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Povertà, lavoro e nuove disuguaglianze: l’impatto devastante della pandemia

14 Dicembre 2021 12 min lettura

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Povertà, lavoro e nuove disuguaglianze: l’impatto devastante della pandemia

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Sono passati quasi due anni da quando l’11 marzo 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha classificato la diffusione del nuovo coronavirus Sars-CoV-2 nel mondo come una pandemia. In questo periodo, tra le conseguenze più negative e più impattanti che la COVID-19 ha prodotto c’è la recrudescenza delle disuguaglianze economiche e sociali. 

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Lo scorso anno su Valigia Blu avevamo riportato l’avvertimento congiunto del vertice straordinario dei Ministri dell’Agricoltura del G20, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e dell’Agricoltura (FAO), del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD), della Banca Mondiale e del Programma Alimentare Mondiale (WFP) su come la pandemia ponesse sfide senza precedenti con profonde conseguenze sociali e economiche, tra cui la compromissione della sicurezza alimentare e della nutrizione. 

A luglio è stato pubblicato il Sustainable development Goals report 2021 delle Nazioni Unite – dove viene tracciato lo stato di attuazione dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile – in cui si documenta come la COVID-19 abbia rallentato i progressi, già in ritardo, per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (come la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico). «La pandemia ha fermato, o invertito, anni o addirittura decenni di progressi nello sviluppo», ha dichiarato in occasione della presentazione del rapporto, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite Liu Zhenmin. Secondo quanto riporta il report dell'ONU, “nel 2020 tra 119 e 124 milioni di persone sono finite in condizioni di povertà estrema. Il tasso di individui sotto la soglia di povertà estrema è cresciuto, passando dall’8,4% nel 2019 al 9,5% nel 2020: non si registrava un aumento dal 1998. Nel mondo sono andati persi circa 255 milioni di posti di lavoro a tempo pieno”. La crisi, si legge ancora, ha acuito le diseguaglianze tra e all’interno dei paesi. 

In Italia, come descritto recentemente durante un’audizione in Parlamento dal presidente dell’Istituto nazionale di statistica italiano (Istat), Giancarlo Blangiardo, “gli effetti negativi della recessione causata dalla pandemia sulle disuguaglianze” si sono sommati “alle criticità e ai ritardi già esistenti nel nostro paese e alle difficoltà del sistema di welfare”. In base agli ultimi dati diffusi dall’Istat (pubblicati lo scorso giugno), nel 2020 l’incidenza della povertà assoluta in Italia è risultata “in forte crescita, registrando un incremento a livello sia familiare sia individuale”: sono state registrate oltre 2 milioni di famiglie in povertà, con un’incidenza passata dal 6,4% del 2019 al 7,7%, e oltre 5,6 milioni di individui, in crescita dal 7,7% al 9,4%. “Dopo il miglioramento del 2019 – spiega l’Istat –, nell’anno della pandemia la povertà assoluta aumenta raggiungendo il livello più elevato dal 2005 (inizio delle serie storiche)”. 

A livello geografico, nello stesso periodo di tempo, “l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (passando da 8,6% a 9,4%,), ma la crescita più ampia si registra nel Nord dove la povertà familiare sale al 7,6% dal 5,8% del 2019. Tale dinamica fa sì che, se nel 2019 le famiglie povere del nostro Paese erano distribuite quasi in egual misura al Nord (43,4%) e nel Mezzogiorno (42,2%), nel 2020 arrivano al 47% al Nord contro il 38,6% del Mezzogiorno”. Anche per quanto riguarda gli individui è il Nord Italia “a registrare il peggioramento più marcato, con l’incidenza di povertà assoluta che passa dal 6,8% al 9,3%. Sono così oltre 2 milioni 500mila i poveri assoluti residenti nelle regioni del Nord (45,6% del totale) contro i 2 milioni e 259 mila nel Mezzogiorno (40,3% del totale)”. 

Ad avere un’incidenza di povertà assoluta più elevata sono le famiglie con un maggior numero di componenti. La situazione diventa ancora più critica se i figli conviventi, soprattutto se minori, sono più di uno e tra le famiglie con un solo genitore. In generale, specifica l’ente di statistica nazionale, “la povertà familiare presenta un andamento decrescente all’aumentare dell’età della persona di riferimento; generalmente, infatti, le famiglie di giovani hanno minori capacità di spesa poiché dispongono di redditi mediamente più bassi e hanno minori risparmi accumulati nel corso della vita o beni ereditati”. 

Riguardo all’età, “l’incidenza di povertà assoluta raggiunge l’11,3% (oltre 1 milione e 127mila individui) fra i giovani (18-34 anni); rimane su un livello elevato, al 9,2%, anche per la classe di età 35-64 anni (oltre 2 milioni e 394 mila persone)”, mentre “si mantiene su valori inferiori alla media nazionale per gli over 65 (5,4%)”. Sempre nel 2020, la povertà assoluta in Italia ha colpito 1 milione e 337mila minori (13,5%, rispetto al 9,4% dell’anno precedente). Inoltre, si è registrata un’elevata povertà assoluta tra gli stranieri: “Gli individui stranieri in povertà assoluta sono oltre un milione e 500mila, con una incidenza pari al 29,3%, contro il 7,5% dei cittadini italiani. Le famiglie in povertà assoluta sono nel 71,7% dei casi famiglie di soli italiani (oltre 1 milione e 400mila) e per il restante 28,3% famiglie con stranieri (oltre 568mila), pur rappresentando queste ultime solo l’8,6% del totale delle famiglie”.

La stessa Istat sottolinea tuttavia come “le misure straordinarie implementate nel 2020 (Reddito di emergenza, bonus per i lavoratori autonomi e bonus colf)” abbiano “contribuito, insieme all’ampliamento nell’utilizzo di quelle già esistenti (Reddito di cittadinanza e Cassa integrazione), a sostenere i redditi delle famiglie, pesantemente condizionati dalla crisi economica, riducendo la diseguaglianza”.

L’Istat evidenzia anche come nel 2020, rispetto all’anno precedente, l’incidenza della povertà relativa familiare abbia segnato un calo generalizzato. Come spiegato da Valeria de Martino e Federico Di Leo che hanno curato il rapporto sulla povertà dell’ente, il dato sulla povertà relativa non significa però «che siano migliorate le condizioni di vita generali, ma che, a fronte di una riduzione dei consumi per le famiglie che spendevano di più, si è ridotto lo svantaggio o la distanza con le famiglie che spendono di meno». 

La povertà relativa e quella assoluta si differenziano infatti a livello di calcolo metodologico: “La povertà assoluta – precisa la stessa Istat – si verifica quando una famiglia o un individuo non sono in grado di acquistare un insieme di beni e servizi considerato indispensabile per condurre una vita dignitosa. Quindi si calcola in relazione a un valore monetario che cambia a seconda della tipologia familiare (una famiglia di anziani non ha le stesse necessità di una famiglia con bambini), della ripartizione geografica in cui si vive (il livello dei prezzi non è identico in tutto in Paese) e alla dimensione del comune di residenza (vivere al centro di un’area metropolitana è molto diverso dal vivere in un piccolo comune)". 

La condizione di povertà relativa, invece, "dipende dal livello generale dei consumi. Le famiglie relativamente povere sono quelle che si trovano in una condizione di svantaggio rispetto alle altre:  una famiglia di due persone si colloca sotto la soglia di povertà quando spende per i propri consumi una cifra uguale o inferiore alla spesa media pro capite; il valore di questa  soglia viene poi ricalcolato con metodi statistici a seconda della numerosità dei componenti della famiglia, così da poter confrontare nuclei familiari diversi. Quindi di anno in anno la soglia varia a seconda del valore della spesa media pro capite”. 

Passando alla situazione del mercato del lavoro, la Banca d’Italia in una recente audizione in Parlamento “sulle nuove disuguaglianze prodotte dalla pandemia”, ha documentato che “nel confronto con le due recessioni precedenti (la Grande recessione globale e la crisi europea dei debiti sovrani) la composizione settoriale del calo dell’occupazione durante la crisi pandemica è stata decisamente squilibrata verso i settori a basso salario”, in particolare modo i servizi di cura della persona, il turismo, le attività ricreative e i trasporti: “Si tratta di comparti caratterizzati da una minore produttività e che richiedono minori competenze ai lavoratori impiegati; di conseguenza offrono carriere meno stabili e retribuzioni più basse”. 

La Banca d’Italia segnala inoltre che si è creata una disuguaglianza tra chi ha potuto lavorare da remoto e chi no: “Le possibilità di lavorare a distanza sono state maggiori per le occupazioni del terziario avanzato, caratterizzate da retribuzioni più alte e posizioni lavorative stabili. I lavoratori da remoto hanno potuto lavorare più ore (6%) rispetto ai colleghi in presenza con caratteristiche simili; ciò ha permesso loro di percepire retribuzioni più elevate, anche perché sono stati meno coinvolti dal collocamento in Cassa Integrazione. Anche la probabilità di cercare un nuovo impiego o quella, percepita, di poter perdere quello attuale entro i sei mesi successivi sono state significativamente inferiori per i lavoratori da remoto”.

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La crisi legata alla pandemia, si legge ancora nel documento, ha poi “avuto ripercussioni più marcate sull’occupazione autonoma e su quella dipendente a termine, che su quella dipendente a tempo indeterminato”. Il calo tra i dipendenti è stato invece più contenuto e “si è concentrato nella componente a tempo determinato, in cui maggiore è l’incidenza di giovani, donne e stranieri”. I lavoratori con contratto a tempo indeterminato sono stati poi maggiormente tutelati “dal potenziamento degli schemi di integrazione salariale, la cui copertura è stata resa temporaneamente universale e priva di costi per i datori di lavoro, e dall’introduzione del blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo”.  

La combinazione di tutti questi fattori, spiega sempre la Banca d’Italia, ha “generato una marcata divaricazione nelle dinamiche occupazionali, che sono risultate nettamente più sfavorevoli per i giovani, i meno istruiti e gli immigrati”. Inoltre, “l’occupazione femminile, più concentrata in impieghi precari, si è contratta in modo più marcato rispetto a quella degli uomini nelle fasi più acute della crisi, recuperando poi nelle fasi di ripresa. L’offerta di lavoro si è ridotta in modo simile per entrambi i sessi. Tuttavia, tra le donne inattive, è aumentato significativamente il numero di quelle che dichiarano di non poter accettare un impiego a causa della gestione dei carichi familiari, incrementati durante la pandemia”. Secondo un'analisi dell'ILO (Organizzazione mondiale del lavoro) questa dinamica ha avuto un riscontro a livello globale: "Un nuovo policy brief rileva che ci saranno 13 milioni di donne in meno occupate nel 2021 rispetto al 2019, mentre l’occupazione maschile sarà tornata ai livelli del 2019. Anche se la crescita occupazionale prevista per le donne nel 2021 supererà quella degli uomini, questa non sarà comunque sufficiente per riportare le donne ai livelli occupazionali pre-pandemia".

Oltre le statistiche ufficiali, per osservare e mappare gli effetti negativi della pandemia sulla società italiana può essere utile servirsi anche delle esperienze di enti che quotidianamente si impegnano contro le disuguaglianze e la povertà. 

Uno strumento utile al riguardo è il rapporto 2021 della Caritas su povertà ed esclusione sociale intitolato “Oltre l’ostacolo” e pubblicato questo ottobre. Al suo interno si trovano ad esempio i dati rilevati dalle 218 Caritas diocesane presenti sul territorio: “In dodici mesi (nel 2020) la rete Caritas, potendo contare su 6.780 servizi a livello diocesano e parrocchiale ha sostenuto più di 1,9 milioni di persone. Di questi il 44% sono ‘nuovi poveri’, cioè persone che si sono rivolte al circuito Caritas per la prima volta per effetto, diretto o indiretto, della pandemia”. 

Tuttavia, continua il rapporto, “la crisi socio-sanitaria ha acuito anche le povertà pre-esistenti: cresce la quota di poveri cronici, in carico al circuito delle Caritas da 5 anni e più (anche in modo intermittente), che dal 2019 al 2020 passa dal 25,6% al 27,5%; oltre la metà delle persone che si sono rivolte alla Caritas (il 57,1%) aveva al massimo la licenza di scuola media inferiore, percentuale che tra gli italiani sale al 65,3% e che nel Mezzogiorno arriva addirittura al 77,6%”. Un quadro che mostra come si è “di fronte a delle situazioni in cui appare evidente una forte vulnerabilità culturale e sociale, che impedisce sul nascere la possibilità di fare il salto necessario per superare l’ostacolo”. 

I dati raccolti dei servizi Caritas permettono anche una parziale panoramica della situazione in Italia dei primi otto mesi del 2021: “Dei nuovi poveri seguiti nel 2020, le cui richieste di aiuto possiamo immaginare fortemente correlate alla crisi socio-sanitaria legata alla pandemia, oltre i due terzi (esattamente il 70,3%) non ha fatto più ricorso allo stesso circuito di servizi Caritas”. La Caritas spiega che questo è un dato che si presta a una lettura ambivalente: “Da un lato non può non essere preso come un chiaro segnale di speranza e di ripartenza; al contempo però non possiamo non occuparci e preoccuparci di quel 29,7% di persone che ancora oggi nel 2021 continuano a ‘non farcela’ e che rischiano di vedere in qualche modo ‘ossificarsi’ la propria condizione di bisogno. Si tratta di uomini e donne in egual misura, in prevalenza italiani, persone che vivono soprattutto in un’abitazione in affitto, per lo più coniugate o celibi/nubili, con livelli di istruzione medi (prevale la licenza di scuola media inferiore, seguita dal diploma professionale e dal diploma di scuola media superiore), in grandi difficoltà sul fronte occupazionale perché senza un impiego o perché con un impiego che non preserva dal rischio povertà (lavori occasionali, stagionali, informali, sotto-retribuiti)”. A preoccupare l’ente della CEI è l’età delle persone coinvolte, in particolare i “giovani adulti” tra i 18 anni e i 34 anni, seguita a breve distanza dalla classe 45-54 e da quella 35-44: “Età centrali dunque di persone che dovrebbero essere invece nel pieno vigore della propria crescita professionale”. Altro elemento critico, inoltre, è legato alla genitorialità: “Tra chi fa ancora fatica risulta alta la quota di chi ha figli, spesso figli minori”. 

Allargando lo sguardo agli assistiti dalla Caritas complessivi del 2021 questa è la fotografia che emerge: 

  • "Cresce del 7,6% il numero di persone assistite rispetto al 2020; dato che se confermato anche per il resto dell'anno (e per la totalità dei centri/servizi in rete) sarebbe assai allarmante.
  • Nel post pandemia torna a calare l’incidenza dei nuovi poveri che costituiscono il 37% del totale, percentuale che tornerebbe ad allinearsi a quella degli anni pre-Coronavirus.
  • Le persone incontrate per la prima volta nell’anno dell’emergenza sanitaria (2020) ancora in uno stato di bisogno costituiscono il 16,1% degli assistiti.
  • Sale la quota di chi vive forme di povertà croniche (27,7%).
  • Preoccupa anche la situazione dei poveri “intermittenti” (che pesano per il 19,2%), anch'essi in crescita, che oscillano tra il “dentro-fuori” la condizione di bisogno, collocandosi a volte appena al di sopra della soglia di povertà e che appaiono in qualche modo in balia degli eventi economici/occupazionali (perdita del lavoro, precariato, lavoratori nell’economia informale) e/o familiari (separazioni, divorzi, isolamento relazionale, ecc.)".

Secondo Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), quella «che abbiamo vissuto, e che stiamo ancora vivendo, è una crisi molto diversa da una recessione ordinaria». Per Boeri la crisi provocata dalla pandemia di COVID-19 presenta infatti cinque caratteristiche che la rendono unica. La prima si può definire “La doppia vulnerabilità”: «Nella crisi si sono sovrapposte la dimensione sanitaria e quella economica. Le famiglie e le comunità più fragili nelle regioni maggiormente investite dalla pandemia hanno pagato lo scotto due volte: con tassi di mortalità più elevati della media e con perdite di reddito più forti degli altri». La seconda peculiarità di questa crisi, prosegue l’ex presidente dell’Inps, «è che non ci ha dato tempo per prepararci. Normalmente l’impatto occupazionale di una crisi si manifesta gradualmente. Ci vuole del tempo prima che la crisi si faccia sentire sulle famiglie. In questa da un giorno all’altro interi rami d’attività hanno cessato d’operare lasciando senza lavoro (e spesso senza reddito) milioni di persone». Il terzo aspetto è che «si è accanita contro chi non aveva ammortizzatori sociali. A restare senza lavoro sono stati molto più che in passate recessioni i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori e i lavoratori delle piccole imprese, tutte persone poco protette dal nostro sistema di ammortizzatori sociali. Di qui la necessità di introdurre nuovi trasferimenti ad hoc, del tutto inediti». Questa crisi inoltre «ha colpito più le donne degli uomini e non solo perché ha coinvolto settori come il turismo, con predominante presenza femminile e persone con contratti a tempo determinato (nel commercio al dettaglio le donne sono la maggioranza dei lavoratori temporanei), ma anche perché ha scaricato sulle donne l’onere della cura dei figli». Infine, la crisi pandemica «ha ulteriormente ridotto la mobilità sociale»«Per lungo tempo è stato bloccato il principale ascensore sociale, la scuola, facendo accumulare, a chi era già in condizione di difficoltà, ritardi formativi che sarà molto difficile colmare. Inoltre, è di molto aumentato il lavoro in remoto senza che si potesse per tempo attrezzare chi non aveva condizioni abitative adeguate a trasformare la propria abitazione (o una postazione vicina a casa) in luogo di lavoro. E anche questo aumenta la disuguaglianza delle opportunità»

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In sostanza, conclude Boeri, la crisi dovuta alla pandemia «ha creato nuove disuguaglianze che si sono aggiunte a quelle preesistenti» e ha sviluppato una situazione sociale e lavorativa che pone nuove sfide: «Sappiamo ancora troppo poco sulla natura [di queste nuove disuguaglianze] e soprattutto sull’efficacia delle politiche approntate per contenere i costi sociali della pandemia»

Foto in anteprima via Ansa

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