Democrazia, proteste e repressione ai tempi della crisi
7 min lettura(Foto: Valentina Pernicaro)
Più che un effettivo riassetto dei conti pubblici, le misure di austerità stanno provocando grande sofferenza sociale e aggravando la già profondissima crisi di legittimità della politica. Le proteste aumentano d’intensità e si radicalizzano, e la polizia di uno stato democratico si trova nella delicatissima posizione di dover garantire l’ordine pubblico e rispettare i diritti dei cittadini. Da sempre esiste una tensione oggettiva tra potere e diritto, ma in un momento storico come questo il rischio tangibile è che tale tensione finisca per produrre una repressione indiscriminata.
Per orientarmi tra guerriglie urbane, Val di Susa e manganellate agli operai ho chiesto a Donatella Della Porta – sociologa, docente all’Istituto Universitario Europeo e autrice, tra gli altri saggi, di Polizia e protesta (2003, con Herbert Reiter) e La protesta e il controllo (2004, sempre con Reiter) – com’è cambiata la polizia italiana negli ultimi 30 anni, quali nodi irrisolti ci sono al suo interno e se le tecniche di controllo della protesta stiano effettivamente funzionando – e siano compatibili con la democrazia.
Il sottotitolo di un libro uscito dopo il G8 di Genova (Ripensare la polizia di Marcello Zinola) era piuttosto chiaro: «Ci siamo scoperti diversi da come pensavamo di essere». In questi anni com’è cambiata la polizia?
L’impressione è che sicuramente Genova sia stata un trauma, rispetto al quale molti poliziotti sentono ancora il bisogno di distanziarsi. Per fortuna Genova non si è ripetuta, però nella polizia di oggi non c’è una percezione diffusa dell’importanza del diritto di manifestare. Questo secondo me è legato – com’era legato in passato – alle aspettative della polizia rispetto a quello che vuole la politica istituzionale. Oggi quest’ultima non vuole avere cittadini che protestano nelle piazze. Non lo vuole il governo, perché è “tecnico” e pretende di rispondere soprattutto alle domande dei mercati, e non lo vogliono neanche i partiti che ora sostengono questo governo, e che in passato avevano anche in parte sostenuto la protesta. Questo clima incide sulla polizia, nel senso di considerare la protesta come poco legittima, da subordinare ad altre esigenze come quelle dell’ordine pubblico.
C’è stata un’evoluzione nelle tecniche di controllo della protesta in questi ultimi anni?
Piuttosto che le teste spaccate in piazza (se non in casi occasionali), c’è stata una forte repressione strisciante. I poteri di polizia sono cresciuti da un lato grazie alle leggi sul terrorismo, dall’altro in relazione all’hooliganismo del calcio. Sull’esempio del Daspo, fogli di via, divieti di accesso a luoghi e città sono stati utilizzati contro chi protesta, così come lo sono state le multe e tutta una serie di strumenti che sono meno brutali delle manganellate, ma egualmente efficaci nello scoraggiare la protesta. Poi c’è l’applicazione di una serie di leggi che in passato non erano state quasi mai usate. Ad esempio, il reato di devastazione e saccheggio viene utilizzato per danneggiamenti minori che una volta erano perseguiti in quanto tali. C’è stata insomma un’escalation nell’utilizzazione di queste figure di reato, e questo incremento non coinvolge solo la polizia ma anche la magistratura.
Nel suo libro Polizia e protesta, lei ricostruisce i momenti di escalation di controllo della protesta (come ad esempio gli anni ’70) e quelli di de-escalation (gli anni ’90). Come si può definire questo periodo contrassegnato da austerità e crisi?
La polizia si comporta in maniera diversa rispetto alle centinaia di manifestazioni di protesta che ci sono ogni giorno. In buona parte queste manifestazioni sono controllate in maniera soft, si tratta di “normale amministrazione”. Al contempo ci sono delle strategie, come quelle utilizzate contro gli operai che protestano con la chiusura delle fabbriche, che sono decisamente di escalation. Quando noi abbiamo fatto la ricerca sugli anni ’90, emergeva una maggiore tolleranza rispetto a gruppi sociali che si riteneva fossero svantaggiati. Adesso ci sono stati interventi molto duri nei confronti dei lavoratori e di gruppi sociali rispetto ai quali in passato si adoperava molto più il negoziato. L’altro tipo di strategia di escalation, che non è soltanto italiana, è quella basata sul controllo dei confini delle “zone rosse”. Per esempio, nel caso del 15 ottobre, il tipo di strategia di controllo era quello di schierare tutta la polizia disponibile per chiudere quella che era considerata la zona dei palazzi del potere, e lasciare che fuori ci fosse il caos. È stata in parte la strategia di Genova in alcuni momenti. È una strategia che viene da lontano, una concezione dell’ordine pubblico che si è diffusa negli anni ’90 fino ad oggi. Tale concezione dice: «proteggiamo le aree che riteniamo degne di protezione (palazzi del potere, appunto) , e lasciamo il resto nel disordine». E questo caos, magari, può anche servire per giustificare poi interventi più duri rispetto a chi protesta.
In relazione agli scontri del 15 ottobre 2011 a Roma, in un’intervista a La Repubblica un cosiddetto «black bloc» spiegava che i gruppi di casseurs si erano strutturati come le batterie della celere. I poliziotti, al contrario mi sono sembrati poco organizzati, quasi in balia degli eventi.
L’organizzazione c’è stata nello schierare una gran massa dei poliziotti a protezione della “zona rossa”. C’è stato, invece, un grandissimo caos nella gestione di quello che avveniva al di fuori di questa zona protetta. Gli organizzatori, sentiti per una ricerca, ci dicevano che spesso i loro contatti con la Digos – per cercare di salvare la parte pacifica della manifestazione, trovare percorsi alternativi e così via – si rivelavano inefficaci data la totale mancanza di organizzazione e comunicazione nella polizia che stava fuori dalla zona rossa, composta da tre o quattro piccoli nuclei che in realtà dovevano controllare tutto quello che succedeva attorno al corteo.
L’anno scorso ha detto a L’Espresso che manifestazioni come quelle di Roma sono «difficili da controllare proprio per le nuove caratteristiche che presentano». Come mai?
La manifestazione del 15 ottobre secondo me aveva un problema che la rendeva difficile da controllare per gli stessi organizzatori. Si trattava, infatti, di una manifestazione concordata sulla base di un appello non italiano, che veniva da fuori; tanti gruppi e coalizioni hanno cercato di conquistare il controllo del corteo mentre è stato carente il lavoro politico nella preparazione della manifestazione. C’era forte competizione tra i gruppi che organizzavano la giornata stessa. Come tipo di manifestazione poteva anche essere comparabile al No Monti Day di sabato scorso, ma la differenza importante è che in quest’ultimo la struttura dei gruppi organizzatori era più chiara, e questi gruppi hanno raggiunto un accordo su come stare in piazza. Per il 15 ottobre, l’impressione è che ci sia stata una sottovalutazione da parte degli organizzatori dei rischi di violenza ed un fallimento nell’organizzazione della manifestazione. Per la polizia, una delle difficoltà in questo tipo di manifestazioni è quella di proteggere i manifestanti pacifici e controllare quelli violenti. Non è che sia una difficoltà in assoluto: questo tipo di manifestazioni miste sono sempre più comuni, e normalmente ci sono strumenti sia per ridurre i danni che per negoziare con le componenti più radicali. Per la polizia italiana, però, questo è più problematico: c’è meno tradizione di questo tipo di gestione, anche da un punto di vista culturale. Si fa fatica a riconoscere che la protesta è un diritto dei cittadini.
In una lettera inviata lo scorso 4 settembre dal Siap al ministro Cancellieri e al Capo della polizia si legge che in Val di Susa «non c’è più alcun movimento democratico di protesta, ormai da tempo è tutto in mano ai violenti, che hanno trasformato il sedicente campeggio di Chiomonte in una palestra eversiva». Insomma, non sembra esserci alcun margine di negoziato con il movimento No Tav.
In Val di Susa il controllo della protesta si è inasprito nel tempo. Il tipo di conflitto nella costruzione di grande infrastrutture, soprattutto quando iniziano i carotaggi e l’occupazione del territorio, acquista quelle dinamiche di potenziale escalation che ci sono state, per esempio, attorno alle case occupate negli anni ‘70. Diventano battaglie di lungo periodo dove alla dinamica specifica di ogni manifestazione si sommano aspetti di vendetta per quello che è successo in passato, in cui la polizia si è vista in alcuni casi “sconfitta”. Naturalmente, in Val di Susa la situazione è diventata sempre più tesa anche in relazione alla non capacità/non volontà di gestire politicamente il conflitto. La polizia, quando è mandata come ultima soluzione possibile, lo percepisce.
Infatti, sempre nella stessa lettera, si parla di un crescente «senso di scoramento, frustrazione e rabbia che ormai pervade l’animo di tutti gli operatori [...] che vengono quotidianamente mortificati nelle loro funzioni». In pratica, il Siap accusa la politica di utilizzare i poliziotti per arginare un problema che le autorità statali non sono più in grado di risolvere.
Io penso che ci sia anche una solidarietà di comunità, per cui la polizia non è più apprezzata da alcuni e disprezzata da altri: è, in quel tipo di contesto, considerata come esercito invasore.
Cito da Polizia e protesta: «Sotto il profilo organizzativo, il tradizionale modello delle forze di polizia italiane appare lontano dall’ideale democratico». È ancora così?
La situazione della polizia italiana è sicuramente cambiata negli anni ’80 con la riforma di polizia. Ma la polizia italiana non si è democratizzata un granché: è ancora un intreccio tra clientelismo, semi-diritti per chi ci lavora dentro e mancanza di preparazione professionale e costituzionale.
E per quanto riguarda la situazione sindacale?
I sindacati di polizia, anche in altri paesi, hanno sempre un atteggiamento ambiguo tra protezione dell’operatore di polizia e richiesta di fondi, finanziamenti, armi, strumenti, eccetera. In Italia questo è aggravato dal fatto che ci sono decine di sindacati all’interno della polizia che competono l’uno con l’altro in termini spesso corporativi. Il Siulp ormai vive lo sfacelo dei sindacati unitari, e la storia del movimento sindacale della polizia gli è ormai alle spalle. Spesso, sono gli stessi poliziotti che avevano fatto le battaglie per la sindacalizzazione e la demilitarizzazione della polizia che considerano molto drammatica la recente evoluzione. Quando siamo stati invitati da sindacati di polizia a presentare il nostro libro, gli operatori di polizia di questi sindacati ci dicevano che la loro vita dentro la polizia è difficile perché sono considerati dei traditori. Non c’è una cultura democratica che permetta di fare un tipo di protezione sindacale efficace degli operatori di polizia.
Insomma, i sindacati di polizia hanno perso la funzione propulsiva e riformista degli anni ’70. Ma la politica è interessata a riformare la polizia?
Se guardiamo al momento attuale, abbiamo un governo che si professa al di sopra della politica: la protesta dei cittadini non entra nelle sue preoccupazioni o nei diritti da difendere. Nell’azione dei sindacati degli anni ’70 contava anche un certo sostegno da parte dei partiti della sinistra. Da parecchio tempo il Partito Democratico considera la protesta come una cosa negativa, addirittura le proteste della Cgil sono considerate negativamente – figuriamoci quelle degli altri. La politica istituzionale non ha mai compreso il problema profondo di una democratizzazione della polizia. Oggi ci sono ancora meno spazi, perché non è compresa nemmeno l’importanza che la difesa dei diritti di protesta comporta per una democrazia.
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