Perché in Italia è così difficile accedere alla procreazione assistita
|
Fra le procedure mediche che più hanno risentito delle limitazioni imposte dalla pandemia c'è la procreazione medicalmente assistita (PMA). Mentre gli ospedali si trovavano costretti a concentrare tutte le proprie risorse sul contenimento dell'emergenza sanitaria, infatti, molte strutture specializzate e centri medici privati sono stati temporaneamente chiusi o hanno dovuto ridurre gli afflussi, rimandando a data da destinarsi migliaia di esami e visite mediche considerate non urgenti. Si stima che, a causa di queste difficoltà, le bambine e i bambini nati nel 2021 grazie alla PMA siano circa 4.700 in meno rispetto al 2019 e il numero di procedure sia calato, nel complesso, del 20% rispetto agli anni precedenti, quando i cicli effettuati erano circa 100mila all'anno. Il dato è preoccupante, ma lo era anche prima, quando a rimanere escluse dalla PMA per questioni economiche o organizzative era quasi la metà delle coppie che ne facevano richiesta – senza contare le persone che, non potendo accedervi per legge, si rivolgevano direttamente all'estero.
La PMA consiste in un insieme di tecniche utilizzate per aiutare il concepimento nei casi in cui questo non avvenga, per varie ragioni, in modo spontaneo, e laddove terapie di altra natura (farmacologiche o chirurgiche) si siano rivelate inefficaci. A seconda della complessità e dell'invasività degli interventi si parla di tecniche di I, II o III livello: nel primo caso l'incontro fra i gameti avviene all'interno della cavità uterina (in vivo), negli ultimi due in una provetta (in vitro). Le tecniche di III livello prevedono, in più, il prelievo chirurgico degli spermatozoi; una volta avvenuta la fecondazione, tuttavia, anche in questo caso (al pari delle tecniche di II livello) l'embrione viene poi collocato all'interno del corpo della donna che si è sottoposta alla procedura, dove avrà inizio la gestazione.
In Italia il dibattito sulle “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, introdotte con la Legge 40 del 2004, rappresenta da sempre un tasto dolente. Fortemente criticata da buona parte del mondo medico e giuridico, in quanto lesiva del diritto alla salute e del principio di uguaglianza, negli anni la Legge 40 è divenuta oggetto di provvedimenti che ne hanno completamente stravolto la versione originale. Nonostante decine di sentenze – compresa, nel 2012, quella della Corte europea dei diritti umani – abbiano più volte confermato l'incostituzionalità di buona parte delle norme, oggi la PMA continua a essere regolata dallo stesso documento, la cui versione attuale rimane fortemente anacronistica – quando non discriminatoria.
Nella sua prima formulazione, la Legge 40 prevedeva il divieto di produrre più di tre embrioni per ogni ciclo di PMA e l'obbligo di impiantare contemporaneamente tutti gli embrioni prodotti. Si vietava quindi la possibilità di congelarli e utilizzarli in un momento successivo (nel caso in cui la prima procedura non fosse andata a buon fine), aumentando, allo stesso tempo, la probabilità di incorrere in parti prematuri o gravidanze plurigemellari, con il conseguente aumento dei rischi per la madre e per i feti. Sugli embrioni non era possibile, inoltre, effettuare alcuno screening genetico, nemmeno nel caso in cui i genitori fossero portatori di patologie genetiche gravi: un principio, questo, in netto contrasto non solo con il buon senso, ma anche con la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza che, almeno in teoria, consente l'aborto terapeutico anche oltre la dodicesima settimana di gestazione, nel caso in cui le condizioni del feto rischino di pregiudicare la salute della donna. Vietata era, infine, anche la fecondazione eterologa – un insieme di tecniche che, a differenza delle procedure cosiddette “omologhe”, prevedono l'utilizzo di uno o entrambi i gameti provenienti da donatori esterni.
Se negli ultimi decenni queste limitazioni sono state – non senza fatica – progressivamente eliminate, altre resistono ancora oggi al veto della Corte Costituzionale. Gli embrioni prodotti tramite PMA ma non adatti alla gravidanza, infatti, continuano a non poter essere utilizzati a fini di ricerca scientifica e, soprattutto, la sentenza che nel 2014 ha reso legittima la fecondazione eterologa ne limitava l'accesso alle coppie eterosessuali, sposate o conviventi e con diagnosi di infertilità, escludendo quindi donne single e coppie omosessuali. Nonostante sia ormai noto che l'orientamento sessuale di una persona non pregiudica in alcun modo la sua idoneità a diventare genitore, l'impossibilità di accedere alla PMA (ma anche di adottare figli) rimane uno degli aspetti che più differenziano le unioni civili dal matrimonio egualitario, soprattutto a causa delle resistenze culturali che, secondo il Raimbow Index 2022 di ILGA-Europe (la principale ONG internazionale impegnata nella tutela delle minoranze sessuali) contribuiscono a rendere il nostro paese trentatreesimo in Europa per rispetto dei diritti della comunità LGBTQ+, non distante da Polonia, Russia e Turchia.
Nonostante l'esclusione di una parte delle persone potenzialmente interessate alla fecondazione eterologa, a partire dal 2014 le richieste per accedere alla PMA sono inevitabilmente aumentate. La crescita della domanda, però, presto si è scontrata con le difficoltà nel reperire i gameti necessari per poter avviare la pratica, tanto che, in circa il 90% dei casi (pag. 115 del documento), anche i trattamenti effettuati in Italia necessitano di spermatozoi o ovociti provenienti dall'estero – soprattutto Danimarca per i gameti maschili, Spagna e Repubblica Ceca per quelli femminili.
Come afferma la dottoressa Laura Rienzi, presidente della Società Embriologia, Riproduzione e Ricerca (Sierr), nel nostro paese buona parte della popolazione non possiede nemmeno le conoscenze base sulle varie tecniche di PMA e sulla possibilità di donare o conservare i propri gameti, a causa della totale mancanza di sensibilizzazione e campagne informative: “In Italia manca completamente la cultura della donazione, perché nessuno ha mai chiesto ai giovani di donare il proprio seme o ovocita. Prima di tutto bisogna lavorare su questo”, spiega Rienzi. Ma non è tutto: la Legge 40, infatti, vieta non solo la donazione di ovociti o spermatozoi a scopo di lucro, ma anche qualsiasi forma di risarcimento per le spese di viaggio o l'eventuale assenza dei donatori e delle donatrici dal luogo di lavoro – rimborsi che, al contrario, ammontano a circa 700 euro in Grecia, 900 in Spagna e 1000 in Inghilterra. Ciò contribuisce a rendere le procedure di donazione dei gameti non solo sconosciute, ma anche economicamente svantaggiose.
I costi della PMA non gravano però solo sulle spalle di chi dona i gameti, ma soprattutto su chi li dovrebbe ricevere. Sebbene la PMA rientri fra le procedure mediche garantite dai Livelli essenziali di assistenza, infatti, i costi variabili a seconda della regione, l'assenza di banche del seme e di strutture specializzate in molte zone d'Italia (soprattutto al Sud) e i tempi d'attesa infiniti spesso costringono le coppie a rivolgersi a centri privati, dove la spesa complessiva per una PMA omologa (la più economica) può superare i 10mila euro. Le coppie con disponibilità economiche più limitate si trovano quindi spesso costrette, soprattutto nel caso di fecondazione eterologa, a rinunciare ad avere figli o a recarsi all'estero – soprattutto in Spagna, principale meta europea nell'ambito del cosiddetto “turismo riproduttivo” grazie al maggior numero di donatori e donatrici (e, quindi, maggior disponibilità di gameti nelle banche del seme), alla qualità delle cure e ai costi più accessibili. Un viaggio che comporta, d'altra parte, spese supplementari che sarebbero evitabili, se solo l'Italia comprendesse che la possibilità di avere figli non può ridursi, anche in questo caso, a una questione di classe.
Le limitazioni imposte dalla Legge 40 e la scarsità di finanziamenti destinati alla PMA rappresentano l'ennesima dimostrazione dell'atteggiamento ambivalente dello Stato nei confronti della natalità. Ci si lamenta del calo demografico come se avere figli dipendesse esclusivamente dal desiderio personale (soprattutto femminile) e non avesse nulla a che fare con la difficoltà nel conciliare famiglia e carriera, gli stipendi sempre più bassi e la precarietà economica ed esistenziale che le giovani coppie si trovano a vivere, ma nemmeno con il fatto che, talvolta, ampliare la propria famiglia senza l'aiuto della tecnologia semplicemente non rappresenta un'opzione.
Da non sottovalutare è, infine, l'investimento emotivo richiesto alle coppie che si sottopongono alla fecondazione assistita. La PMA è un percorso lungo, snervante, spesso ricco di tentativi andati a vuoto, fisicamente e psicologicamente impegnativo anche al di là delle difficoltà logistiche o economiche che le procedure comportano. Costringere le persone ad attendere mesi per una prima visita – da sommare, nel caso delle coppie eterosessuali, agli anni necessari per ottenere una diagnosi di infertilità – viaggiare o indebitarsi per poter avere figli non fa altro che aggiungere al percorso ulteriore stress, a sua volta controproducente per la salute del feto.
“Dobbiamo intraprendere un processo di normalizzazione della PMA che passi attraverso una risposta adeguata, da parte della medicina e delle istituzioni, al desiderio di diventare genitori”, afferma Antonino Guglielmino, presidente della Società italiana di riproduzione umana (Siru). Provvedimenti legislativi, economici e organizzativi specifici, da accompagnare però a una vera e propria svolta culturale. Se da un lato l'infertilità continua a essere vissuta come uno stigma, infatti, nel caso delle coppie lesbiche al problema della procreazione si aggiunge quello dei diritti dei bambini e delle bambine, che per la legge italiana sono figli e figlie solo della madre biologica. Mentre lo Stato si occupa di aggiornare e applicare la legge, è necessario che l'intero paese rivaluti in senso estensivo la propria concezione di famiglia.
Immagine in anteprima: Ulss 6 Euganea via Facebook