La questione dei nomi delle professioni al femminile una volta per tutte
17 min letturadi Vera Gheno
Recentemente, sui media si è parlato molto dell’elezione di Antonella Polimeni a rettrice dell’Università La Sapienza di Roma e della direzione della partita di Champions League Juve vs. Dinamo Kiev del 2 dicembre 2020 da parte dell’arbitra Stéphanie Frappart. Al di là della rilevanza dei due eventi, una parte della discussione pubblica ha, come di consueto, riguardato i nomina agentis, ossia i nomi di agente: declinarli o meno al femminile? Antonella Polimeni è Magnifico Rettore, Rettore donna o Magnifica Rettrice? Stéphanie Frappart è arbitro, arbitro donna o arbitra? La risposta, Zingarelli alla mano (dato che è il dizionario che più di tutti fa attenzione a riportare il maggior numero possibile di femminili professionali, e lo fa sin dal 1994) è che le forme corrette sono rettrice (peraltro già usato da altre rettrici di importanti atenei italiani) e arbitra. Aggiungo che nessuno dei due è un neologismo: già in latino esistevano le coppie rector/rectrix e arbiter/arbitra, che nel corso dei secoli hanno subito ovvi slittamenti semantici, ossia cambiamenti di significato.
La risposta, dunque, sembra semplice; eppure, sui social network – e non solo – ho letto moltissime discussioni, talvolta anche dai toni estremamente accesi, sull’opportunità o meno di impiegare questi femminili. Per cercare di risultare utile contemporaneamente a chi desidera avere delle risposte da fornire ai detrattori e alle detrattrici e a chi invece non è convinto della bontà o correttezza dei nomina agentis declinati al femminile, ecco una lista delle obiezioni più comuni assieme ad alcune possibili risposte o suggerimenti per comprendere meglio la questione. Ho scritto un intero libro su questo tema, alla cui consultazione rimando nel caso si volesse approfondire: Femminili singolari (2019, EffeQu).
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1. “I femminili sono cacofonici”
L’obiezione della cacofonia, ossia del suonar male (spesso: “Non si possono sentire”), è forse quella sollevata più spesso. Al di là del fatto che ogni persona ha i suoi gusti, perfino in fatto di parole, osserviamo che nella lingua che usiamo tutti i giorni la cacofonia o l’eufonia delle parole non ha nessuna rilevanza: usiamo i termini che ci servono, non quelli che ci suonano. Isterosalpingectomia, transustanziazione, caldaista, pantomima, gestazione, brocca sono tutte parole che alle orecchie di qualcuno possono suonare sgradevoli; ciò non toglie che le usiamo senza alcuna remora quando ne abbiamo bisogno. La questione del suono può diventare rilevante se stiamo scrivendo un testo letterario o componendo una poesia – o magari il testo di una canzone – ma non riguarda l’ambito dell’uso. Soprattutto, nessuna parola è mai stata “vietata” perché cacofonica. E poi, se maestra non è cacofonico, perché dovrebbe esserlo ministra? Insomma, se non ti piace il suono di una parola, puoi cercare di evitare di usarla. Ma questo non la rende meno “reale”.
2.“Ministra ricorda minestra, architetta è troppo vicino a tetta, fa ridere”
Il giochetto delle assonanze è divertente, ma non dirimente. Siamo pieni di parole che ne ricordano altre, magari comiche, volgari o disdicevoli, ma che usiamo lo stesso senza grossi problemi. Oppure, magari ci facciamo pure una risata sopra, ma ciò non ci impedisce di impiegarle: fallo calcistico, palle da tennis, pene d'amore, sfigato, tettonica a placche, stronzio (l'elemento chimico), cavallo di Troia, zoccoli di legno, benefica, retto cammino, cazzuola, scazzare, seno e coseno, culatello di Zibello, processo penale, pompa e sovrapompa, piselli (sgranati), bocchino per sigarette, cazzotto, la penuria, i membri della commissione, il rinculo dell'arma, la cappella Sistina. A proposito: architetta forse strappa qualche risata, ma vi consiglio di seguire RebelArchitette affinché la parola acquisti un sapore decisamente diverso.
3. “Non si può usare quel femminile perché vuol dire già un’altra cosa”
La questione della polisemia, cioè dell’avere più significati, stranamente, sembra toccare solo i femminili professionali. In tutti gli altri casi, che un termine voglia dire anche altro non pare essere un problema. E quindi non si potrebbe dire grafica perché la grafica indica anche l’insieme delle caratteristiche grafiche di qualcosa (ma anche grafico può indicare la persona che esercita questa professione, come pure lo schema appeso al muro); non si potrebbe definire una donna chimica o fisica perché indicano già la materia (ma anche fisico può riferirsi sia al mestiere sia alle caratteristiche del corpo di una persona: per fortuna, è diverso dire che Luigi è un fisico bestiale o ha un fisico bestiale); non bisognerebbe dire che Nilde Iotti era una politica perché la politica è la scienza e arte di governare uno Stato (e politico non può forse essere usato anche con il significato di aggettivo?); giammai, direttrice si confonde con la direttrice di marcia! (ma lo sapevate che direttore significa anche “dispositivo per aumentare l'efficienza di un'antenna televisiva in una particolare direzione”?). In breve, la polisemia non è un reale motivo ostativo per evitare di usare un femminile.
4. “Si è sempre fatto così”
Non è vero. I nomina agentis al femminile sono documentati sin dall’antichità classica, e ricorrono anche durante la storia della nostra lingua (per fare un esempio: Dante usa ministra) tutte le volte che – indovinate un po’? – in un determinato ruolo, o in una posizione, si trovava una donna. Così abbiamo la giudicessa Eleonora D’Arborea (oggi si dice la giudice) e l’architettrice Plautilla Bricci (oggi sarebbe architetta) per fare due esempi particolarmente famosi. Come accennato all’inizio, basta consultare i vocabolari delle lingue classiche, o i dizionari storici dell’italiano, per rendersene conto.
È interessante, quindi, il richiamo a un presunto tradizionalismo che però si ferma inspiegabilmente alle proprie scuole dell’obbligo: “Quando andavo io a scuola ingegnera non esisteva”. Non è che non esisteva: non era usato. E non era in uso non per qualche arcana ragione che ne vietava l’impiego, bensì perché non c’erano, in circolazione, ingegnere (femminile plurale). Generalmente, nominiamo ciò di cui abbiamo esperienza, per cui accade che ci siano molte parole che non usiamo perché non corrispondono a qualcosa che si può incontrare “in natura”. Poi le cose cambiano, iniziamo a incontrare donne in lavori nei quali prima non c’erano, ed ecco che quelle parole, fino a quel momento esistenti ma non in uso, improvvisamente iniziano a servire.
5. “Non uso i femminili perché vanno contro le regole dell’italiano”
È una variante dell’obiezione analizzata al punto precedente. Per l’appunto, le regole dell’italiano ci dicono che normalmente si indica con un sostantivo al femminile un essere vivente di sesso femminile. Per entrare nel dettaglio, le “regole dell’italiano” dividono i sostantivi riguardanti animali ed esseri umani in quattro classi, a seconda della relazione tra maschile e femminile di quel determinato termine. E quindi possiamo isolare:
- I nomi di GENERE FISSO: maschile e femminile sono termini completamente diversi, che non hanno radici comuni, come fratello-sorella, marito–moglie o, per gli animali, toro-vacca.
- I nomi di GENERE COMUNE: i termini sono di fatto ambigeneri, cioè, in sostanza, basta cambiare l’articolo: il/la pediatra, il/la custode, il/la cosmonauta, il/la preside, il/la docente, il/la giornalista, il/la penalista.
- I nomi di GENERE PROMISCUO: la definizione si riferisce a nomi di animali che hanno un’unica forma, come tasso o tigre, così che il genere opposto si forma aggiungendo un descrittore, come il tasso femmina o il maschio della tigre. Possiamo includere in questa categoria anche i termini riferiti a esseri umani che hanno generalmente un’unica forma grammaticamente non ambigenere, come vittima o pedone, e anche i sostantivi che sono femminili anche se riferiti tradizionalmente a soggetti maschili (la guardia, la vedetta, la sentinella, la spia). Sono tutto sommato pochi, e sono un gruppo di parole un po’ sui generis, che non minano in alcun modo il sistema nel suo complesso.
- I nomi di GENERE MOBILE: sono gli unici che si declinano in base alle regole morfologiche previste dall’italiano (ma coprono, di fatto, la maggior parte dei casi). Ne esistono di vari tipi: rettore-rettrice (e minatore-minatrice), maestro-maestra (e ministro-ministra), sarto-sarta (e avvocato-avvocata), infermiere-infermiera (e ingegnere-ingegnera). Altre coppie sono irregolari, come abate-badessa, dio-dea o eroe-eroina: per questo, in caso di dubbi, conviene verificare la forma più corretta e più usata in un dizionario sufficientemente aggiornato.
6. “Che sciocchezza! Allora da domani devo dire la lampadaria perché il lampadario si sente offeso a essere chiamato al maschile?”
No: una cosa è il genere grammaticale (che non dipende da nessuna caratteristica dell’oggetto o del concetto che un sostantivo denota: la sedia non è più femminile del tavolo), una cosa è il genere semantico, questione che si pone quando i nostri sostantivi si riferiscono a esseri viventi (animali o umani). Quindi dire la sindaca non implica dire la lampadaria, dato che il primo termine è riferito a una donna ed è coerente con il genere al quale la persona appartiene (o sembra di appartenere, o dichiara di appartenere), mentre il secondo riguarda un oggetto per il quale il genere della parola non ha nulla a che fare con le sue caratteristiche.
7. “Allora da domani dico pediatro, dato che sono un uomo”
No: rileggi quanto scritto precedentemente. Pediatra, come in generale i nomi in -ista e -iatra, i nomi derivati (in latino o italiano) da un participio presente come studente o presidente e alcuni tipi di nomi in -e, come vigile o preside, sono ambigeneri. Questo vuol dire che basta cambiare l’articolo e non serve creare un maschile inesistente, perché il termine è già anche maschile. Mischiare i nomi ambigeneri con i nomi di genere mobile è come giudicare le mele in base al comportamento delle pere.
8. “E la povera guardia cosa deve dire? Da domani devo chiamarla guardio?”
Guardia è un esempio di nome promiscuo, come i nomi di molti animali (tigre, elefante, serpente…). Solitamente, questi nomi vengono usati per indicare persone di entrambi i generi con il solo genere storicamente a disposizione della parola. Così si parla della guardia Mario Rossi come del pedone Giovanna Verdi, della star del cinema Brad Pitt o di Pinca Pallina membro della commissione xy.
Tuttavia, attenzione! Il fatto che storicamente questi sostantivi non abbiamo entrambi i generi non esclude che l’altro genere potrebbe esistere (pensiamo ai Sentinelli di Milano o al termine pedona, che si incontra online, o ancora, all’uso scherzoso di membra o genia); semplicemente, fino a questo momento non sono stati usati. Nello specifico, il motivo per cui guardia, sentinella, vedetta, maschera eccetera sono usati al femminile è di tipo storico ed etimologico, non dovuto a una scelta “cosciente” da parte di qualcuno. E il motivo per cui nessun uomo ha sentito il bisogno di farsi chiamare guardio, stello o maschero rimarca, secondo me, l’esistenza di uno squilibrio linguistico tra maschile e femminile: i maschi non sono e non si sentono generalmente sottorappresentati da un punto di vista linguistico, per cui quei pochi casi in cui vengono appellati al femminile non sono percepiti in maniera disturbante o lesiva. In ogni caso, citare un esempio di termine promiscuo come prova del fatto che sarebbe sbagliato usare sindaca non ha molto senso.
9. “Va bene tutto, ma presidenta non si può sentire”
Ti rincuoro: nessuno ha mai pensato di usare presidenta, perché presidente è un sostantivo epiceno, per cui basta cambiare l’articolo: il presidente/la presidente (meglio evitare la presidentessa, che nasce come sostantivo per indicare la moglie del presidente). Presidenta è un’invenzione giornalistica nata per prendere in giro Laura Boldrini, che aveva solo richiesto di essere chiamata signora presidente e non signor presidente.
10. “Non uso il femminile perché non esiste”
Ne hai la certezza? Prima di dichiarare che un certo femminile non esiste, ti consiglio di consultare un dizionario aggiornato (no, uno di cinquant’anni fa non è detto che vada bene: nel frattempo, la realtà è cambiata, e di conseguenza anche la lingua); se non ce l’hai, possono essere d’aiuto anche Google, Google Libri e alcuni dizionari presenti in rete. Ricorda una cosa: la registrazione dei femminili da parte dei dizionari segue consuetudini differenti. C’è chi li cita regolarmente, mettendoli a sistema (come il già citato Zingarelli), c’è chi li menziona solo se ricorrono un numero sufficiente di volte nell’uso odierno (talvolta anche come lemma a sé, se hanno una storia particolarmente rilevante, cfr. Treccani su medico e medica), c’è chi non li cita proprio, ma magari perché sono dizionari meno recenti.
Il dizionario da solo, quindi, non è dirimente per decidere l’inesistenza di una forma. Esistono, invece, fonti che elencano numerosi femminili professionali – e i modi morfologicamente corretti per formarli – che sono di libera consultazione: per esempio, la guida di Cecilia Robustelli per Giulia “Donne, grammatiche e media” e, sempre della stessa autrice, le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”.
11. “Non uso il femminile perché il ruolo è neutro”
Faccio una premessa: in italiano, il neutro non esiste. Esisteva in latino, ma in italiano no; casomai, possiamo parlare di maschile sovraesteso, che però è una cosa un po’ differente. Detto questo, ti invito a osservare una peculiarità: nessuno si pone il problema della neutralità del ruolo quando si parla di sarte, cassiere, professoresse o regine; il problema sorge – ma tu guarda che caso – quando si ha a che fare con ruoli e professioni nelle quali la presenza femminile è relativamente recente: questora, avvocata, assessora, ingegnera. Peraltro, questa motivazione è spesso addotta dalle donne stesse che ricoprono quei determinati ruoli: ho parlato con fotografe che rivendicavano il maschile, fotografo, con avvocate che richiedevano di essere chiamate avvocato, con ingegnere convinte: “Io sono un ingegnere”. Sono abbastanza sicura, però, che quelle stesse donne usano tutti i femminili a cui sono abituate senza alcuna remora (sarta, dottoressa, cassiera, operaia, donna delle pulizie, regina).
E allora, pur essendoci pareri apparentemente anche titolati che si battono per l’uso del maschile, rimango dell’idea che una presunta regola linguistica che vale solo per alcuni casi specifici abbia qualcosa di strano. Del resto, posso continuare a parlare di “ruolo di rettore” o dei “compiti di chi siede sulla poltrona da ministro” e poi rivolgermi alla rettrice xy o alla ministra yx senza che ci sia alcuna incompatibilità tra le due cose.
12. “Non uso il femminile perché è svilente”
Brutta storia, questa. Nel senso che è vero: a oggi, alcuni femminili sono percepiti come svilenti rispetto al maschile (per esempio maestra, segretaria, direttrice). Tuttavia, dizionario (sempre lui!) alla mano, si può verificare che in realtà i repertori lessicografici non rilevano differenze di significato tra il maschile e il femminile di questi (e di altri) termini. In altre parole: il senso “meno alto” con cui usiamo questi femminili non è legato al significato della parola, bensì alla sua connotazione, ossia a una sorta di aggiunta di significato che vi percepiamo noi in quanto parlanti della nostra lingua.
Siamo abituati ad accostare a segretaria il significato di “donna che scrive al computer le lettere del capo”, a maestra quello di “insegnante alla scuola dell’infanzia o primaria”, a direttrice quello di “persona che dirige un collegio”. Ma se ci abituiamo a usare segretaria di Stato, maestra d’orchestra o direttrice di un quotidiano, queste parole finiranno per cambiare connotazione: non le sentiremo più in alcun modo come svilenti (posto che non c’è nulla di svilente nemmeno nel lavorare come segretaria d’azienda, maestra d’asilo o direttrice di un convitto). Ci vuole del tempo, ma tanto vale iniziare.
13. “Che confusione, ci devono essere delle regole chiare!”
Le “regole” ci sono, e sono anche abbastanza chiare. Certo, essendo regole linguistiche, non sono apodittiche, cioè sono piene di eccezioni; tuttavia, dizionario alla mano, non è affatto difficile destreggiarsi tra esse. Basta avere l’attitudine giusta.
14. “Io ho deciso di dire se sono una ministro”
Aspetta un attimo: la lingua segue delle regole, per quanto elastiche, non è che possiamo fare completamente di testa nostra. Qui mi rivolgo a coloro che si definiscono “un’avvocato, ma con l’apostrofo perché sono femmina”, o che dicono “la ministro” o “la sindaco” o “un’ingegnere” o “la direttora” o “la rettora” o “la professora” perché “direttrice, rettrice e professoressa sono sputtanati”. Visto che una norma, nella nostra lingua, esiste, perché non seguirla? È molto meglio che non perderci in mille rivoli alternativi.
Quindi, ministro si comporta come maestro, sindaco come sarto, ingegnere come infermiere, direttore e rettore come attore e scrittore; professore, dottore e alcuni altri sostantivi invece sono ormai entrati nell’uso con il femminile in -essa, professoressa e dottoressa, e il buon senso linguistico (o meglio, l’economia linguistica) consiglia di non modificare ciò che è già stabilmente nell’uso, perché è uno spreco di energie. Aggiungo questo perché per i femminili non ancora stabilizzati si consiglia di usare il femminile con suffisso zero invece che con suffisso -essa, dato che quest’ultimo nasce principalmente per indicare le “mogli di”, oppure veniva usato con senso dispregiativo. Quindi: avvocata meglio di avvocatessa, sindaca meglio di sindachessa, la presidente meglio di la presidentessa. E studentessa? C’è chi dice la studente: si può fare.
15. “Tutte boldrinate”
Lascia stare Laura Boldrini: lei si è sicuramente esposta moltissimo sul tema dei femminili professionali, ma le discussioni sulla questione sono ben precedenti a lei. Un documento molto importante, che in un certo senso marca l’inizio di una maggiore attenzione nei confronti di un uso non sessista dell’italiano, è Il sessismo nella lingua italiana (1987), di Alma Sabatini (con la prefazione di Francesco Sabatini, il linguista più amato della televisione italiana!); una lettura consigliatissima (anche per vedere a che punto siamo, dopo più di trent’anni).
16. “Ma basta! Facciamo come l’inglese che non distingue tra maschile e femminile!”
Il fatto è che l’inglese è una lingua strutturalmente differente dall’italiano: la nostra è gendered, cioè ha il genere grammaticale; l’inglese invece è una lingua con il cosiddetto natural gender: i sostantivi sono privi di genere, mentre i pronomi sono “genderizzati” (he/she e it, che però non si usa per le persone). Per questo motivo, nel tentare di usare la lingua in maniera non discriminatoria, gli anglofoni vanno nella direzione di scegliere sostantivi neutri (actor invece di actor/actress, perché actor è semanticamente neutro, non maschile; spokesperson invece di spokesman o spokeswoman): è una strada che l’italiano, per come è fatto, non può prendere, dato che, come già detto, non abbiamo il genere neutro e tutte le parole hanno per forza genere o maschile o femminile. Comunque, le sue grane le ha anche l’inglese: non a caso, è stato introdotto l’uso del pronome neutro singolare they per riferirsi a una persona dal genere indistinto.
Se ti interessa il modo nel quale le varie lingue dell’Europa affrontano la questione di genere, leggi questo documento del Parlamento Europeo. Lo stesso documento ti mostra anche un’altra cosa: che le questioni di genere non sono uno sghiribizzo dell’“Italietta”, ma che sono discusse in ogni paese (e in ogni lingua) che cerca(no) di andare nella direzione di una società più equa. A proposito: la cancelliera Angela Merkel è chiamata così, non cancelliere, anche da noi (in patria è Bundeskanzlerin). Ma tu guarda questi tedeschi.
17. “Sono solo parole”
Le parole non sono mai solo parole: sono ganci verso mondi di significati, e al contempo le parole che usiamo ci definiscono agli occhi degli altri. L’uso di un termine rispetto a un altro è collegato a fattori sociali, culturali, ambientali. Ma soprattutto, poiché noi esseri umani usiamo le parole per capire la realtà, per concettualizzarla e poterne quindi parlare, ciò che viene nominato si vede meglio, acquisisce maggiore consistenza ai nostri occhi. In altre parole, nominare le donne che lavorano in professioni prima quasi esclusivamente maschili, o che conquistano posizioni apicali che precedentemente erano loro de facto precluse, può contribuire a normalizzare, agli occhi (e alla mentalità) delle persone, la loro presenza.
18. “Se pensate che bastino le parole…”
Non credo davvero che tra le persone che usano i femminili professionali sia diffusa l’idea che bastino le parole per risolvere le disparità tra maschi e femmine. Semplicemente, sono istanze che viaggiano tranquillamente in parallelo, anzi, intrecciate, senza che una tolga forza in alcun modo all’altra. Pensare che qualcuno ritenga sufficiente cambiare il lessico è un caso di argomento fantoccio: si costruisce un’argomentazione farlocca, inutilmente polarizzata, irricevibile, in modo da demolirla con maggiore facilità.
19. “I problemi delle donne sono ben altri”
Meglio evitare di cadere nella trappola del benaltrismo: si dà inizio a una catena di obiezioni che teoricamente potrebbe andare avanti all’infinito. Qual è, infatti, il problema sommo, quello di cui tutte e tutti dovremmo occuparci senza un minimo di distrazione? Un problema del genere non esiste: esistono tante questioni differenti, alcune più interessanti per alcuni, altre per altri, e possiamo felicemente convivere a questo mondo occupandoci di questioni diverse senza darci fastidio. Io, quando qualcuno mi fa notare che i problemi delle donne sono ben altri, rispondo chiarendo che lo so, che io stessa mi occupo di molte altre faccende accanto a quella dei femminili professionali, e di solito chiedo cosa stia invece facendo per la “causa femminile” la persona che ha sollevato la questione. Spesso succede che non mi arrivi alcuna risposta: non è affatto detto che i benaltristi più accesi siano impegnati su qualche fronte… però hanno la pretesa di spiegare agli altri di cosa si dovrebbero occupare.
In più, attenzione a non compiere un errore piuttosto comune: parametrare la realtà alla propria esperienza. Sia che tu lo dica da maschio (e allora è in agguato il rischio di minchiarimento), sia che tu lo dica da femmina, ricordati che la tua esperienza personale non riassume il mondo intero. Se ci sono tante persone che rivendicano l’uso del femminile, anche se a te sembra superfluo, forse potresti provare ad ascoltare le loro esperienze, che magari non coincidono con le tue. Come ricorda sempre il linguista Federico Faloppa, è importante prestare ascolto alle vittime, nel senso più ampio del termine, anche quando ai nostri occhi non sembrano nemmeno tali: esistono microaggressioni che dall’esterno sono difficili da vedere, ma che lasciano un segno nelle persone, soprattutto se sono reiterate nel tempo.
20. “Uffa! Queste femministe rompiballe…” e “Non li uso perché non voglio essere bollata come femminista”
Se è indubbiamente vero che nell’ultimo trentennio l’istanza dei femminili di professione è stata portata avanti dalle sinistre e da parte dei femminismi (ché mica ce n’è uno solo), proprio uno sguardo alla storia insegna che i nomina agentis al femminile sono stati usati da molto prima che esistesse il concetto stesso di femminismo. In altre parole, secondo me non occorre essere femministi e femministe per usare i nomi di agente al femminile (certo, esserlo aiuta). En passant, non occorre nemmeno essere di sesso femminile per essere femministi: consiglio di seguire Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, per averne certezza.
21. “Chiamare le donne al femminile non è necessario”
Il fatto che se ne discuta così tanto, così diffusamente e con toni così esacerbati per me indica che per qualcuno è una questione rilevante, che qualcuno invece lo ritiene necessario. Come ripeto spesso, la parte più interessante della querelle linguistica è nelle reazioni che ogni notizia o post sull’argomento desta. Ci sono persone che cercano in tutti i modi di convincere gli altri che i femminili professionali sono inutili. Io penso che siano non tanto necessari, quanto piuttosto naturali. Se diciamo infermiera, perché non dovremmo dire ingegnera? Ma soprattutto, chi sei tu per decidere che “non è necessario”?
22. “E basta con questo politicamente corretto!”
A parte che il politicamente corretto probabilmente non è quello che pensi, come può essere definito “politicamente corretto” il nominare la realtà in maniera più precisa? Di per sé, il politicamente corretto propone di trovare dei termini non connotati negativamente per indicare determinate persone (per fare degli esempi, non chiamare invertito un omosessuale o negro una persona africana o afrodiscendente).
Chiamare al maschile una donna non è politicamente scorretto: è a mio avviso semanticamente fuorviante, innecessario, contrario al normale funzionamento della nostra lingua; di conseguenza, non considero un esempio di politicamente corretto appellare una donna al femminile; piuttosto, mi pare semplice conseguenza della realtà.
23. “Ma se volete la parità, perché sottolineare la differenza?”
Penso che si possa ricercare tranquillamente la parità nella differenza: mica ci dobbiamo omologare. Fabrizio Acanfora parla di “convivenza delle differenze” se non addirittura “delle unicità”, ed è un concetto che mi piace molto, perché implica che le differenze non vadano annullate. E poi, a me non sembra che si sottolinei una differenza, ma che in tantissimi casi usiamo i femminili con assoluta naturalezza e senza considerarli una sottolineatura, per poi rifiutarci in casi specifici (la giudice, l’amministratrice delegata, la segretaria generale). E se fosse solo o soprattutto questione di abitudine?
24. “Certo che ne avete di tempo da perdere…”
Un commento che mi fa sempre sorridere. Se io sto perdendo tempo con un’istanza che tu ritieni inutile, pensa al tempo che stai perdendo tu a commentare una cosa che ritieni di nessuna rilevanza. Io, quando vedo che si discute di un argomento che non mi interessa, passo oltre: ho ben di meglio da fare!
A conclusione di questa lunghissima casistica di obiezioni, un consiglio finale: nessuno impone cambiamenti coatti, anche perché le lingue sono capaci, sul lungo periodo, di regolarsi benissimo “da sole”. Il lavoro che vorrei fare (assieme a molte altre persone più titolate di me) è di togliere di mezzo pregiudizi, preconcetti, false credenze. Dopodiché, ogni persona è libera di agire come meglio crede, auspicabilmente nel rispetto delle opinioni divergenti. L’importante è farlo senza accampare motivazioni scientificamente scorrette: a volte è meglio un onesto “non mi piace/mi fa fatica/non mi interessa” che non una supercazzola facilmente smontabile tramite grammatiche e vocabolari.
Per quanto mi riguarda, io ormai uso i femminili di default; ma se la donna alla quale mi rivolgo mi chiede di essere appellata in un altro modo, mi adeguo alle sue richieste. Casomai, se ho l’occasione di tornarci sopra, le chiedo il perché della sua scelta.
Ricordiamoci che non si tratta di una guerra, né di una battaglia, ma di una normale evoluzione linguistica dovuta ai cambiamenti in corso nella nostra società e cultura.
Immagine in anteprima di Venita Oberholster via Pixabay