La polizia israeliana sta reprimendo le proteste contro la guerra
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di Oren Ziv (+972 Magazine)
La sera del 16 gennaio, alcune decine di attivisti si sono riunite a Tel Aviv davanti alla Kirya, sede del ministero della Difesa e del quartier generale dell'esercito israeliano. Dall’inizio della guerra, si è trattato di una delle prime manifestazioni di ebrei israeliani per condannare in modo esplicito l'assalto militare alla Striscia di Gaza. La polizia ha agito rapidamente per reprimerla: decine di agenti sono stati dispiegati in anticipo, rifiutandosi di far svolgere la protesta nel luogo previsto. Hanno sequestrato i cartelli con la scritta ‘Stop al massacro’, ritenendoli offensivi verso i sentimenti del pubblico. Un attivista è stato arrestato, altri sono stati aggrediti dalla polizia.
La sequenza di eventi descritta è tutt'altro che eccezionale. Dal 7 ottobre, la polizia israeliana ha attuato una politica costante di prevenzione o limitazione di qualsiasi protesta contro la guerra - a differenza delle proteste in solidarietà con gli ostaggi e le loro famiglie, che sono state autorizzate in alcune aree. Questa politica è ancora in vigore nonostante la Corte Suprema di Israele abbia emesso all'inizio di gennaio un'ingiunzione provvisoria che proibisce al ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, di interferire con la sorveglianza delle manifestazioni; in gran parte, la polizia sembra comunque applicare la repressione della libertà di espressione voluta dal ministro durante la guerra.
Gli attivisti contrari alla guerra - sia cittadini palestinesi che ebrei - intervistati per questo articolo hanno tutti menzionato una parola: "paura". Anche gli attivisti di lungo corso dicono di non aver mai avuto tanta paura di protestare. Hanno paura di essere arrestati, cosa che per i cittadini palestinesi potrebbe significare mesi di prigione. Più che mai, hanno detto, è pericoloso mostrare solidarietà con la popolazione di Gaza e ritengono che la retorica belligerante dei politici abbia un impatto diretto sul comportamento della polizia.
"Fin dai primi giorni della guerra questa linea politica è stata evidente", ha dichiarato a +972 e Local Call Maysana Mourani, avvocata del centro legale e per i diritti umani Adalah, con sede ad Haifa. "La polizia ha assunto nuovi poteri per reprimere immediatamente le proteste, anche quando non è richiesto un permesso di protesta, a causa di una presunta mancanza di personale".
Dal 7 ottobre, Adalah ha presentato diverse istanze presso la Corte Suprema per contestare i divieti imposti dalla polizia al diritto di protesta. Tuttavia la Corte, nonostante la decisione di gennaio, ha ripetutamente omesso di intervenire in numerose altre occasioni, perciò la polizia ha avuto ampia discrezionalità nel decidere quali proteste autorizzare.
"Dipende dall'identità dei manifestanti e dagli slogan", ha detto Mourani. "I tribunali vedono pericoli in ogni azione di protesta. Le persone sono automaticamente detenute per qualche giorno, poi molto rapidamente si passa a formulare un'accusa e a decidere di tenerle in carcere fino alla fine del procedimento. È una cosa del tutto assurda, un nuovo standard".
"La regola è che la polizia reprime qualsiasi protesta", spiega a +972 Amjad Shbita, segretario nazionale del partito di sinistra Hadash. Il 9 gennaio, Hadash ha tentato di organizzare una protesta nella città settentrionale di Kabul; trattandosi di una manifestazione che prevedeva meno di 50 partecipanti, non era necessario ottenere un permesso. Tuttavia, la protesta è finita prima ancora di iniziare: "La polizia ha trattenuto il segretario della sezione locale di Hadash e lo ha minacciato, così abbiamo rinunciato. La sezione ha annullato la protesta".
Nelle ultime settimane alcune restrizioni sembrano essersi leggermente attenuate. Ad Arraba, un'altra città araba del nord, il 12 gennaio si è svolta una manifestazione contro la guerra con circa 150 persone, che è diventata la più grande manifestazione guidata da palestinesi in Israele dall'inizio della guerra.
Lo scorso fine settimana, manifestazioni più ampie ad Haifa e Tel Aviv - che la polizia aveva inizialmente proibito sostenendo di non avere il personale necessario per gestirle - sono state autorizzate a seguito di istanze presentate alla Corte Suprema. Oltre mille persone hanno partecipato alla manifestazione di Tel Aviv, organizzata dal movimento ebraico-arabo Standing Together, mentre la polizia ha limitato a 700 partecipanti la manifestazione di Hadash ad Haifa.
Nonostante ciò, gli intervistati hanno la sensazione che si tratti di cambiamenti marginali. "La polizia ha un po' allentato la presa", spiega Shbita, "ma si sente ancora il loro pugno di ferro".
“Cercano di intimidirci”
La repressione delle proteste da parte della polizia israeliana, sia in tempo di guerra che in altri contesti, non è certo una novità. Ma l'attuale attacco alla libertà di espressione viene portato avanti con una velocità e una forza senza precedenti.
Una settimana dopo l'inizio della guerra, il commissario di polizia Kobi Shabtai ha annunciato il divieto di manifestazioni in solidarietà con i palestinesi di Gaza. "Chiunque voglia identificarsi con Gaza è il benvenuto", ha detto in un video postato sulle pagine arabe della polizia israeliana sui social media, "lo metterò sugli autobus che si stanno dirigendo lì adesso".
Poco dopo anche il portavoce della polizia Eli Levy si è allineato su questa posizione. A IDF Radio, emittente gestita dall’esercito israeliano, Levy ha dichiarato: "Se qualcuno osa chiedere di organizzare una manifestazione a sostegno di Gaza o del gruppo terroristico nazista che qui ha commesso l'Olocausto ovviamente non lo permetteremo. In caso di manifestazioni senza permesso, andremo sul posto per intervenire con tutti gli strumenti che abbiamo". Poi ha aggiunto: "Chiunque osi uscire e dire una sola parola a favore di Gaza finirà dietro le sbarre".
Il 7 novembre, la Corte Suprema ha respinto la richiesta di Adalah contro la decisione della polizia di non concedere un permesso di protesta ai palestinesi nelle città di Umm al-Fahm e Sakhnin a causa di una "carenza di personale". La Corte ha tuttavia affermato che "impedire preventivamente le manifestazioni in modo generico e indiscriminato a causa del loro contenuto non rientra nei poteri dei commissari di polizia" e ha insistito sul fatto che ogni richiesta di permesso venga presa in debita considerazione dalla polizia.
Rula Daood, cittadina palestinese di Israele e condirettrice nazionale di Standing Together, che la settimana scorsa ha organizzato a Tel Aviv la più grande manifestazione contro la guerra, ha spiegato le straordinarie difficoltà di organizzare proteste nel clima attuale. "La polizia ci ha dato un permesso, ma poi lo ha ritirato. All'inizio hanno detto che la marcia era stata approvata, ma che il luogo non era adatto e che i discorsi erano vietati. Le cose sono cambiate continuamente. Prima hanno detto che non ci sarebbe stata nessuna marcia, solo un sit-in piedi, e nessuno avrebbe parlato", spiega Daood. "Volevamo che migliaia di persone marciassero a Tel Aviv chiedendo la fine della guerra, un accordo di cessate il fuoco e la restituzione degli ostaggi. Vogliamo far sentire queste voci, parlare di quello che verrà dopo".
La motivazione fornita dalla polizia per i divieti - la mancanza di personale per proteggere la protesta dai contro-manifestanti - sembra essere infondata. Nessuno di questi raduni ha generato contro-proteste significative, se non per qualche passante che ha gridato contro i manifestanti.
"Cercano di intimidirci, di creare la sensazione che sia la polizia a comandare, farci credere che possa fare quello che vuole senza rispondere a nessuno", dice Daood. "È una polizia politica e fa molta paura. Se sei un cittadino palestinese, la paura è più che raddoppiata. La gente ha paura persino di partecipare a piccoli raduni, di apparire in fotografie, di scrivere qualsiasi cosa".
Il 9 novembre, l'High Follow-Up Committee - un'organizzazione ombrello che rappresenta i cittadini palestinesi di Israele - aveva in programma una protesta pacifica a Nazareth, con la partecipazione di un numero limitato di invitati. Ma la polizia ha effettuato arresti preventivi - tra cui l'ex membro della Knesset Mohammad Barakeh, presidente del Comitato - impedendo di fatto lo svolgimento della protesta.
Dopo l'arresto, Barakeh ha presentato una richiesta alla Corte Suprema, ma i giudici l'hanno respinta. Il giorno successivo, il comandante della stazione di polizia di Nazareth, Eyal Kihati, ha inviato un messaggio a Barakeh, intimandogli di non organizzare la protesta: "Come detto, il messaggio è chiaro e inequivocabile. Non tollereremo alcuna violazione di provvedimenti giudiziari o di decisioni locali da me prese in qualità di comandante, e qualsiasi manifestazione organizzata da lei o dall’High Follow-Up Committee sarà affrontata con tolleranza zero, in conformità con gli strumenti che la legge ci mette a disposizione".
A dicembre, Barakeh è stato seguito da veicoli della polizia. Alla fine la protesta è stata autorizzata per il mese successivo, senza ulteriori arresti.
“C'è un senso di impotenza”
Il 19 ottobre si è tenuta a Umm al-Fahm una manifestazione contro la guerra. La feroce reazione della polizia - la manifestazione è stata dispersa con granate stordenti, bastoni e proiettili di gomma e la polizia ha arrestato 12 dei manifestanti - l'ha resa un simbolo della repressione dall'inizio della guerra.
La polizia ha chiesto la custodia cautelare per 11 dei fermati, tra cui quattro minorenni, e il tribunale ha approvato la richiesta senza concedere alcuna udienza ai detenuti, dato che lo Shabbat era già iniziato. Dopo l'udienza di sabato sera, nove dei detenuti sono stati rilasciati a determinate condizioni, mentre altri due - Ahmad Khalifa e Muhammad Jabarin, considerati dalla polizia gli organizzatori della protesta - sono rimasti in carcere.
Entrambi sono stati incriminati per aver gridato slogan politici che il tribunale ha considerato incitamento, e la loro detenzione è stata prorogata fino alla fine del procedimento - è forse la prima volta che ciò accade solo sulla base di slogan. Mourani, avvocato di Adalah, rappresenta Jabarin. "Sostengono che il problema siano l'incitamento e gli slogan, e non la manifestazione, ma è impossibile separare i primi dalla seconda", spiega. "Quando abbiamo discusso di un'alternativa alla detenzione, hanno sostenuto che gli arresti domiciliari e il monitoraggio a distanza erano impossibili, perché i detenuti sarebbero stati teoricamente in grado di violarli e di uscire di casa per manifestare. Quindi, in definitiva, si tratta di manifestazioni. È una persecuzione politica. Non si tratta di nuovi slogan, né di qualcosa di specifico legato al 7 ottobre".
Il loro non è un caso isolato. Dal 7 ottobre, l'ufficio del procuratore di Stato ha incoraggiato gli inquirenti in decine di casi a chiedere al tribunale di estendere la detenzione fino alla fine del procedimento, compresi i casi di "incitamento" sui social media.
In una delle udienze, Khalifa - uno dei due incriminati - ha descritto al giudice le condizioni della prigione di Megiddo, dove si trova come detenuto di sicurezza: "Le persone sono tenute in manette, vengono trascinate in giro come animali. Se provi ad alzare la testa te la colpiscono. L'ho visto quotidianamente. Se una guardia sorprende qualcuno che sorride, lo porta via; c'è un'area lontana dalle telecamere di sicurezza che tutto il carcere conosce".
Khalifa ha anche testimoniato che un detenuto nella cella accanto alla sua è stato picchiato ed è poi morto per le ferite riportate, confermando altre testimonianze riportate da +972 il mese scorso.
Secondo Shbita, le persone hanno paura di protestare a causa di storie come queste che sentono da chi è stato arrestato. “Gli attivisti politici si sono detti in passato ‘ci terranno in prigione per un giorno o due, non è la fine del mondo"", spiega Shbita. “Ora c'è la sensazione che questa sia davvero la fine del mondo, anche tra le persone che partecipano regolarmente alle proteste, a causa della violenza fisica durante le detenzioni".
Mentre nelle ultime settimane si sono svolte piccole proteste in località arabe del nord, non ci sono state manifestazioni simili nel Naqab/Negev, a sud. "Mi addolora che in tutto il mondo la gente manifesti per noi - in Europa le persone sono centinaia di migliaia - ma qui non siamo in grado di manifestare per noi stessi", ha detto Huda Abu Obeid, un'attivista politica del Naqab. "C'è un senso di impotenza. L'unica cosa che potevamo fare prima della guerra era protestare, e ora non possiamo fare nemmeno quello".
Secondo Abu Obeid, all'inizio non ci sono state proteste perché la gente è stata colta di sorpresa dagli eventi del 7 ottobre. "È stato un vero shock", ha detto. "Siamo abituati agli attacchi di Israele, ma questa è stata la prima volta che i palestinesi hanno attaccato in modo così massiccio. Non sapevamo come reagire".
Abu Obeid collega anche la mancanza di proteste all'effetto dissuasivo provocato dalla campagna di arresti di massa contro i cittadini palestinesi di Israele sulla scia dell'"Intifada dell'Unità" del maggio 2021. "Lo Shin Bet è riuscito a spaventare tutti", ha detto. "Hanno convocato gli attivisti per gli interrogatori, li hanno intimiditi, sono venuti nei luoghi dove si fa attività politica. La sensazione è che qualunque cosa tu faccia, anche se non è legata alle manifestazioni, sarai sempre perseguitato".
“Siamo silenziati da ogni direzione”
In assenza di grandi proteste, la maggior parte delle attività contro la guerra ha riguardato piccole veglie locali per le quali non sono richiesti permessi - ma anche queste sono state bersagliate dalla polizia e dai passanti. Le veglie tendono a non essere pubblicizzate sui social media, se non in gruppi chiusi. Per evitare la formazione di una contro-protesta di destra, di solito durano meno di un'ora e gli attivisti arrivano e se ne vanno insieme, temendo di essere attaccati durante il tragitto.
L'ultima azione di questo tipo a essere dispersa con la forza dalla polizia è stato un piccolo raduno, avvenuto la scorsa settimana nella città araba di Al-Batuf, vicino a Nazareth. All'inizio del mese, alcuni attivisti di Tel Aviv hanno organizzato una mostra di fotografie recenti da Gaza; i passanti, alcuni dei quali armati, hanno attaccato gli attivisti e strappato le immagini mentre la polizia assisteva.
Mentre i media arabi internazionali e locali hanno mostrato grande interesse per queste proteste e veglie, gli eventi sono stati quasi completamente ignorati dai principali organi di informazione israeliani. "La nostra voce è a malapena ascoltata in Israele", ha dichiarato Michal Sapir, un attivista del "blocco radicale", che ha organizzato la mostra di strada. "Siamo silenziati da ogni direzione. Lo Stato non mostra ciò che sta accadendo a Gaza, quindi è importante per noi alzarci in piedi e dire che l'uccisione di civili a Gaza che viene fatta in nostro nome deve finire, e che non c'è una soluzione militare".
Quando è iniziata la guerra, gli attivisti hanno dovuto capire come aggirare il divieto di manifestare. "Siamo andati per gradi", ha detto Sapir. "Non sapevamo quale sarebbe stata la reazione. All'inizio ci siamo solo uniti alle famiglie degli ostaggi. Abbiamo provato a vedere se fosse possibile partecipare con cartelli che chiedevano un cessate il fuoco, e abbiamo visto che si poteva fare. Pian piano siamo passati a slogan più radicali e alle marce nelle vie principali di Tel Aviv. Ci siamo resi conto di ciò che si poteva dire e di ciò che invece avrebbe provocato una repressione violenta.
"Fino alla repressione dei cartelli [durante la protesta del 16 gennaio davanti alla Kirya - NdT], la polizia non ci aveva dato molti problemi, ma ora ha una nuova politica", spiega Sapir. "Sono stanchi della nostra vicinanza al quartier generale militare". Di tanto in tanto, continua Sapir, gli attivisti sono attaccati dai passanti. "Un fattorino ci ha lanciato delle uova. Ma di solito c'è tolleranza, a volte sostegno".
Nelle ultime settimane gli attivisti di Gerusalemme hanno organizzato diverse piccole manifestazioni contro la guerra, tra cui alcune davanti al Consolato degli Stati Uniti. Una di queste, una veglia per i caduti di Gaza all'inizio di gennaio, è stata dispersa con la forza dalla polizia, con l'arresto di due manifestanti e il sequestro di fotografie dei caduti di Gaza. La settimana scorsa, un'altra veglia di protesta a Gerusalemme è stata attaccata dalla polizia, che ha confiscato i cartelli e spinto via i manifestanti.
"Tutto fa paura", ha dichiarato a +972 e Local Call un attivista del gruppo di sinistra Free Jerusalem, che ha preferito non essere nominato. "La posta in gioco è più alta che mai. A differenza del passato, quando pubblicizziamo apertamente gli eventi siamo più attenti. L'opinione pubblica e le dichiarazioni dell'intera leadership politica israeliana si sono spostate a destra e questo ha aumentato il livello di paura e di ansia".
In una delle prime manifestazioni per il rilascio degli ostaggi, gli attivisti di Free Jerusalem hanno chiesto di porre fine alla guerra per garantire il rilascio, ma sono stati attaccati dai passanti. "Non era nemmeno direttamente contro la guerra, ma c'è stata violenza", racconta l'attivista. "Nelle due manifestazioni che abbiamo tenuto di sera il 6 e il 13 gennaio, la polizia ci ha disperso violentemente dopo pochi minuti e non ci ha permesso di protestare", continua. "Hanno sequestrato i nostri grandi cartelli con scritto ‘No alla guerra a Gaza’ e ‘Cessate il fuoco adesso”.
"La polizia ci ha insultato, ci ha chiamato puttane e ci ha detto di tornare a Gaza"
Ad Haifa, gli attivisti hanno escogitato modi creativi per eludere la violenta repressione della polizia. Il 28 dicembre, un piccolo gruppo di attivisti ha tenuto quella che hanno definito una manifestazione "a salti", che li ha visti spostarsi da un luogo all'altro prima che la polizia potesse fermarli.
"Non l'abbiamo pubblicizzata in grandi gruppi sui social media, perché sappiamo che la polizia li monitora", spiega Gaia Dan, un'attivista di Haifa. "In realtà ha funzionato abbastanza bene. Siamo rimasti in piedi nella Colonia Tedesca [nel centro di Haifa, NdT] per 20 minuti, quando la polizia è arrivata eravamo già in un altro punto. Lì la polizia è arrivata nel giro di cinque minuti, così siamo fuggiti nel terzo punto. Stiamo cercando di essere presenti senza che questo sfoci nella violenza".
Dan era stata arrestata durante un'altra protesta avvenuta in città un mese prima, in cui gli attivisti erano rimasti in silenzio con il nastro adesivo sulla bocca per protestare contro la persecuzione politica nei confronti di chi esprimeva dissenso contro la guerra. "Quando siamo arrivati c'erano già tre auto della polizia. Il comandante del distretto ha gridato attraverso un megafono che se non ci fossimo dispersi entro due minuti l'avrebbero fatto loro con la forza".
Secondo Dan, la polizia si è avventata sulla protesta. "Hanno arrestato un manifestante e hanno iniziato a strappare i cartelli, spintonando le persone. Hanno strappato il mio cartello, che diceva solo Stop al silenzio. Mi hanno trascinato e preso a calci. È così che sono stato arrestata".
Dan racconta che all'interno dell'auto della polizia, dove era con altre due arrestate, gli agenti "ci hanno insultato, ci hanno chiamato troie, ci hanno detto di tornare a Gaza e ci hanno chiesto perché non ci vergognassimo di manifestare a quel modo in tempo di guerra. Mentre aspettavamo alla stazione, i poliziotti hanno continuato a imprecare e a cantare canzoni sul ritorno a Gush Katif [il blocco di insediamenti ebraici a Gaza smantellato nel 2005] e sulla distruzione di Gaza. Dopo tre ore ci hanno rilasciato".
La repressione del dissenso ad Haifa da parte della polizia è cominciata subito dopo lo scoppio della guerra. Il 18 ottobre, il movimento Hirak aveva programmato una manifestazione in città. Poche ore prima dell'inizio, la polizia ha rilasciato una dichiarazione affermando che non era stato concesso alcun permesso, aggiungendo: "Non sarà permessa alcuna manifestazione di sostegno o solidarietà con l'organizzazione terroristica di Hamas. Agiremo con fermezza, in conformità con la legge, per disperdere la manifestazione, anche utilizzando misure di dispersione di massa, se necessario".
Gli attivisti sono andati avanti con la manifestazione nonostante tutto; decine di agenti di polizia sono arrivati e l'hanno dichiarata illegale, disperdendo violentemente i manifestanti e arrestando cinque attivisti che si sono rifiutati di andarsene. Adalah, i cui avvocati hanno rappresentato legalmente tre dei detenuti, è stata informata che questi sarebbero rimasti in carcere tutta la notte su ordine del commissario di polizia. Il giorno successivo, il tribunale di Haifa ha ordinato il loro rilascio.
Il 29 ottobre, l'attivista Yoav Bar è stato arrestato nella propria abitazione con quello che la polizia ha definito "materiale di incitamento" - manifesti politici - prima di essere rilasciato senza alcuna restrizione.
Dopo gli arresti per la protesta del 28 dicembre, Dan ritiene che la gente di Haifa abbia paura di scendere in strada. "Alla prima manifestazione eravamo in 20, ora è difficile trovarsi in cinque", ha detto. "La gente vede anche quello che succede a Tel Aviv e a Gerusalemme: non vuole venire a una manifestazione ed essere picchiata, e li capisco. È difficile ed estenuante, ogni volta che arrivi pensi che potrebbe finire con un arresto o con l'essere schiacciati sul marciapiede. Anch'io ho paura. Ma alla fine della giornata, come ebrei abbiamo il privilegio di sapere che di solito non affronteremo una detenzione prolungata, ed è importante manifestare come possiamo".
Shbita, il segretario di Hadash, spera che ora, a tre mesi dall'inizio della guerra, anche nel mainstream ebraico si capisca il motivo della protesta. "Lo shock del 7 ottobre è stato reale, ma credo che con il passare del tempo la gente si stia ponendo delle domande", dice. "Purtroppo, le persone in Israele iniziano a porsi domande difficili solo quando la loro parte viene danneggiata. Non si preoccupano delle 20-30 mila vittime palestinesi, ma del pericolo per la vita degli ostaggi, dei soldati uccisi, dei problemi diplomatici, della crisi economica - tutti questi elementi porteranno l'opinione pubblica a porre delle domande".
+972 e Local Call hanno contattato la polizia israeliana per avere un commento sulla sua politica di prevenzione delle proteste contro la guerra, sull'autorità che ha per confiscare i cartelli e sul trattamento dei detenuti ad Haifa da parte degli agenti di polizia.
In risposta, un portavoce della polizia ha dichiarato: "Senza fare riferimento a un caso o a un altro, sottolineiamo che la Polizia di Israele opera in conformità alle disposizioni di legge e alle condizioni stabilite dalla direttiva della Procura di Stato. La Polizia di Israele consentirà il legittimo diritto di esprimere la libertà di protesta, ma non consentirà manifestazioni di violenza contro gli agenti di polizia impegnati nella sicurezza e nel mantenimento dell'ordine pubblico, e non permetterà in alcun modo che venga disturbato".
Articolo originale pubblicato su +972 Magazine e tradotto per gentile concessione della testata. È possibile sostenere +972 Magazine a questo link.
Immagine in anteprima: frame video AFP via YouTube