Il Pride ai tempi del generale Vannacci
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Siamo da qualche giorno nel mese del Pride Month, che celebra le marce dell’orgoglio LGBTQIA+ in Italia e nel mondo. Come ogni anno, a giugno, l’arrivo di questo tipo di manifestazione porta a una serie di critiche. Il pride infatti viene visto da parte di alcuni settori della società non solo come una “inutile carnevalata” o una provocazione fine a se stessa, ma anche come qualcosa di sostanzialmente inutile, dato che ormai nella stragrande maggioranza dei paesi di vecchia e nuova democrazia abbiamo leggi di tutela (dai matrimoni ai provvedimenti contro i crimini d’odio), dalle più efficaci alle più blande (come nel caso delle unioni civili, in Italia).
La domanda che spesso militanti, allies e simpatizzanti si sentono fare è la seguente: che senso ha fare, ancora oggi, il pride? Non sarebbe preferibile concentrare forze ed energie per azioni politiche più efficaci e meno provocatorie? Per rispondere a questi interrogativi, occorre fare una serie di passi indietro.
In questi giorni varie testate hanno pubblicato nelle proprie pagine on line e sui social network alcuni articoli a tematica LGBTQIA+. Il Corriere della Sera, nello specifico, ha dato notizia di quanto accaduto recentemente al concerto di Adele. In tale occasione, la cantante ha aspramente ripreso uno spettatore, durante un suo concerto, che aveva pronunciato parole offensive contro i pride. La reazione dell’utenza di Facebook è stata molto varia, tra chi sosteneva la reazione dell’artista e chi invece la condannava. Impressionante è stata la mole di commenti negativi, nonché le reaction di derisione alla notizia stessa.
Sui diversi articoli condivisi dalle altre testate la situazione è molto simile. La dinamica è semplice: un organo di stampa pubblica un articolo che ha come argomento i pride o altro tema inerente alla comunità arcobaleno e nel giro di poco tempo arrivano le “faccine che ridono” – con chiaro intento denigratorio – e commenti che potremmo definire “standard” in casi come questi. Sintetizzando: accanto a chi sostiene i diritti LGBTQIA+, c’è anche chi dà supporto a posizioni omofobiche, chi sostiene che è in pericolo la libertà di pensiero, chi ritiene che ci siano questioni più urgenti da affrontare e chi infine insulta (più o meno velatamente) sia le marce dell’orgoglio sia le persone queer.
Episodi come questo sono indicativi di un clima, per certi versi non nuovo, che si respira nel nostro paese da quando c’è l’estrema destra al potere. Sia chiaro, le idee di queste persone non sono nate a settembre del 2022, ma covavano molto probabilmente in uno stato di latenza che poi ha avuto termine con la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche. Tale veemenza nei confronti di un’intera comunità, accompagnata da una sempre più visibile intolleranza nei confronti dei pride e delle richieste di diritti civili, trova conforto e legittimità in modo più o meno indiretto in alcune dichiarazioni di quei big della politica (casualmente sempre a destra, ma con qualche esempio anche nella parte opposta) contro la questione arcobaleno.
Già nel corso degli anni le precedenti posizioni dei maggiori leader della maggioranza nei confronti di persone LGBTQIA+ e famiglie arcobaleno hanno costituito un humus molto fertile per l’insorgenza e il rafforzamento di sentimenti d’odio e di negatività. Ricordiamo tutti il clima che si è respirato in questo paese contro il ddl Zan. A cui si sono accompagnati gli attacchi alle famiglie arcobaleno, le polemiche sul “gender”, le proposte di legge contro la GPA, le battaglie contro l’inesistente “genitore 1 e genitore 2”, da parte dell’allora ministro Salvini sulla carta di identità dei figli di gay e lesbiche (le cui circolari sono poi state sconfessate in Corte d’Appello), gli attacchi alla comunità transgender e alla carriera alias… l’elenco è davvero lungo. E le dichiarazioni e le azioni concrete di una certa area politica non sono certo mutate di segno nell’ultimo biennio.
Chiude il quadro, di certo poco rassicurante, l’apparizione di personaggi politici quanto meno discutibili e che sono diventati candidati di punta di partiti di governo e d’opposizione. Come l’ormai famigerato generale Vannacci che ha occupato quasi quotidianamente giornali e tg con le sue dichiarazioni sul tema ed è stato eletto al Parlamento Europeo con mezzo milione di voti, o Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire (candidato da parte del PD di Elly Schlein), le cui affermazioni in campagna elettorale sono passate in sordina e già dai tempi delle unioni civili fino al ddl Zan non sono mai state di grandissima apertura nei confronti dei diritti LGBTQIA+. Anche Marco Tarquinio è stato eletto nella circoscrizione centro Italia.
Non stupisce, in tal contesto, la notizia che l’Italia nel 2023 sia rovinosamente scivolata ancora più in basso, al 36° posto nel consesso dei paesi europei, tra quelli meno friendly, perdendo due posizioni rispetto all’anno precedente. Un’Italia a guida sovranista e “conservatrice” che si fa superare a sinistra – per quanto riguarda i temi LGBTQIA+, almeno – persino dall’Ungheria di Orban. Un quadro cupo, per quanto riguarda lo stato di salute della nostra democrazia.
Di fronte a tale situazione ritorniamo alla questione di partenza: perché fare i pride ancora oggi, nel 2024, nel ricco seppur decadente occidente, laddove sembra che appartenere a certe minoranze non sia più un effettivo problema? Va da sé che la domanda diventa, a questo punto, retorica. Sarà opportuno, tuttavia, offrire alcune risposte.
Innanzi tutto, bisognerebbe partire da un assunto: anche se fosse garantito ogni diritto e anche se fossimo in un contesto in cui non dovessero più esistere crimini d’odio, il pride avrebbe comunque una sua legittimità come momento evocativo. Si celebrano infatti i moti di Stonewall, la rivolta che a fine giugno del 1969 cambiò la narrazione e l’azione politica delle persone LGBTQIA+ negli Stati Uniti e, a cascata, nel resto del mondo libero. Le manifestazioni politiche sono e restano, infatti, momenti di democrazia per la società in cui si svolgono. Così come celebriamo il 25 aprile, il 2 giugno e altre ricorrenze. E ancor di più, in un momento storico in cui diritti e assetti democratici sono sotto assedio da parte delle forze populiste e sovraniste al governo, poter scendere in piazza oltre che un diritto è qualcosa di doveroso.
Nel caso italiano, nello specifico, resta l’urgenza di sensibilizzare larghi settori della società sui diritti che ancora mancano alla comunità queer italiana. Le unioni civili sono un istituto ampiamente superato: l’ultima nazione che, in ordine temporale, ha approvato il matrimonio – pur avendo quel tipo di istituto giuridico – è la Grecia. Ma il matrimonio egualitario non è l’unica rivendicazione del movimento arcobaleno. Leggi contro i crimini d’odio, la tutela dell’omogenitorialità, il diritto all’adozione, le tutele per le persone transgender, i percorsi contro il bullismo nelle scuole sono solo alcuni temi dello spettro rivendicativo delle marce dell’orgoglio.
La rivendicazione politica, tuttavia, non può essere efficace se non è supportata da un elemento fondamentale, per qualsiasi minoranza: la visibilità. Potremmo definire i pride come vero e proprio coming out collettivo, in cui una parte della società civile rivela alla maggioranza di esistere. Ed è questo il piano più critico, che tocca corde profonde negli animi di chi si dice ostile a questo tipo di manifestazioni. Esso infrange la pretesa, da parte della massa normalizzata, per cui le soggettività queer debbano vivere nell’invisibilità: sociale e politica. Non a caso l’accusa più comune, quando si criticano le marce dell’orgoglio, è quella dell’esibizionismo. O, in alternativa, dell’ostentazione.
Come ampiamente trattato in un articolo scientifico dalle ricercatrici Margherita Graglia e da Valeria Quaglia, si rientra nella casistica della “pressione sociale all’invisibilità”. Si percepisce cioè l’orientamento omosessuale come dimensione esclusivamente privata: per cui la reazione comune di fronte ai processi di disvelamento, vissuti in qualità di vera e propria infrazione sociale, è quella del biasimo e della reazione. D’altronde, non conoscere l’oggetto dello stigma – spiegano ancora le studiose – permette a discriminazioni e stereotipi di rimanere inalterati. Ciò si spiega col fatto che il vasto e complesso spettro dell’omosessualità – e più in generale delle identità “non convenzionali” – viene ridotto alla mera dimensione sessuale. In un contesto, come quello italiano, per cui la sessualità resta un tabù. Tale impostazione di pensiero, ancora, elimina e “ignora la dimensione affettiva e relazionale dell’identità sessuale, mentre fissa lo sguardo su quella comportamentale e corporea, che nella nostra società è prescritta […] al retroscena silenzioso nella vita privata”.
Il pride – che è sì festa, è sì “carnevale” (che ci sarà poi di così sbagliato nel voler manifestare in modo gioioso?), ma che è anche una grande protesta politica – viola e ribalta esattamente questo tipo di prescrizione sociale. Con una differenza, se ci soffermiamo un attimo sulla critica al suo aspetto carnascialesco: la comunità queer non scende in piazza con la maschera che la norma sociale pretende di imporre, ma la toglie. Se vogliamo, è l’esatto opposto della dinamica del camuffamento della propria identità. E ciò, per le ragioni che abbiamo visto, dà molto fastidio, soprattutto a quei settori sociali più conservatori e retrivi e a quelle forze politiche che si propongono di rappresentarli.
Per tutte queste ragioni, i pride sono necessari qualora non urgenti. Perché sono un esercizio di democrazia, critica e nonviolenta. Perché hanno rinnovato e continuano a rinnovare il linguaggio politico: il diritto alla gioia e la liberazione dei corpi sono il cuore ideologico della manifestazione stessa, che possiamo tradurre col termine di autodeterminazione. Perché permettono di (ri)conoscere la comunità queer e l’insieme delle sue rivendicazioni politiche, economiche e sociali. Perché in un mondo sempre più individualistico, in cui si operano continue separazioni tra la propria sfera privata e l’alterità, vissuta come errore di sistema, si offre una nuova narrazione basata su un termine potentissimo: “noi”. Che richiama a un sentimento di comunità e uguaglianza. Nel suo senso più ampio possibile.
Immagine in anteprima via pccetf.org