Preservare la dignità delle persone e il confronto: come cambia la nostra policy social media
5 min letturaValigia Blu ha sempre creduto nella forza e nel ruolo dirompente dei social media per la democratizzazione del discorso pubblico.
Per il giornalismo, come per altri settori, ha significato aprirsi alla conversazione e al confronto, riconoscendo nei lettori una dimensione attiva, partecipativa e collaborativa che prima dei social media non aveva nessuna possibilità di esprimersi. Il discorso pubblico era saldamente nelle mani dell’oligopolio mediatico mainstream, quando non esisteva la disintermediazione e la comunicazione procedeva dall’alto verso il basso.
“Il giornalismo è conversazione”, il motto del critico dei media e docente di giornalismo Jeff Jarvis, è il cuore del progetto di Valigia Blu, del nostro modo di concepire l’informazione come un processo in cui l’ascolto è fondamentale.
Ecco perché sin da subito ci ha contraddistinto l’investimento in termini umani e di tempo nella moderazione sui social. D’altra parte chi legge e partecipa potrebbe saperne più di noi, come abbiamo sempre detto. E nel confronto con i lettori i contenuti possono arricchirsi, migliorare, aprirsi a nuove fonti di sapere. Anche per questo ogni nostro articolo ha una parte ben evidenziata per la segnalazione degli errori, e anche per questo cerchiamo di rispondere per quanto possibile a tutte le persone che ci contattano.
Tuttavia da molti mesi, soprattutto su Facebook, stiamo riconsiderando questo aspetto e stiamo riflettendo su alcune possibili alternative. Sempre più spesso, purtroppo, assistiamo non a confronti e scambi, ma a scontri e schermaglie continue, toni accesi e alterati prendono il sopravvento, ore e ore di discussioni senza senso. Dove le persone non sono viste e considerate interlocutori con cui confrontarsi, ma avversari da abbattere. Dove la posizione sostenuta e argomentata è in qualche modo una colpa da far scontare, o da smascherare.
Questo tipo di accanimento risulta particolarmnete odioso tanto più si trattano argomenti delicati - pandemia, emergenza climatica, guerra in Ucraina. Arrivare, per esempio, a mettere in dubbio stragi di civili e responsabilità di chi le compie, o chiedere “E l’Ucraina?”, significa pensare che persino i morti, persino il dolore straziante della vittima impotente di fronte al carnefice, sia qualcosa di arruolabile nelle crociate a colpi di tastiera. Significa non essere minimamente scalfiti dall’idea che, tra chi legge, potrebbe esserci una persona i cui familiari vivono in quelle zone, o che è fuggita da quelle devastazioni, e magari consulta pagine di informazione su Facebook per avere aggiornamenti.
Anche un semplice usare l’emoticon di risata come forma di derisione, in contesti così delicati, può invalidare o reificare il dolore e l’esperienza altrui, o semplicemente denigrare a monte il lavoro di chi scrive un articolo, e solo perché perché non rispecchia la nostra visione di mondo. Poco importa se, per farlo, dobbiamo passare sopra a un attivista prigioniero di guerra, o a fosse comuni.
Sono davvero molteplici gli esempi che potremmo fare a tal proposito, tuttavia preferiamo limitarci perché consapevoli che offriremo a questa arroganza e a questo disprezzo per ciò che è considerato difforme una visibilità immeritata. Siamo convinti che che questo rifletta problemi più gravi e profondi che la nostra società sta vivendo, in particolare negli ultimi due anni, e che nei social questi problemi manifestino sintomi più evidenti o che vadano in cerca di un rabbioso palliativo. Si è come rotto un argine che prima, in qualche modo, nella moderazione online era possibile mantenere: proprio perché coinvolti in questo processo da anni ce ne rendiamo conto sempre più ogni giorno che passa. Ciò non vale naturalmente per le campagne di diffamazione o di odio, quando si aizza la folla in base alla logica del “o con me o contro di me”; comportamenti deplorevoli che però rientrano in un’altra casistica.
Tutto questo non è sano, non fa bene a chi legge, né a chi coltiva così una pedagogia del cinismo e della comunicazione unidirezionale. Scoraggia le persone che si approcciano perché desiderose di informarsi. Drena energie ed entusiasmo per un progetto che non ha niente a che vedere con l’engagement a ogni costo come modello di affari (e Valigia Blu è un progetto senza scopo di lucro), ma sin dall’inizio si è configurato come un progetto culturale e politico nel senso più ampio e profondo del termine. Ed è anche per questo che abbiamo il dovere di riflettere sul nostro ruolo e il nostro contributo in contesto simile. Che senso avrebbe, infatti, passare ore e ore della giornata a rispondere a insulti, denigrazioni? Che senso ha impiegare risorse a questo modo, che reddito culturale e che arricchimento si produce?
Alla lunga si instaura una relazione con questa tipologia di pubblico per cui comunicare diventa un esporsi alla volontà di umiliare o sopraffare, e rispondere poi, a qualunque livello, comporta l’accreditare questa modalità. Il modo più costruttivo per relazionarsi, in questi casi, è quello di lavorare per sottrazione, anche solo per far capire che premere il tanto “invio” dopo aver digitato parole rabbiose non è un’azione gratuita, e che dall’altra parte può esserci qualcuno in grado di dire “no, non ci sto”. Per far capire che la conversazione autentica contempla la possibilità di uscire dalla propria comfort zone.
La casa di Valigia Blu, i molteplici spazi che la componono, non può essere una piattaforma per liti canagliesche, per rese dei conti, per scambi carichi di frustrazione, rabbia e odio. Non ce la sentiamo di continuare ad alimentare questo spettacolo indecoroso. Non ha nessun senso e sconfessa le ragioni profonde per cui il progetto Valigia Blu è nato e a cui continuiamo a dedicarci come forma di attivismo e impegno civico dopo più di 12 anni.
Dopo una prima fase di volontariato e dopo 7 anni di crowdfunding, si è creata intorno a Valigia Blu una ristretta ma solida comunità, con anime diverse ma che ha acconsentito a stare insieme sulla base di un patto di rispetto reciproco e la volontà di contribuire in maniera costruttiva alla discussione pubblica. Anche per onorare questo credito di fiducia, sentiamo il dovere di sottrarci.
Il giornalismo è conversazione e ne siamo pienamente convinti. Ed è per questo che abbiamo preso una decisione per noi radicale. Preservare la qualità di questa conversione è fondamentale, altrimenti si diventa complici di un meccanismo tossico, deturpante, che indebolisce il nostro stare insieme, non lo rafforza, che ci rende più fragili e incattiviti: uno sfregio al potenziale democratico che la dimensione digitale porta con sé. La qualità di questa conversazione va protetta. A noi non interessano like, engagement e traffico, interessa contribuire a una comunità online che possa riconoscersi in valori quali accoglienza, solidarietà, empatia, giustizia sociale. E questo attraverso contenuti e approfondimenti che ci possono aiutare a capire un po’ di più del mondo che abitiamo e ad avere maggiori strumenti per navigarlo.
Ecco perché, da alcune settimane a questo parte, per gli articoli che toccano temi più sensibili e su cui si creano le discussioni più accese, abbiamo deciso di restringere la finestra di tempo in cui è possibile commentare (di solito le prime ore dopo la pubblicazione su Facebook). Dopo questa finestra, viene chiusa la possibilità di commentare su Facebook: è comunque sempre possibile commentare sul sito, dove i commenti sono in pre-moderazione, via mail, o attraverso messaggio diretto ai nostri profili social. Anche in caso di flame eccessivi e prolungati, quando cioè gli sforzi di moderazione attiva sono ignorati da chi commenta, o quando la mole di commenti aggressivi ha una frequenza e una modalità sospette (ad esempio commenti pressoché identici, specie da account dubbi), provvederemo a chiudere i commenti in tempo reale, dandone tempestiva comunicazione nel thread.
Saremo sempre in ascolto, per migliorare grazie al confronto i nostri articoli, correggere eventuali errori, arricchire la qualità dei nostri contenuti, ma nel farlo non sacrificheremo le nostre energie o il nostro benessere come fosse una sorta di atto dovuto.