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Alternanza scuola-lavoro: le proteste degli studenti e le polemiche sulle manganellate

5 Febbraio 2022 10 min lettura

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Alternanza scuola-lavoro: le proteste degli studenti e le polemiche sulle manganellate

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di Chiara Adinolfi

Il 21 gennaio un ragazzo di 18 anni, Lorenzo Parelli, è morto in un’azienda metalmeccanica di Lauzacco, in provincia di Udine, mentre stava svolgendo un apprendistato previsto dal percorso di studi che stava effettuando in un Centro di formazione professionale. A ucciderlo è stata la caduta di una putrella pesante 150 chili. La procura di Udine ha aperto un’indagine per capire la dinamica dell’infortunio. Stando alle prime ricostruzioni, sembrerebbe che al momento dell’incidente Lorenzo avesse i guanti e il caschetto protettivo, e che fosse assente il tutor che avrebbe dovuto seguirlo durante il suo apprendistato. Durante il suo discorso di insediamento davanti al Parlamento, anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato il ragazzo, dicendo che «le morti sul lavoro feriscono la società, e la coscienza di ognuno di noi, perché la sicurezza di ogni lavoratore riguarda il valore che attribuiamo alla vita. Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli». Nei giorni successivi alla morte del giovane, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha annunciato l’attivazione di un tavolo per introdurre una «certificazione ulteriore, una specie di bollino blu. Non basta soltanto il rispetto della normativa sulla sicurezza - ha detto - si tratta di mandare i ragazzi a formarsi in luoghi dove lo standard sia ancora più elevato di quello previsto dalla legge».

Tuttavia, anche se il caso del ragazzo friulano è riconducibile a una morte sul lavoro, la giovane età di Lorenzo, e il fatto che stesse svolgendo un apprendistato, ha alimentato fin da subito accese proteste tra gli studenti. Fin dall’inizio si è parlato infatti di alternanza scuola-lavoro. Lorenzo frequentava invece il Centro di Formazione Professionale Bearzi, e seguiva il percorso in meccanica industriale. Era al quarto anno, quello che si svolge in modalità ‘duale’: metà della formazione viene svolta in azienda, sottoscrivendo un piano formativo tra datore di lavoro, allievo ed ente; e l’altra metà all’interno del Centro di formazione. 528 ore presso il centro, 528 ore da svolgere in aziende selezionate, con possibilità di attivare il contratto di apprendistato di primo livello, si legge sul sito del ‘Bearzi.

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«È un modello che per sua natura nasce con una curvatura aziendale, con l’obiettivo di orientare i giovani e favorire la loro occupazione», ha spiegato Gabriele De Simone, presidente della rete ATI del Friuli-Venezia Giulia che si chiama EffePi ("F" sta per formazione, "P" per professionale), che coordina l’offerta formativa dei 13 enti della Regione con curvatura professionalizzante, tra cui anche il Bearzi. A gestire la filiera di questi istituti, infatti, non è il Ministero dell’Istruzione, ma sono le Regioni. «Prima che il ragazzo entri in azienda viene formato per le attività pratiche. Il primo anno non si svolge nessuno stage, solo laboratori. I giovani frequentano prima dei corsi di sicurezza, poi si inizia con le esperienze laboratoriali e poi con le ore di stage, che aumentano con gli anni. È un modello che funziona: nei sei mesi successivi al diploma l’occupazione dei nostri studenti è del 94%. Spesso gli studenti che arrivano nei Centri di formazione professionali hanno abbandonato altri percorsi di studi - continua ancora De Simone - quindi la nostra azione ha anche l’obiettivo di ridurre la dispersione scolastica».

Ma le proteste studentesche non hanno posto l’accento su questa distinzione, e hanno sottolineato piuttosto il fatto che Lorenzo stava svolgendo un tirocinio non retribuito. Domenica 23 gennaio, a poche ore dalla morte di Lorenzo, circa duecento studenti hanno manifestato a Roma, in Piazza della Rotonda, davanti al Pantheon, per chiedere giustizia per il ragazzo. Ma quando il corteo si è messo in marcia verso il Ministero dell’Istruzione, i giovani sono stati caricati dalle forze dell’ordine, che hanno impedito la marcia dei ragazzi perché non autorizzata. Gabriele, un giovane dell’organizzazione OSA (Opposizione studentesca d'alternativa) è tra i giovani rimasti feriti negli scontri. «Quando ci siamo diretti verso il Ministero ci siamo ritrovati davanti gli agenti in tenuta antisommossa che ci hanno subito presi a manganellate. Non c’è stata possibilità di dialogo - ha raccontato a Valigia Blu - Ho partecipato a diverse manifestazioni ma non ho mai visto nulla di simile». La manifestazione al Pantheon era stata autorizzata ma in modalità statica: a causa delle misure anti-Covid non era autorizzato il corteo. «Siamo consapevoli delle restrizioni vigenti per la sicurezza sanitaria, ma ci sono tempi burocratici e tempi politici - aggiunge Gabriele - quello che è successo a Lorenzo ha significato tanto per noi. E avevamo la necessità politica di farlo capire con ogni mezzo necessario. La protesta non si può fare con i fiori».

Il 28 gennaio manifestazioni simili si sono svolte anche a Napoli, Milano e Torino, con episodi di violenza ancora più gravi. Su alcuni striscioni c’era scritto "Non si può morire di scuola. Non si può morire di lavoro". Secondo il racconto di Martina, una studentessa di Torino sentita da Valigia Blu, «il corteo non è mai iniziato. Appena abbiamo provato a metterci in marcia siamo stati subito presi a manganellate. Ci sono state tantissime cariche e alla fine i feriti erano più di 40, e moltissimi sanguinavano. Ancora oggi ci sono studenti che portano il gesso o le stampelle. Ci siamo trovati in una situazione molto brutta, nessuno di noi era preparato a un’azione così violenta. Avevamo la chiara sensazione che si volesse impedire agli studenti di manifestare».

Nei giorni successivi agli scontri, sono state presentate diverse interrogazioni parlamentari alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha parlato di «bastonatura a senso unico di ragazzi e ragazze». Pina Picierno (PD) prima firmataria di un’interrogazione rivolta alla Commissione europea, ha detto che in piazza sono stati violati «diversi diritti garantiti dall'ordinamento dell'Unione e consacrati tra l'altro nella Carta dei diritti fondamentali». Il segretario del PD Enrico Letta l’ha definita una «vicenda abbastanza grave sulla quale devono essere date risposte». Amnesty Italia ha inviato osservatori alla manifestazione del 4 febbraio a Torino per monitorare eventuali violazioni dei diritti umani.

Intervenuto a Radio Anch’io, su Rai Radio 1, Girolamo Lacquaniti, portavoce dell’Associazione nazionale funzionari polizia, ha sottolineato il fatto che per disposizione di legge i cortei non sono garantiti, e ha poi aggiunto che a Torino «la presenza dei centri sociali ha condizionato la manifestazione. Sono pronto ad accettare le critiche e un confronto sul senso della proporzione - ha detto - Ma in ospedale ci sono finiti anche diversi nostri operatori. Un nostro collega è stato ferito da una bomba carta». Lacquaniti ha poi aggiunto che gli agenti sarebbero stati provocati dal lancio di uova e altri oggetti. «Trovo spiacevole e preoccupante che si consideri normale il lancio di oggetti e le provocazioni - ha detto - e se si parla di logica del manganello, vorrei direi che i figli che vanno nelle scuole dove è morto quel ragazzo, sono i figli dei poliziotti. E se si parla di sicurezza sul lavoro, ricordiamoci che i poliziotti in quei momenti stanno lavorando».

Anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha parlato di “gruppi infiltrati che cercavano disordini", e ha ribadito che «deve essere sempre garantito il diritto di manifestare e di esprimere il disagio sociale, compreso quello dei tanti giovani e degli studenti che legittimamente intendono far sentire la loro voce. La linea da seguire - ha detto - non può che essere quella del confronto e dell'ascolto». Nel corso degli ultimi cortei studenteschi che si sono svolti in tutta Italia venerdì 4 febbraio per protestare contro le modalità di svolgimento della maturità 2022, non ci sono stati disordini.

Resta da capire perché la morte di Lorenzo abbia alimentato un coinvolgimento e una rabbia così trasversale tra i giovani, e abbia riportato al centro del dibattito il tema dell’alternanza scuola-lavoro. Una modalità didattica introdotta nel 2015 dal governo Renzi e dal 2018 trasformata in Pcto (Percorsi per le Competenze Trasversali e l'Orientamento). Secondo Luca Iannello della Rete Studenti Medi, la generazione di giovani che è scesa in piazza non aveva ancora avuto modo di manifestare contro questo modello, che ormai considerava naturale, «perché nel 2015, al tempo delle proteste nate per la ‘Buona Scuola’ di Renzi, erano troppo piccoli». Luca, 20 anni, ci tiene a ribadire che «gli studenti non devono confondere il Pcto con il percorso che stava seguendo Lorenzo. Ma questo non vuol dire che il PCTO vada bene così com’è».

L’impressione è che, a seguito della morte di Lorenzo, si siano riaccesi focolai di dissenso di lungo corso. «Non stiamo strumentalizzando la morte di Lorenzo. Il suo caso è l’esempio di com’è la scuola oggi - dice Gabriele a Valigia Blu - la nostra critica è trasversale sia al modello di scuola e di lavoro in cui siamo inseriti. Un modello competitivo e classista, dominato dal precariato. Siamo cresciuti con l’idea che bisogna fare la gavetta e che è normale essere sfruttati. Quello che ti insegnano è il massacro sociale».

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Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione all’epoca della riforma renziana, spiega che all’origine dell’idea di alternanza, c’era un modello didattico diverso dalla lezione frontale. «Si trattava di un percorso curriculare, con tutti i controlli e le verifiche del caso - spiega a Valigia Blu - non era un avviamento al lavoro, ma un percorso che aiutava i giovani ad accrescere le proprie competenze, oltre alle conoscenze, che sono due facce della stessa medaglia. Gli aspetti da migliorare c’erano, ma eliminarla equivale a dare un’opportunità di crescita in meno ai giovani». Secondo Toccafondi, da quando è stata ridimensionata, a partire dal 2018, e trasformata in PCTO, la vecchia alternanza ha perso la sua funzione, perché “ridotta e polverizzata”. «Aveva senso all’interno di un progetto unitario che prevedeva fondi per le scuole, corsi di sicurezza sul lavoro, e un coordinamento da parte del Ministero dell’Istruzione, pronto a correggere le storture, valutare e tenere le redini dell’alternanza».

La normativa attuale stabilisce in 210 ore la durata minima triennale dei PCTO negli istituti professionali, 150 nei tecnici e 90 nei licei. Il PCTO è obbligatorio, e le esperienze svolte dai ragazzi durante i percorsi sono oggetto della prova orale dell’esame di Stato. Negli ultimi giorni, in concomitanza con le proteste studentesche, sulle pagine social delle organizzazioni studentesche, ragazzi e ragazze hanno raccontato le loro esperienze di scuola-lavoro. In alcuni casi, si tratta di esperienze poco o per nulla formative, mansioni che non stimolano i ragazzi né li aiutano ad orientarsi nel mondo del lavoro. «Oggi i percorsi di PCTO vanno fatti perché devono essere fatti. Ma sono casuali, in particolare ai licei. È stato un grande spot, un grande messaggio pubblicitario che non ci lascia nulla», racconta Luca Ianniello.

Secondo gli studenti scesi in piazza in questi giorni, l’alternanza scuola-lavoro andrebbe del tutto eliminata. Ma anche se molte testimonianze raccontano di sfruttamenti, lavori ripetitivi e non retribuiti, altrettante sono le voci che parlano di percorsi utili e formativi. Chiara, ex studentessa del liceo Pasteur di Roma, voleva conoscere più da vicino il mondo della giurisprudenza, e grazie a un PCTO svolto con il Movimento forense ha partecipato a processi e conferenze con avvocati professionisti. Un altro suo interesse, l’arte, l’ha portata al MAXXI di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, dove il progetto MAXXI A[R]T WORK introduce i giovani alle professioni della cultura, con lo scopo di far conoscere il ‘dietro le quinte’ di un museo, presentando le figure professionali impiegate, le loro mansioni e il percorso formativo che le ha portate a lavorare in quell’ambito.

«I nostri sono workshop, non si tratta di un lavoro ma di vera e propria formazione e orientamento post diploma. I ragazzi devono conoscere, non fare. Non entrano nei processi lavorativi ma li simulano», spiega a Valigia Blu Federico Borzelli, ideatore e curatore di MAXXI A[R]T WORK. «Da noi gli studenti non vengono a strappare i biglietti ma incontrano gli addetti ai lavori e poi grazie ai laboratori sperimentano i processi creativi. Ma è vero che tanti ragazzi in altri progetti sono sfruttati o coinvolti in mansioni ripetitive». Per questo, secondo Borzelli, i Pcto non possono essere confusi con gli stage che al contrario devono essere pagati. «I Pcto sono parte del percorso di apprendimento e non devono essere lavoro non retribuito. All’inizio le scuole che partecipavano al progetto erano per lo più quelle del quartiere Flaminio, in cui si trova il MAXXI, ma poi il progetto è cresciuto e ha coinvolto anche studenti di tutte le scuole di  Roma, non solo licei ma anche istituti tecnici. Con l'apertura di una sede del museo a L’Aquila, il Pcto del MAXXI è arrivato anche nel capoluogo abruzzese. Il gradimento da parte degli studenti è tale che da noi 18app va alla grande».

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Secondo Borzelli il problema principale è la poca attenzione che viene rivolta nei confronti di questi percorsi. “L’anello debole è il fatto che il tutor scolastico, spesso oberato dal lavoro quotidiano, non riesce ad indirizzare gli studenti verso le tante opportunità che ci sono. E poi i ragazzi dovrebbero essere liberi di decidere quale percorso gli interessa di più, mentre spesso viene selezionato un progetto unico per tutta la classe».

Per Luca Iannello «sarebbe auspicabile introdurre un altro sistema: aboliamo e ricostruiamo da capo questo Pcto. Perché il problema principale, che non viene affrontato, è quello dell’orientamento», per questo molti giovani si sentono persi, anche nella scelta del Pcto. «L’inserimento di momenti formativi non è negativo, anzi. Ma non con queste modalità».

Foto di Matteo Oi

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