Centri in Albania: tutte le falle del decreto legge
9 min letturaIn questi giorni è in discussione alla Camera la legge di conversione del decreto-legge n. 37/2025 (“Disposizioni urgenti per il contrasto dell'immigrazione irregolare”). Il decreto modifica la legge n. 14/2024 di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione del Protocollo Italia-Albania.
Come noto, le aree di Shengjin e Gjader, concesse in uso all’Italia da parte dell’Albania, sono state equiparate alle zone di frontiera o di transito, ai fini dell’applicazione della relativa procedura accelerata per l’esame delle domande di asilo. I centri albanesi avrebbero dovuto ospitare esclusivamente migranti salvati in acque internazionali da mezzi delle autorità italiane e provenienti da paesi sicuri. Diversi ricorsi pendenti dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sollevati da tribunali italiani in sede di convalida dei trattenimenti degli stranieri in Albania, hanno finora impedito di impiegare i centri per l’uso previsto.
In attesa della pronuncia della Corte, attesa tra fine maggio e inizio giugno, con il citato decreto-legge il governo ha deciso che nelle strutture albanesi siano trasferite anche persone straniere presenti in centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) italiani, già destinatarie di decisioni definitive di rimpatrio.
Il decreto in corso di conversione presenta diverse criticità, che emergono in maniera evidente attraverso alcune audizioni svoltesi in Parlamento nei giorni scorsi. Può essere, quindi, utile darne conto.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Le strutture in Albania
Nella relazione al disegno di legge di conversione, il ricorso al decreto-legge è stato giustificato con la necessità di «sfruttare pienamente le potenzialità delle strutture situate in Albania». Tuttavia, come ha fatto notare il professore Salvatore Curreri in audizione, sarebbe meglio dire che il decreto è stato adottato per «cominciare a sfruttarle» - vista la «attuale fase di stallo» - così da «evitare, secondo il principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, comma 2 Cost.), l’attuale mancato utilizzo di strutture per la cui costruzione e gestione sono state impiegate e tuttora si impiegano rilevanti risorse pubbliche».
Il professore Roberto Zaccaria ha rilevato come, nonostante in questi mesi si sia continuato a ripetere che le strutture in Albania sono sottoposte esclusivamente alla giurisdizione italiana, le persone migranti «sono in parte soggette anche alla giurisdizione albanese e ciò con particolare riferimento alle operazioni di trasferimento a terra, o nell’ipotesi di tentativo di fuga dalla struttura (con particolare riferimento all’area esterna al centro), o ancora nella circostanza di trasferimento presso strutture ospedaliere». Si tratta di «snodi» critici, «nel corso dei quali in Italia sono state denunciate le violazioni maggiori dei diritti fondamentali delle persone trattenute, con la differenza che in tali circostanze le persone sarebbero sottoposte alla giurisdizione e all’autorità di Pubblica Sicurezza Albanese». Questo profilo è evidenziato anche dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione (ASGI) in audizione, con riferimento a chi, durante operazioni di trasferimento nei centri albanesi, dopo lo sbarco, «cerca di ribellarsi e nell’occasione compie un reato (resistenza a pubblico ufficiale, lesioni o quant’altro)». «Essendo su territorio albanese non c’è più giurisdizione italiana (che è limitata alle aree individuate nel Protocollo)».
Un’ulteriore criticità – fa notare il professore Zaccaria – è data dal fatto che «la Corte Costituzionale albanese, nella sentenza n. 2/2024, ha evidenziato che i migranti potranno rimanere in Albania non oltre 28 giorni», quelli previsti dalla legislazione italiana per la conclusione delle procedure accelerate di frontiera. Invece, la modifica intervenuta a seguito del decreto-legge in esame consente «il trattenimento presso il centro di Gjader per un periodo massimo di 18 mesi», e questo potrebbe non essere conforme alla pronuncia della Corte.
La violazione della Direttiva 2008/115/CE (cosiddetta direttiva rimpatri)
La direttiva 2008/115/CE non prevede l’ipotesi che nel procedimento di rimpatrio sia coinvolto uno stato terzo, qual è l’Albania, a eccezione del «paese di origine»; del «paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese»; di «un altro paese terzo, in cui il cittadino del paese terzo in questione decide volontariamente di ritornare e in cui sarà accettato».
L’ipotesi di trattenimento in centri per il rimpatrio collocati fuori dal territorio nazionale non è presa in considerazione dalla direttiva, pur non risultando espressamente esclusa o vietata. Ma si pone comunque un problema, evidenziato dal professore Zaccaria. Secondo la citata direttiva - che resta vigente fino all’adozione del nuovo regolamento europeo, la cui bozza deve’essere approvata da Consiglio e Parlamento UE – i rimpatri possono avvenire soltanto dal territorio degli Stati membri. «Si prevede infatti come “esecuzione dell’obbligo di rimpatrio”, “il trasporto fisico fuori dallo Stato membro” (art 3 par. 5)».
Dunque - come evidenzia anche il professore Curreri - se gli stranieri fossero ripatriati partendo da porti o aeroporti albanesi, ciò comporterebbe «il loro illegale trasferimento in un Paese extra UE». Pertanto, i migranti «dovrebbero essere ricondotti in un porto o aeroporto italiano, da cui eseguire il provvedimento di espulsione». Ciò, peraltro, appare coerente con quanto si legge nel Protocollo Italia-Albania (art. 4, comma 3), ai sensi del quale «nel caso in cui venga meno, per qualsiasi causa, il titolo della permanenza nelle strutture, la Parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese». È vero che questa disposizione è stata pensata con riguardo al decorso dei 28 giorni di durata della procedura accelerata di frontiera, ma essa resta valida anche ora che i centri sono stati destinati anche a CPR.
Il trasferimento da un CPR italiano al CPR albanese
Il Testo Unico Immigrazione (art. 14, primo comma, TUI) prevede che il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno possa disporre il trasferimento dello straniero – da trattenere in attesa di espulsione - in altro centro rispetto a quello di iniziale destinazione senza che vi sia necessariamente un provvedimento formale. «Che possa trattarsi di una mera assegnazione, e dunque di un comportamento materiale dell’amministrazione», e non di un atto di trasferimento - afferma il professore Curreri - trova conferma nel fatto che «la disposizione citata non fa riferimento ad un obbligo di motivazione circa i presupposti e i criteri alla base di tale trasferimento». «È vero che, nella relazione al disegno di legge di conversione» del decreto in esame - continua Curreri - «si fa riferimento ai provvedimenti di trasferimento dei detenuti, ai sensi dell’articolo 42 della legge 26 luglio 1975, n. 354 sull’ordinamento penitenziario», che «indica specificamente le motivazioni per cui tali trasferimenti possano essere effettuati». Ma tale richiamo non è stato riportato nel testo del decreto-legge.
L’assenza di motivazione del provvedimento di trasferimento dello straniero – continua Curreri – può avere conseguenze rilevanti ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, «tanto più alla luce della recentissima sentenza della III sezione civile della Cassazione n. 2967 pubblicata lo scorso 6 febbraio in base alla quale il giudice deve svolgere un controllo pieno, e non meramente esteriore o formale, circa la sussistenza e la congrua motivazione delle condizioni sia del trattenimento (o della sua eventuale proroga), sia della successiva espulsione».
La questione è specificamente affrontata anche dal professore Paolo Bonetti. Il decreto-legge n. 37/2025 «indica i luoghi (…), ma non disciplina i casi e i modi del trattenimento, cioè non prevede affatto norme legislative che regolino presupposti, criteri e modi di restrizione della libertà personale, come invece prescrive la riserva assoluta di legge prevista dall’art. 13 Cost.» in tema di limitazioni a tale libertà, e questo può rappresentare un vizio di costituzionalità del decreto. In particolare, non sono precisati «in modo tassativo i presupposti (criteri e modi per disporre il trasferimento da e per il centro albanese) e i contenuti del trattenimento nel c.p.r. albanese». E non è tutto. Affidare «soltanto all’autorità di pubblica sicurezza (senza alcuna convalida dell’autorità giudiziaria) il potere di scegliere di decidere se e quando trasferire una persona trattenuta da un c.p.r. in Italia ad un c.p.r. in Albania viola la riserva di legge in materia di stranieri prevista dall’art. 10, comma 2 Cost. oltre che la riserva assoluta di legge circa i casi e i modi della restrizione della libertà personale e la riserva di giurisdizione previsti dall’art. 13 Cost.». In sintesi, «una simile decisione amministrativa modifica i modi del trattenimento che era già stato convalidato dal giudice, senza che il giudice si pronunci in merito, il che comporta che il provvedimento restrittivo della libertà personale sia adottato con presupposti indeterminati e senza alcun controllo giudiziario».
Il professore Zaccaria ricorda pure che il Giudice di Pace di Roma (ordinanze nn. 209-210-211-212 del 17.10.2024) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 del TUI, tra l’altro, con riguardo al fatto che la persona trattenuta nel CPR «non vede riconosciuti i suoi diritti da norma legislativa, contrariamente a chi è detenuto in carcere o che si trova agli arresti domiciliari per i quali si fa riferimento al Regolamento Penitenziario, contenuto in legge primaria».
Le discriminazioni
Le «differenze di trattamento» tra i migranti che saranno trattenuti nel CPR in Albania rispetto a quelli che si trovano in CPR italiani, in mancanza di adeguate motivazioni, possono tramutarsi in irragionevoli discriminazioni, ai fini dell’effettiva garanzia del diritto di difesa. «I primi» - spiega Curreri - «potranno avere contatti con i loro avvocati difensori solo a distanza e da remoto, tramite collegamento riservato in videoconferenza». Per gli stessi motivi, «a causa di evidenti difficoltà logistiche, di fatto sarà impedito a tali stranieri la possibilità di avere contatti e colloqui con visitatori provenienti dall’esterno, per quanto formalmente garantiti».
Il profilo attinente alla discriminazione - che ricorre quando la legge «senza un ragionevole motivo», preveda un trattamento diverso tra coloro che si trovano in «eguali situazioni» (sentenza Corte costituzionale n. 15/1960) - è più specificamente trattato dal professore Bonetti e dall’ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, i quali rilevano palesi profili di illegittimità. ASGI, in particolare, sottolinea la violazione degli articoli 3 e 10, comma 3, della Costituzione. «Le persone trattenute in Italia e portate coattivamente in Albania» - dice l’Associazione - «subiscono un trattamento deteriore rispetto a coloro che rimangono trattenuti in Italia», in quanto, tra l’altro, «non possono ricevere, o possono ricevere solo a condizioni più onerose e gravose, la visita di familiari, amici, associazioni e avvocati, pur previste dall’art. 16 direttiva 2008/115/CE»; «non hanno le medesime garanzie di tutela della salute, intesa complessivamente, in quanto non risulta possibile assicurare le cure che, in Italia, devono essere garantite dal Sistema Sanitario Nazionale»; «non hanno le medesime possibilità di rivolgersi alle associazioni di tutela autorizzate all’ingresso nei CPR, come avviene o può avvenire in Italia e che sono gli unici soggetti, insieme agli avvocati, che possono fornire effettive informazioni dei diritti esercitabili dalle persone trattenute»; «la stessa possibilità di chiedere asilo (art. 10, co. 3 Cost.) o protezione internazionale è resa molto più difficile, se non impossibile, per le persone trattenute in Albania».
L’impossibilità per lo straniero di essere interrogato di persona da un giudice (che invece deve farlo solo in videoconferenza) – aggiunge il professore Bonetti - «può anche minare il principio del contraddittorio e il diritto alla difesa». Peraltro, continua il professore, «le modalità di esercizio del diritto di difesa degli stranieri trattenuti in Albania paiono essere non già disciplinate da norme legislative, bensì affidate alla discrezionalità del “responsabile italiano del centro”, al quale la legge n. 14/2024 attribuisce il compito di adottare “le misure necessarie a garantire il tempestivo e pieno esercizio del diritto di difesa dello straniero”». Di conseguenza, «la semplice inerzia, o una scelta errata, del funzionario amministrativo potrebbero pregiudicare l’esercizio di un diritto fondamentale, il che viola l’art. 111 Cost., secondo il quale “il giusto processo” deve essere regolato dalla legge» e «contrasta con gli artt. 24, Cost., 6, CEDU, 46, Direttiva 2013/32/UE, che impongono l’accessibilità di un “ricorso effettivo”».
La copertura finanziaria
Infine, afferma il professore Bonetti, «né il testo del decreto-legge, né la sua relazione illustrativa indicano con precisione i costi dei trasporti da e per l'Albania, né da essi è possibile ricavare neppure una stima di essi». La relazione illustrativa della legge di conversione del decreto afferma, infatti, soltanto che la destinazione dei centri albanesi anche a CPR «non determina un aumento dei posti già previsti nelle strutture di trattenimento», e «pertanto alla sua attuazione si provvederà nel rispetto dei limiti delle risorse previste a tal fine».
Si tratta di un’affermazione «incompleta», secondo Bonetti, perché la legge n. 14/2024 di ratifica del Protocollo Italia-Albania indica la copertura finanziaria dei costi di trasporto, accoglienza e trattenimento degli stranieri soccorsi nelle acque internazionali e trasferiti in Albania per le procedure di frontiera, «e non già una copertura finanziaria finalizzata a coprire anche i costi di trasporto (automobilistico, aereo e marittimo) dai c.p.r. siti in territorio italiano ai c.p.r. siti in territorio albanese». Pertanto, «al fine di non eludere gli obblighi di copertura finanziaria previsti dall’art. 81 Cost., occorre capire i numeri dei trasporti ipotizzati e una stima dei loro costi», per verificare se e come essi siano effettivamente finanziati dalle «risorse già stanziate per l’esecuzione del protocollo italo-albanese».In ogni caso, appare «assai dubbia l’efficacia dell’utilizzo del denaro pubblico con riferimento all’uso dei c.p.r. in territorio albanese in considerazione dei costi assai più elevati rispetto ai costi (già elevati) per la gestione nei c.p.r. in territorio italiano».
(Immagine anteprima: frame via YouTube)
