sembrerebbero confermate anche dalle sue recenti apparizioni in pubblico, l’ultima avvenuta per l’insediamento di Putin. Risulta impossibile trovare una conferma certa delle condizioni del ras ceceno, alla guida della piccola repubblica caucasica ormai dal 2007 con il ricorso al terrore verso gli oppositori del proprio clan, gli omosessuali, le lesbiche e chiunque venga ritenuto non conforme a quel regime nel regime, però alcuni passi di Kadyrov nel promuovere i propri figli a incarichi di governo sembrerebbero confermare l’intenzione di organizzare una propria successione al potere. 

Apti Alaudinov, generale del battaglione Akhmat, sarebbe la figura individuata dal Cremlino qualora la situazione dovesse richiedere una scelta immediata, ma resta da vedere, come ha sottolineato Mark Galeotti, se e come verrà accettata dai diversi gruppi in campo in Cecenia, uniti nella fedeltà a Kadyrov ma in competizione tra loro. Una crisi di successione potrebbe far riemergere le tensioni presenti nell’area, dove sporadicamente ancora oggi, al di fuori dei confini ceceni, avvengono azioni di formazioni islamiste, come accaduto il 22 e il 29 aprile scorsi in Karachaevo-Cherkessia. E l’attentato al Crocus City Hall a Mosca dello scorso 22 marzo, su cui è calato il silenzio mediatico dopo i tentativi ripetuti di trovare un legame tra i terroristi e i vertici dell’intelligence ucraina, è lì a ricordare come i pericoli di una nuova stagione di attacchi ai civili non siano così remoti. 

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La xenofobia nella società russa, in diminuzione a partire dal 2014 a causa del coinvolgimento di un’intera generazione dell’estremismo di destra su entrambi i lati del conflitto in Donbas, è tornata a crescere con la guerra in Ucraina, stimolata dalla militarizzazione e dalla propaganda nazionalista, e dopo l’attentato di marzo è divampata senza soste, con l’attiva partecipazione delle forze di polizia. La comunità tagika, molto numerosa in Russia (soltanto nel 2023 ne sono arrivati 627.028), ha visto fermi, perquisizioni, attacchi verbali e fisici, e spesso tali azioni si sono estese a cittadini di altre repubbliche centrasiatiche, con casi come l’irruzione della polizia nell’appartamento del consigliere diplomatico dell’ambasciata del Kirghizistan a Mosca Manas Zholdoshbekov, che ha portato a una nota di protesta del governo di Bishkek. Raid della polizia assieme a militanti d’estrema destra si erano già avuti negli scorsi mesi per controllare i documenti di lavoratori migranti e per consegnare cartoline-precetto d’arruolamento a chi in possesso della cittadinanza russa, e si sono intensificati dopo l’attentato, un ulteriore segnale di legittimazione delle posizioni nazionaliste e xenofobe, da sempre legate alla lotta contro l’immigrazione dall’Asia Centrale.

I sei anni, forse dodici, di Vladimir Putin si aprono quindi in un contesto dove l’ottimismo che traspare dalle dichiarazioni del Cremlino in realtà appare fin troppo fiducioso a un’attenta analisi, basato su un equilibrio delicato, in grado di essere messo in discussione da movimenti improvvisi e da cambiamenti repentini. A mettere in discussione la stabilità, mantra dell’agenda politica di Putin dal 1999, è stata la guerra stessa.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

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