Il mondo riflette sulle disuguaglianze, il Governo Meloni le aumenta
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Nel 2019 un gruppo di economisti tra i più noti al mondo fondò il network Economics for Inclusive Prosperity per denunciare le crescenti disuguaglianze che attanagliano le economie occidentali. Nonostante i grandi nomi, l’iniziativa ebbe una eco solamente accademica.
Solo un anno dopo la pandemia di Sars-CoV-2 ha mostrato senza l’eleganza delle riflessioni economiche la durezza delle disuguaglianze. Costretti in casa per ridurre la circolazione virale del patogeno, pochi hanno potuto godersi il confinamento in ampie case dotate di giardino dove dedicarsi alla lettura; la maggior parte invece si è trovata a fare i conti con l’incertezza del futuro in un appartamento angusto.
Non è un caso se le elezioni successive hanno visto una maggior attenzione al tema disuguaglianze rispetto a quelle del decennio precedente. Un esempio paradigmatico sono le elezioni presidenziali americane, dove il moderato e centrista Joe Biden si è riscoperto, almeno a parole, socialdemocratico.
La retorica di Biden è incentrata sulla necessità di far pagare di più alle fasce più abbienti della popolazione e garantire salari più alti e maggiori tutele ai lavoratori americani. Anche in altri paesi, come nel caso spagnolo che abbiamo trattato, l’agenda e il dibattito pubblico si sono spostati verso la denuncia delle crescenti disuguaglianze e i privilegi delle fasce più abbienti, chiedendo una maggior protezione, come afferma il sociologo Paolo Gerbaudo nel suo volume Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato.
In Italia, però, la situazione è differente. Come suggeriscono i dati, i partiti progressisti non hanno più presa sui ceti popolari, incapaci quindi di elaborare non tanto una proposta quanto una riflessione sulle disuguaglianze. Il compito spetta così alla destra, quella radicale di Salvini e Meloni, che deve però tener assieme da una parte gli interessi dell’elettorato storico, più abbiente, e quello tradizionalmente di sinistra che da decenni invece vota per proposte diverse.
La formula vincente, rileva un recente studio commissionato dalla fondazione Friedrich Ebert, è un mix tra interventi statali per difendere determinate categorie – pensiamo ad esempio al tema pensioni – assieme al restringimento del welfare ai soli nativi.
Ovviamente questo non avviene attraverso le politiche messe in atto dal Governo, quanto attraverso la retorica. Basti pensare alla retorica sui "burocrati di Bruxelles" che vorrebbero una transizione ecologica troppo onerosa per gli italiani, come successo ad esempio per la normativa sugli edifici residenziali. In quell'occasione, il ministro Pichetto Fratin ha dichiarato che l’Europa dovrebbe prendere in considerazioni i diversi contesti, visto che la casa rappresenta un bene rifugio per le famiglie italiane.
Anche le poche politiche economiche che strizzano l’occhio alle classi popolari mostrano spesso risultati alquanto discutibili, come dimostrato recentemente dal provvedimento sugli extra profitti delle banche. In cerca di risorse per la finanziaria, Meloni e Salvini hanno tentato di attaccare il settore bancario che, a ragione o torto, non gode di ottima fama tra le classi popolari. Quello che è emerso però è un provvedimento confuso che in sede parlamentare è stato prontamente modificato.
Per quanto possa tentare di coniugare queste due anime, quella degli interessi che tradizionalmente rappresenta la destra e quelli delle classi popolari che soffrono le disuguaglianze, il governo finora è apparso più intenzionato, in un caso per sua stessa ammissione, ad aumentare le disuguaglianze.
Il governo delle disuguaglianze sul breve periodo…
Bisogna dire che il nostro paese non partiva di certo da una situazione rosea rispetto alle disuguaglianze, limitandoci in questo caso a quelle di reddito. Uno dei valori maggiormente utilizzati per analizzare le disuguaglianze è il coefficiente di Gini. Si tratta di un valore che misura la distanza tra la distribuzione del reddito in condizioni di perfetta uguaglianza – ovvero dove ognuno possiede la stessa quantità di reddito – e quella attuale. Questo coefficiente va da 0 a 1: più è vicino a 1, più è iniqua la distribuzione del reddito.
Secondo i dati OECD, il nostro paese nel 2019 presentava un coefficiente di Gini di 0.325, tra i valori più alti tra i paesi europei. Per fare un paragone con i nostri partner europei di riferimento, la Francia presentava un valore di 0.292 mentre la Germania di 0.296.
Ma, come dicevamo, il rischio è che il governo Meloni vada solo a peggiorare la situazione.
È possibile rintracciare problematiche anche nei provvedimenti finora voluti dal governo Meloni. A dirlo è la Relazione sugli indicatori di benessere equo e sostenibile, un rapporto redatto dall’ISTAT e dal CNEL per valutare le criticità e i punti di forza della società non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale.
Tre sono le misure nel mirino del rapporto. In primo luogo la flat tax incrementale, uno dei cavalli di battaglia del partito di Giorgia Meloni anche al tempo delle elezioni. Considerata troppo esosa la flat tax pura, il partito di Meloni ha invece optato per una sua versione addolcita. Il meccanismo, al di là dei dettagli tecnici, è semplice: sull’aumento di reddito rispetto al massimo dei tre anni precedenti si paga un’aliquota piatta del 15%, indipendente dallo scaglione a cui si appartiene. Una misura che non solo va a vantaggio di chi ha un maggior reddito, visto il differenziale tra l’aliquota a cui sarebbe tassato quell’aumento e quella della flat tax incrementale, ma che di fatto penalizza chi ha avuto cali di reddito.
Il secondo intervento che va a vantaggio delle fasce più abbienti è l’ampliamento del regime forfettario per i lavoratori autonomi. Come avevamo scritto a suo tempo, la maggioranza ha deciso di innalzare il limite per accedere al regime a 85mila euro. Una scelta che riduce ancora di più il prelievo progressivo sui lavoratori autonomi, incidendo quindi sulla disuguaglianza, oltre a incentivare l’evasione.
Infine, il rapporto cita la cancellazione del Reddito di Cittadinanza. Questo è un punto estremamente critico per due motivi. Se si osserva più dettagliatamente, il problema italiano non è solo la disuguaglianza, ma anche la povertà. E infatti anche i dati sulla povertà non danno segnali incoraggianti: se si considera l’indice OECD del Poverty rate, definito come la porzione di persone che è al di sotto della soglia di povertà, il nostro paese fa nettamente peggio rispetto ai suoi partner europei. A questo si vada ad aggiungere una situazione ancora più drammatica per quel che riguarda il Poverty Gap – un indice che misura l’intensità della povertà – per cui l’Italia è ai primi posti tra i paesi OECD.
Andare a cancellare quindi uno strumento universale di contrasto alla povertà che, come avevamo visto, stava dando i suoi frutti nonostante i vari aspetti di perplessità, ha un effetto ancora più incisivo sulla disuguaglianza.
Ma, e qui arriva il tranello, il Governo Meloni non aveva ancora cancellato il Reddito di Cittadinanza nel 2022. Come osserva Stefano Feltri, all’interno del Rapporto di Istat e CNEL si stima che la misura con cui il governo avrebbe sostituito il Reddito di Cittadinanza sarebbe andata alla stessa platea e avrebbe impiegato gli stessi fondi: una netta contraddizione con quanto sosteneva Meloni, che invece voleva un netto ridimensionamento del Reddito di Cittadinanza, sia per la platea sia per i costi.
E infatti oggi sappiamo che le varie misure con cui il Reddito di Cittadinanza è stato sostituito, che distinguono per occupabili e non, hanno importi ben più bassi e si rivolgono a una platea differente. Il risparmio è stimato in un miliardo di euro, contraddicendo quindi quanto sostenuto all’interno del rapporto.
Non è quindi imprevedibile che questa decisione del governo Meloni andrà ad acuire non solo la disuguaglianza, ma anche le varie sacche di povertà presenti nel nostro paese.
… e sul lungo periodo
Nel maggio di quest’anno il Governo Meloni ha varato il Decreto Lavoro che, tra le altre cose, ha cambiato le regole sui contratti a tempo determinato. Dopo che il Governo Conte I con il Decreto Dignità era intervenuto con una stretta, il Governo Meloni ha introdotto nuove causali per il rinnovo dei contratti a tempo determinato.
Dentro a quel decreto, inoltre, Meloni e il suo Governo hanno previsto un forte taglio del cuneo fiscale per sostenere i redditi bassi: quattro punti che si aggiungono ai tre voluti dal Governo Draghi sui redditi fino a 35mila euro lordi. Ma il taglio del cuneo fiscale costa e bisogna trovare le risorse. Ci sarebbe una soluzione al problema (o almeno una parte di soluzione) , proposta già al tempo della campagna elettorale dagli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti e poi durante l’estate presentata dall’opposizione: l’introduzione di un salario minimo. Questa misura, se calibrata in modo tale da non dar vita a un'emorragia occupazionale, avrebbe dei costi minimi per lo Stato e permetterebbe di alzare i salari di un numero considerevole di persone. Inoltre, va specificato che il fine principale del salario minimo non è tanto alzare i salari, quanto garantire una soglia minima alle retribuzione offerte dalle imprese. In linea teorica, le imprese sarebbero quindi incentivate a investire in innovazione e formazione di capitale umano, non potendo più competere sui salari. Ciò innescherebbe un circolo virtuoso che favorisce le imprese più produttive, con ricadute sull’intero sistema.
Finora Meloni si è detta contraria all’introduzione del salario minimo, come anche altri ministri. In più occasioni, la leader di Fratelli d’Italia ha dichiarato che lo strumento, nonostante le buone intenzioni, andrebbe a danneggiare i lavoratori. Poiché però la questione è dirimente nonché sentita all’interno dell’elettorato, Meloni ha preposto il CNEL, presieduto da Renato Brunetta, a formulare una proposta sul salario minimo e sul lavoro povero.
Le politiche del governo Meloni, assieme anche alla narrazione per motivi di propaganda, sono sulla falsariga di quanto successo nel corso degli ultimi trent’anni: ovvero una stagione in cui per rendere competitivo il paese si è agito sui salari e sulle tutele. Secondo l’analisi dei due economisti Daniele Cecchi e Tullio Jappelli la dinamica delle disuguaglianze è in buona parte spiegata proprio dalle riforme del mercato del lavoro, a partire da quella Treu del 1997, passando per la Riforma Maroni del 2003 e infine il Jobs Act del Governo Renzi. Due sono i canali: in primo luogo, l’aumento dei lavori part time, soprattutto per le donne; in secondo luogo, l’aumento al ricorso del contratto a tempo determinato.
Un recente studio ha aiutato a fare chiarezza su questa stagione che il Governo Meloni ha riaperto, dopo il parziale passo indietro del Decreto Dignità. Gli economisti hanno analizzato le tendenze del mercato del lavoro proprio tra il 1985 e il 2016, facendo emergere due tratti salienti: da una parte, un aumento della volatilità nelle retribuzioni e, dall’altra, un aumento della disuguaglianza. Inoltre, gli studiosi hanno notato che il contratto a tempo determinato difficilmente si traduce in un contratto a tempo indeterminato e questo disincentiva sia il lavoratore sia l’impresa dall’investire in capitale umano. Oltre all’aumento delle disuguaglianze, quindi, questa strategia avrebbe anche un impatto negativo sulla produttività del lavoro che nel nostro paese è ferma da trent’anni.
Le misure volute da Meloni, quindi, con il Decreto Primo Maggio proseguono quindi su questa strada ben solcata, cancellando i miglioramenti infinitesimi del Decreto Dignità, e quindi contribuendo a una maggior precarizzazione del mondo del lavoro.
Le disuguaglianze non sono solo un problema di giustizia
C’è un aspetto, più profondo e in qualche modo drammatico, a chiusura di questa analisi. Uno dei traini delle disuguaglianze sono ovviamente le competenze. In un’economia di mercato – e non solo – si tende a retribuire di più coloro che hanno delle competenze maggiormente spendibili nel mercato del lavoro, che si sono formate e hanno acquisito nozioni che permettono il miglioramento della vita delle persone – che sia accelerare la spedizione di un pacco o terapie contro il tumore. Nessuno vuole quindi mettere in discussione il principio suddetto.
Ma il rischio, come fece notare Alan Krueger, compianto economista e consigliere di Barack Obama, è la Curva di Gatsby: l’idea cioè che maggiori sono le disuguaglianze, minore è la mobilità sociale. Un paese altamente diseguale, quindi, finisce con l’essere – com’è l’Italia – un paese in cui l’ascensore sociale è rotto e chi nasce povero rimane povero.
Le perplessità sulle misure di Meloni quindi non dovrebbero derivare soltanto da considerazioni morali, ma dalla consapevolezza che andrebbero a irrigidire ancora di più un paese che ha smesso di creare ricchezza da trent’anni a questa parte.
Immagine in anteprima via today.it