Politica industriale: il ritorno della mano visibile dello Stato
2 min letturaLa prima domanda che i tuoi genitori fanno quando, da giovane studente del comprensorio di Sassuolo, vai in gita all’estero con la scuola è: “Com’è andato il viaggio?”. La seconda domanda è: “Che piastrelle ci sono in hotel?”.
Il distretto ceramico, situato a cavallo tra la provincia di Modena e quella di Reggio Emilia, dà lavoro a 18mila persone, conta circa 300 aziende, produce l’80% della produzione nazionale di piastrelle per un fatturato che si aggira attorno ai 4 miliardi di euro. Non sorprende quindi l’importanza delle piastrelle per la vita degli abitanti del distretto.
Prima la pandemia e poi la crisi internazionale scaturita dall’invasione russa dell’Ucraina hanno messo a dura prova il settore: i costi dell’energia in particolare hanno rallentato la produzione, costringendo varie aziende a mettere gli operai in cassaintegrazione. In un’intervista di qualche mese fa Franco Manfredini della Casalgrande Padana, uno dei leader del settore, ha dipinto una situazione che mostra un orizzonte quantomeno cupo. Verso la fine dell’intervista l’imprenditore sottolinea che l’attenzione al comparto manifatturiero da parte dello Stato non deve restringersi ai periodi di crisi, ma intraprendere un rapporto costante sulla falsariga di quanto succede in Germania, dove si cerca di tenere insieme settore privato, ricerca e capitali necessari per innovare attraverso una banca pubblica.
Non si tratta di un tema legato solamente all’industria ceramica, quanto una tendenza nata dopo la crisi del 2008 e accelerata - ancora - dalla pandemia: il ritorno dello Stato. A testimoniarlo anche il titolo del report della Banca Europea per lo Sviluppo e la Ricostruzione: The State strikes back (“Lo Stato colpisce ancora”).
Ma se lo Stato è tornato a colpire, dov’era andato? Siamo abituati a una forte presenza statale nelle nostre economie e durante la pandemia ne abbiamo avuto un’esperienza ancora più diretta. Quando si parla di “ritorno dello Stato” in realtà parliamo di un concetto che a lungo è scomparso dalla scena: la politica industriale. Tanto che anche all'incontro del Forum Economico Mondiale a Davos si è usata l'espressione "politiche industriali", in passato pronunciata sottovoce in certi ambienti.
Di che cosa parliamo quando parliamo di politica industriale?
Una definizione precisa è stata fornita da due studiosi, Pack e Saggi, in un loro studio del 2006, secondo cui politica industriale è “ogni tipologia di intervento selettivo da parte del governo che cerca di modificare la struttura produttiva in quei settori che si prevede risulteranno più promettenti in termini di crescita economica, in un modo che non si sarebbe verificato senza quell’intervento nell’equilibrio di mercato”.
Nel corso degli anni sono state svolte varie tassonomie di quali interventi rientrino nel campo della politica industriale, a partire da un mastodontico studio dell’United Nations Industrial Development Organization, che però si presta più agli addetti ai lavori. Una classificazione invece più accessibile viene fornita dagli economisti Mario Cimoli, Giovanni Dosi e Joseph Stiglitz:
Per quanto vasti, gli interventi possono essere suddivisi in due macrocategorie: quelli orizzontali e quelli verticali.
Un esempio di questi ultimi sono gli interventi della maggior parte dei paesi occidentali dal secondo dopoguerra fino alla stagflazione degli anni ‘70. Gli interventi si focalizzavano sui Campioni Nazionali, determinati settori considerati più promettenti per la crescita economica. Nel nostro paese un esempio è fornito dal piano Sinigaglia volto a potenziare l’industria siderurgica. La logica dietro questi interventi è che, puntando sui settori promettenti, la crescita si diffonderà anche al resto dell’economia.
Al contrario le politiche di tipo orizzontale puntano a migliorare l’intero tessuto industriale, garantendo la concorrenza e l’innovazione attraverso deduzioni e incentivi fiscali. Se le politiche verticali hanno un taglio più interventista, quelle orizzontali fanno più affidamento sul mercato.
Pro e contro della politica industriale
Chiarito il significato di politica industriale e le sue forme principali, il problema che si pone è se ci siano o meno delle ragioni per sostenere la politica industriale e di quale tipo.
Negli anni del secondo dopoguerra, quando l’ascesa della classe media e della produzione di massa viene trainata proprio dal massiccio intervento dello Stato, emergono due argomenti per giustificare la politica industriale.
Una corrente si focalizza sulla mancanza dei fattori trainanti per la crescita economica nei paesi meno industrializzati che non potevano emergere solo dal libero mercato. Lo Stato viene visto quindi come l’unico attore in grado di fornire capitale o tecnologia nell’economia.
Ma vi è anche una corrente keynesiana che non si focalizzava tanto nelle risorse scarse, quanto nella capacità dello Stato di sostenere gli investitori, coordinando quindi le forze di mercato e fornendo gli aiuti necessari.
Oltre all’elaborazione teorica, a dire il vero mai del tutto matura, vi è però la realtà dei fatti: il periodo del consenso keynesiano, con ingenti investimenti pubblici e un apparato statale gigantesco, ha portato a 30 anni di crescita economica e benessere diffuso attraverso la scelta dei cosiddetti Campioni Nazionali, quindi attraverso politiche industriali verticali. I paesi occidentali dell’epoca hanno avuto successo nel trasformare le loro economie, fondate prevalentemente sull’agricoltura, in colossi industriali. Di fatto nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia di economisti, si sarebbe sognato di mettere in discussione la politica industriale verticale.
Come al solito, la congiuntura avvenne negli anni ’70: la stagflazione mise in crisi le fondamenta stesse di quel sistema. Prevalsero due argomentazioni contro l’utilizzo di una politica industriale interventista.
Due quelle principali. La prima ha le sue radici in un lavoro dell’economista e scienziato politico Friedrich Von Hayek del 1945, The use of knowledge in society. Data la natura decentralizzata delle informazioni che compongono il sistema economico, un pianificatore benevolo come lo Stato non riuscirebbe a utilizzarla: meglio sarebbe quindi lasciare che i singoli attori - cittadini, imprese, banche e così via - si coordinino tra loro attraverso il sistema dei prezzi.
Se questo argomento era particolarmente sentito - anche se discusso - il secondo andava al nocciolo del problema: lo Stato non è un pianificatore benevolo. In quegli anni la Public Choice Theory aveva applicato i metodi economici - basati su individui razionali interessati solo al loro tornaconto - all’analisi politica. Da pianificatore benevolo lo Stato era diventato un coacervo di interessi, prono non al bene pubblico ma al guadagno e alla rielezione, aperto a corruzione e lobby.
Questo portò quindi a un abbandono, almeno di facciata, della politica industriale interventista: gli interventi dovevano essere di tipo orizzontale, aumentando la concorrenza e la capacità di competere sul mercato delle aziende. La globalizzazione ha intensificato questo percorso, illudendoci che la politica industriale non sarebbe più servita: tanto che l’Unione Europea vieta politiche industriali che distorcono la competizione e il libero mercato se non in rare eccezioni.
Il ritorno del dibattito sulla politica industriale
Nonostante la forza di questi argomenti, la politica industriale è tornata al centro del dibattito dopo la crisi del 2008. A uscire meglio dalla crisi dovuta alla bolla immobiliare statunitense, sono state infatti quelle economia in cui il settore manifatturiero giocava un ruolo più preponderante. Negli Stati Uniti, infatti, Barack Obama, eletto presidente a ridosso proprio di quella crisi, ha fatto affidamento proprio sulla politica industriale, oltre a stimoli fiscali, per rilanciare l’economia statunitense.
Secondo gli esperti della Casa Bianca l’esempio doveva essere, per riprendere quanto detto all’inizio, proprio la Germania. Lì il modello Fraunhofer, che prende il nome proprio dall’istituto omonimo, cerca di colmare il gap tra il settore manifatturiero privato e quello della ricerca, rappresentato dall’Istituto Max Planck.
L’altra stampella del modello tedesco è rappresentata dal KfF, una banca di sviluppo pubblica che dà sostegno vitale proprio a quelle aziende che necessitano dei capitali per innovare.
Non solo: anche la crescita di paesi come la Cina e la Corea del Sud, economie miste con una presenza statale corposa, ha destato l’attenzione della comunità economica che ha, in parte, riconsiderato il ruolo e gli effetti della politica industriale.
Spesso quest’ultima è citata come esempio dai sostenitori del libero mercato, che affermano che la differenza tra capitalismo e comunismo si vede dallo spazio - come mostra l’immagine delle due Coree, una capitalista l’altra comunista.
La situazione però è un po’ più complessa. Dopo la guerra tra le due Coree del 1953 quella del sud aveva un pil pro capite di 82$, uno degli Stati più poveri al mondo. Grazie però al suo ruolo di alleata degli Stati Uniti nella guerra fredda, i fondi inviatagli da questi vennero utilizzati dal governo centrale attraverso un organo chiamato Economic Planning Board: nella pratica si trattava né più né meno di politiche industriali interventiste, che facevano ampio ricorso ai piani quinquennali.
Solo a cavallo degli anni ‘90, quando si aprì una fase di profondi cambiamenti politici, potè aprirsi al mercato globale attraverso una serie di liberalizzazioni che la resero un paese fondamentale dal punto di vista economico.
La Cina è un esempio ancora più complicato. Dopo le politiche disastrose del fondatore della Repubblica Popolare Cinese Mao Zedong, sul finire degli anni ‘70 il de facto leader Deng Xiaoping lancia il programma di apertura e riforma che apre la Cina al commercio internazionale. Sarebbe sbagliato ritenere che la Cina si sia aperta completamente al capitalismo: le riforme di Deng Xiaoping, pur aprendosi al mercato, conservavano un ruolo preponderante per lo Stato che non ha mai smesso di intervenire pesantemente, sia a livello centrale sia sfruttando le TVEs (Township and Village enterprises), ovvero imprese pubbliche ma gestite a livello locale. Ciò ha portato a una rapida crescita del paese che oggi è considerato la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti.
Consci di questi cambiamenti anche l’accademia ha parzialmente cambiato opinione. In particolare concentrandosi su un nuovo tipo di politiche industriali che cercano di andare oltre la dicotomia tra orizzontali e verticali: le missioni a progetto.
Se la strategia precedente verteva o sulla selezione dei campioni nazionali o sull’aumentare la concorrenza, le missioni a progetto danno un nuovo ruolo allo Stato: scegliendo un obiettivo- che può essere quello della transizione ecologica- lo Stato coopera con i privati e con il mondo della ricerca pura e applicata al fine di raggiungerglo tenendo presente la complessità e la dinamicità del processo.
Mariana Mazzucato, tra i principali sostenitori di queste politiche, porta come esempio quello dell’allunaggio. Per vincere la Corsa allo Spazio contro l’Unione Sovietica gli Stati Uniti misero in atto una strategia che coinvolgeva agenzie statali come la NASA, università e aziende private come IBM, creando un contesto simbiotico che ha avuto poi ricadute tecnologiche per tutto il settore privato e non solo: basti pensare ai progressi nel mondo del calcolo scientifico.
Anche la famosa Silicon Valley, spesso considerata come un esempio del libero mercato, nasce in realtà come interazione tra tre diverse entità: un settore privato pronto a recepire l’innovazione, il dipartimento di Ingegneria Elettronica dell’Università di Stanford e, appunto, il Governo Federale.
Le sfide di domani
Il mondo però non funziona solo ad argomentazioni teoriche: vi sono varie sfide, globali o locali, che spingono per un ritorno alla politica industriale più interventista.
La crisi climatica rappresenta forse il singolo fattore più decisivo per accelerare su politiche industriali più ambiziose. Fare affidamento solo sul mercato, infatti, porterebbe direttamente alla catastrofe climatica.
Per far fronte a questa situazione sono state proposte varie strategie, sia dall’accademia sia dalla politica.
Nel 2019 la Commissione Europea ha presentato il suo Green New Deal, per affrontare comunitariamente la crisi climatica e la transizione ecologica. Nonostante il piano sia vago sulle azioni da intraprendere, si parla esplicitamente di focalizzarsi su settori strategici ed attività energivore come quelle legate all’acciaio, alle batterie funzionali per il cambio della mobilità, all’idrogeno. Per farlo, sottolinea, servirà una cooperazione tra gli stati membri, gli istituti di ricerca e il settore privato. Oltre il 35% del bilancio europeo andrà quindi a finanziare soluzioni per la transizione.
Per gli Stati Uniti, invece, sono stati presentati dei piani analoghi da importanti membri della sinistra del partito Democratico come Alexandria Ocasio Cortez e Bernie Sanders, poi parzialmente recepiti dal Presidente Eletto Joe Biden.
Per riuscire in questa sfida storica, economisti come John Van Reenen hanno proposto un approccio basato proprio sulle missioni a progetto: per gli Stati Uniti la creazione di un fondo federale per finanziare progetti che accelerino la transizione ecologica, una strada che sembra esser stata parzialmente recepita dai legislatori europei.
Tra gli effetti della crisi climatica potrebbe esserci un aumento di frequenza di pandemie: questo ci porta al secondo problema. L’industria farmaceutica, come dimostrano i vaccini a mRNA, è strettamente legata all’intervento dello Stato.
D’altronde anche nel 2020 l’allora presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, aveva annunciato una gigantesca operazione di finanziamento alle case farmaceutiche, la Warp speed, per sviluppare più velocemente i vaccini. Nei prossimi anni, viste le continue mutazioni del virus SARS-CoV-2, sarà necessario aggiornare i vaccini e sviluppare nuovi farmaci per contrastarlo.
Anche l’invecchiamento della popolazione rappresenta una sfida per il settore farmaceutico: su questo fronte l’Unione Europea, attraverso il suo programma Horizon, si sta impegnando con una missione a progetto riguardo cure innovative per il cancro.
Un’altra sfida che si stanno trovando ad affrontare gli Stati è quella del dominio dei big tech. In questo campo la Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager ha svolto un lavoro encomiabile: chiamata nella prima commissione Juncker nel 2014 ha lanciato un attacco frontale ai giganti del web (e non solo) per garantire la competizione all’interno del mercato unico. Proprio lei durante la precedente legislatura ha multato big come Google, Amazon e Apple, accusata di aver sottratto all’Irlanda 13 miliardi di euro in tasse non pagate.
Negli Stati Uniti già da tempo politici progressisti come Elizabeth Warren propongono politiche che contrastino in maniera più decisa i giganti tecnologici.
Un tema che ha affrontato anche Jean Tirole, premio Nobel per l’economia, in un suo recente paper in cui sottolinea come le politiche di regolamentazione vecchio stile non siano più possibili in mondo come il nostro e che quindi è necessario un loro ripensamento, individuando una strategia per contrastare il pericolo per la concorrenza (e non solo) di queste piattaforme.
Da un lato questo è interessante: la politica industriale, nel mondo contemporaneo, riguarda anche il lato dei servizi. Dall’altro una riflessione deve essere fatta: che cosa intendiamo con big tech?
E qui arriviamo all’ultimo punto: le tensioni internazionali. In Occidente, appunto, con Big Tech intendiamo colossi dei servizi come Amazon, Facebook, Google. In Cina, suggerisce il commentatore economico Noah Smith, il governo sembra considerare “big tech” soprattutto la parte hardware, come ad esempio l’industria dei semiconduttori. Il campo della componentistica, in cui la Cina ha fatto progressi enormi, mette l’Occidente in una posizione complicata, soprattutto in vista della transizione ecologica che richiederà, ad esempio, un maggior utilizzo di auto elettriche. Proprio la politica di Zero COVID in Cina ha mostrato quando l’industria occidentale sia strettamente legata a quella cinese.
Stato sì o Stato no?
La politica industriale, nella sua versione più interventista, è quindi tornata nel dibattito pubblico e anche in quello politico. I problemi di oggi, come si è visto, la rendono necessaria. Come avverte però Paolo Gerbaudo, un maggior interventismo statale non significa necessariamente politiche di sinistra.
L’esempio italiano rappresenta, come al solito, un caso ancora più paradigmatico. Dopo l’esperienza dei trent’anni gloriosi, lo Stato Imprenditore italiano entrò in una crisi che si trascinò fino agli anni ‘90. Quello che era stato il motore della crescita di quegli anni, l’IRI, divenne un carrozzone ormai ostaggio di corruzione e favoreggiamenti, proprio come insegna la Public Choice Theory.
Negli anni ‘90, per cercare di sanare un’economia malata, si procedette alla privatizzazione del patrimonio pubblico italiano, grazie anche al lavoro dell’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi al tempo al Tesoro. Se l’IRI era marcia, il capitalismo italiano non se la passava meglio: come fa notare Ugo Pagano su Domani, si trattava sostanzialmente di un sistema estremamente manicheo, diviso tra piccole imprese a bassa innovazione e poche grandi aziende in cui spesso vi è anche partecipazione statale. Nel corso degli anni lo Stato non ha fatto nulla per intaccare questo sistema di rendite, anzi, ha inondato il sistema industriale italiano con miliardi di euro che non sono mai andati a migliorare il sistema, come fa notare l’economista oggi a Palazzo Chigi Giavazzi, ma sostanzialmente a creare un sistema parassitario tra Stato e imprese.
Il contrario quindi di una politica di sinistra che premia il lavoro rispetto alla rendita: è invece necessario chiedersi a chi vanno i benefici dell’intervento statale.
Se quindi le sfide di oggi richiedono un coinvolgimento maggiore dello Stato nell’economia, non bisogna lasciarsi trascinare: come suggeriscono Acemoglu e Robinson, i problemi di un maggior intervento statale sono di natura politica. Più che chiedersi quindi Stato sì o Stato no, sarebbe meglio chiedersi: Stato sì, ma come?