“Finché violenza non ci separi”, la grottesca proposta della destra umbra per contrastare la violenza contro le donne
7 min letturaAggiornamento 11 ottobre 2021: L’Ordine Del Giorno è stato contestato dall’opposizione come anche dalle associazioni femministe del territorio. Il consigliere di maggioranza Massimo Pici in apertura del consiglio ha chiesto di rimandare l’atto in commissione perché si è accorto che il testo discusso il 5 ottobre non era definitivo e necessitava di alcuni emendamenti.
S’intitola “Finché violenza non ci separi”, la proposta presentata da due consiglieri comunali del centro-destra il 5 ottobre scorso a Perugia. Il testo era già stato portato all’ordine del giorno in Comune il 7 settembre scorso, tuttavia era stato chiesto un rinvio: alla seduta non erano stati invitati gli attori competenti sul tema della violenza di genere, in particolare i CAV (Centri Anti Violenza). Nemmeno in questa seconda seduta sono state ascoltate le associazioni che si occupano concretamente di violenza di genere sul territorio, in particolare Liberamente Donna e Rav - Rete AntiViolenza. Anzi, durante il consiglio, che è pubblico e si può vedere per intero, si sente distintamente uno dei partecipanti domandare che cosa siano i CAV, a grottesca conferma di una lacuna su un termine che dovrebbe essere ormai dato per acquisto. In sostegno alla proposta sono state invece invitate le Forze dell’ordine, l’Associazione Il Coraggio della paura, nella prima seduta, e Tiziana Casale, presidente di Progetto Donna, una associazione culturale che ha come obiettivi “la valorizzazione della donna” attraverso “la volontà e il bisogno di operare un cambiamento nella propria vita e di ripartire”, nella seconda. La proposta, passata in Giunta, verrà discussa oggi in Consiglio Comunale.
Il Comune di Perugia, a direzione Forza Italia-Lega, sembra voler fare uno sforzo apparentemente giusto nelle intenzioni per portare “soluzioni”, possibilmente pratiche e immediate, all’“emergenza” della violenza di genere. Peccato che, nelle parole dei vari consiglieri ed esperti che si sono alternati, non si parli di “violenza di genere” o “violenza contro le donne” bensì di “violenza contro le persone”, come è stato più volte sottolineato da tutti i sostenitori della proposta. Ora, fiumi di inchiostro sono stati spesi, a partire proprio da Valigia Blu, sull’annosa questione, che pensavamo superata. Se si parla di violenza sulle donne e non sugli uomini c’è un motivo che non è ancora chiaro a Cristiana Casaioli e Massimo Pici, i due consiglieri che hanno elaborato il testo, ovvero che la violenza di genere è violenza diretta contro una persona in ragione del suo genere. Secondo l’European Institute for Gender Equality , una parte “sproporzionata” della violenza di genere è inflitta dagli uomini sulle donne. Ma non a Perugia, e nemmeno in Italia. Nel mondo. I protocolli che usano i CAV sono protocolli applicati globalmente.
Tra l’altro, la questione della violenza di genere non è un’emergenza, ma una situazione strutturale che richiede interventi costanti e colpisce una donna su tre a qualsiasi latitudine del pianeta. Partendo da questo presupposto linguistico e concettuale – che farebbe cadere le braccia a qualsiasi vero esperto di violenza di genere, a prescindere dal suo credo politico – proviamo ad addentrarci nei meandri del testo e della proposta dal titolo, come è stato detto, “volutamente provocatorio”.
L’idea di Pici-Casaioli è che sia necessario creare un percorso “all’interno del quale fornire utili indizi a entrambi i soggetti, dando conto di elementi e indicatori che caratterizzano i cosiddetti rapporti sbilanciati o malati”. Il testo propone corsi prematrimoniali e pre-convivenza per prevenire la violenza di genere, ma anche vacanze per le coppie in crisi, gadget, benefit. Si parla di lavorare sulla formazione imponendo “una seria riflessione sulla motivazione che inizialmente affascina anche alcune delle potenziali future vittime”, spostando ancora una volta l’attenzione sulle vittime, come se le donne scegliessero la violenza, e non la subissero.
Massimo Pici insiste anche sulla possibilità di riservare degli alloggi a uno dei partner della coppia in crisi:
“I Centri Antiviolenza… per carità servono, ma sarebbero meglio degli appartamenti. Perché andare in un CAV significa andare casa, prendere il pigiamino dei figli e poi andare in un centro… e dopo non è che puoi uscire. L’80% delle donne torna indietro e non denuncia”.
Lo sconcerto che provoca questa frase è enorme sommato al dubbio che sorge in chi ascolta: saranno a conoscenza della Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, il primo trattato legalmente vincolante sul tema, nato con l’obiettivo di porre fine alla violenza e alle discriminazioni contro le donne, proteggere le vittime ed eliminare l'impunità per chi commette abusi? Avranno letto i protocolli sulla violenza di genere? Secondo l’articolo 48 della suddetta convenzione c’è un “Divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie”.
Maurita Lombardi, avvocata e legale dell’associazione Liberamente Donna - l’associazione che gestisce i principali Centri Anti Violenza dell’Umbria - dice a Valigia Blu: “Non do giudizi aprioristici, sicuramente ci sono dietro delle buone intenzioni, ma la Convenzione vieta chiaramente la mediazione e spiega bene la differenza tra conflitto e violenza. Questa proposta è culturalmente inaccettabile e dal punto di vista legislativo non sta in piedi. Inoltre si vogliono introdurre strumenti correttivi come gli spostamenti delle donne che hanno subito violenza da un Comune all’altro per far sì che ‘stacchino la spina’ quando è chiaro le donne in questione faticano ad avere consapevolezza della loro situazione”.
I consiglieri hanno insistito molto sulla questione delle denunce: secondo loro lavorando in questo modo e offrendo ad esempio appartamenti anche fuori dal Comune di residenza le donne maltrattate sarebbero spinte a denunciare di più. “Considerare l’unità abitativa non come strumento per compiere un percorso, ma come premio è pericoloso”, commenta Lombardi.
Conviene allora fare un passo indietro e ripassare che cosa fanno i Centri Antiviolenza. Lo spiega bene, rivolgendosi anche a un pubblico di giovanissime, Carlotta Vagnoli nel suo libro appena uscito e già più volte ristampato “Maledetta sfortuna. Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere” (Fabbri):
“I Centri Anti-Violenza sono dei safe space, dei luoghi in cui vengono accolte le donne che e all’interno dei quali si offre consulenza e sostegno pro bono, sia legale sia psicologico, oltre che assistenza telefonica. Il principio su cui si basano i CAV è quello della libera scelta, secondo il principio di autodeterminazione: nessuna viene costretta a denunciare o a sottoporsi a visite e colloqui, se non lo vuole. Il percorso lo sceglie in primis la survivor, valutando ciò che crede meglio per sé”.
Il compito di far sentire sicure le donne di denunciare è della società civile, e non di qualche bonus o gadget o residence incentivante. “La tutela delle vittime parte proprio dalla società, che deve accoglierle e non farle sentire in colpa, avvicinarle al processo e non disincentivarle. Tale passaggio è fondamentale per costruire una struttura sociale sicura fino a quando non giungeremo a un’effettiva parità tra i sessi”, scrive Vagnoli.
Delicata è la questione del ruolo che hanno le forze dell’ordine che, come sanno bene le operatrici dei CAV, può essere essenziale e utile, ma talvolta può essere controproducente. Sono tante le donne che non denunciano proprio perché sottoposte da parte delle forze dell’ordine a domande morbose o donne che non vengono e screditate. Invito Pici e Casaioli a leggere “X” di Valentina Mira per farsi un’idea dell’odissea che può vivere una donna, in questo caso italiana, che tenta di denunciare uno stupro. I carabinieri le chiedono delle prove che non ha, i lividi non ci sono, e po’ di sangue tra le lenzuola non è sufficiente. Quando il carabiniere le suggerisce di farsi fare un finto certificato medico di stress post traumatico o di recuperare dei testimoni falsi, e poi la sera stessa le manda un messaggio chiedendole di uscire, Valentina Mira, come l’80% delle donne italiane, deciderà di non denunciare.
Massimo Pici, ex poliziotto, ha fondato insieme a Vanna Ugolini e Pasquale Rossi, con il supporto del SIULP (Sindacato autonomo di polizia) l’associazione culturale sportiva Libertas Margot. Vanna Ugolini ha firmato un articolo uscito di recente sul Messaggero nel quale Valeria Valente (Partito democratico), Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, afferma di apprezzare il progetto “Finché violenza non ci separi”. Raggiunta da Valigia Blu, Valente ha però smentito: "In linea teorica e di principio non posso che essere favorevole alle attività finalizzate alla prevenzione della violenza contro le donne. Quando mi è stata chiesta un’opinione sulla generica possibilità di inserire anche nei corsi prematrimoniali indicazioni contro la violenza sulle donne mi sono dunque dichiarata favorevole, ma solo a patto di finalizzare la formazione alla maggiore consapevolezza degli uomini che, ricordiamolo, sono gli autori di una violenza asimmetrica e che quindi non possono essere messi sullo stesso piano delle donne. Ciò che sta emergendo sull’ordine del giorno presentato ripetutamente dal centrodestra al consiglio comunale di Perugia è quindi qualcosa di non corretto. Innanzitutto va sottolineato che per debellare la violenza di genere è assolutamente indispensabile riconoscerne la matrice specifica di violenza maschile contro le donne, basata sulla disparità di potere tra uomini e donne e su una relazione sbilanciata e non solo 'malata'. Le radici di questa violenza sono nella cultura patriarcale e proprio per questo i soggetti deputati alla formazione devono essere principalmente i centri antiviolenza, che sanno correttamente inquadrare e affrontare il fenomeno. L’attività di formazione per la prevenzione non può che passare dai centri antiviolenza. La vera emergenza è quindi finanziare in modo ordinario e con procedure celeri i centri antiviolenza e le case rifugio”.
Fa specie che a corredo dell’articolo del Messaggero sia stato scelto un fotogramma de “La guerra dei Roses”, il celebre film con Michael Douglas e Kathleen Turner, che lascia intendere la confusione anche giornalistica tra violenza e conflitto. La violenza è unilaterale, il film raccontava i bisticci tra marito e moglie. Reazioni sconcertate anche da parte di UDI (Unione Donne in Italia), SPI (Sindacato Pensionati) e CGIL. “E’ particolarmente grave”, commenta Sara Pasquino, avvocata e attivista, e componente del Centro Pari Opportunità della Regione Umbria, “che le destre strumentalizzino il tema della violenza di genere fino a neutralizzarlo. Possono occuparsi di altre questioni, terapie di coppia e corsi prematrimoniali, ma non utilizzare il tema della violenza per trovare consenso. Alla destra le associazioni femministe non piacciono. Inoltre, nemmeno il Centro Pari Opportunità è stato invitato ufficialmente alla seduta, ma sono state chiamate soltanto due delegate in modo informale”. Nel frattempo UDI e altre associazioni cittadine hanno scritto una lettera aperta al Sindaco e al Consiglio Comunale, lanciato una petizione online sottoscritta finora da oltre 700 firme su una petizione online, e sollevato una forte preoccupazione definendo la proposta così formulata “in contrasto con la normativa internazionale, nazionale e regionale sul tema della violenza di genere che vieta la mediazione”.
Immagine in anteprima: Camelia.boban, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons