Pandemia e inquinamento, “Siamo a un bivio: oceani con più plastica che pesci o un modello sostenibile di vita e lavoro per un futuro più sano, equo e vivibile per tutti”
14 min letturaDa anni la scrittrice Lara Maiklem setaccia le rive del Tamigi per cercare reperti storici che il fiume conserva e restituisce lungo le sue sponde. È lì che ha trovato pipe di terracotta vittoriane, vasellame d'epoca romana, antichi pettini. Da quando è iniziato il lockdown nel Regno Unito, Maiklem ha detto a The Economist [qui la traduzione integrale su Internazionale] di aver raccolto grandi quantità di guanti in lattice.
In Francia, al largo del Golfe-Juan, vicino Antibes, il fondatore dell'ONG Opération mer propre (Operazione mare pulito), Laurent Lombard, ha pubblicato su Facebook un post in cui mostra sul fondo del mare diverse mascherine e guanti usa e getta, insieme ad altri rifiuti di plastica: «Sono passati solo pochi giorni e abbiamo queste maschere, in poco tempo ne avremo miliardi. Stiamo attenti perché siamo agli inizi di un nuovo tipo di inquinamento». A metà maggio, a soli tre giorni dall'allentamento delle misure di lockdown in Francia, gli addetti alle pulizie di Parigi si erano lamentati sui social per la quantità di mascherine lasciate sui marciapiedi della capitale.
A Hong Kong, Gary Strokes, a capo dell'organizzazione ambientalista OceansAsia che registra i livelli di inquinamento da plastica, ha trovato ogni giorno sulle spiagge delle isole Soko centinaia di mascherine chirurgiche smaltite in modo scorretto su una striscia di terra di cento metri. Strokes le raccoglieva e puntualmente a distanza di pochi giorni una nuova catasta di mascherine si era già accumulata sulla spiaggia, restituite dal mare.
In questi primi sei mesi del 2020 tutto il pianeta ha visto l'incremento dei rifiuti di plastica legati alla pandemia. A Wuhan, tra gennaio e marzo, la città ha dovuto gestire la produzione di 240 tonnellate di rifiuti sanitari al giorno, sei volte di più rispetto a prima che scoppiasse l'epidemia.
Le risposte alla crisi sanitaria hanno portato a un aumento del consumo di materie plastiche e alla generazione di rifiuti di vario genere – non solo medici – che hanno messo (e stanno mettendo) sotto pressione il sistema di gestione, trattamento e smaltimento eco-compatibile di questi rifiuti e generato un effetto a catena: più rifiuti di plastica per uso domestico sono prodotti, meno ne vengono riciclati, mentre il rischio che il personale impiegato nelle attività di riciclo dei rifiuti potesse contrarre il virus ha spinto diversi Comuni a fermare temporaneamente la raccolta differenziata, indirizzando più rifiuti verso gli inceneritori e le discariche.
Un effetto domino che, per quanto esito di una situazione straordinaria e delle particolari condizioni di vita imposte dal lockdown alle quali la popolazione mondiale ha dovuto adeguarsi, può avere ricadute dirette molto pericolose sull'ambiente e far perdere anni di passi in avanti nella riduzione della circolazione di plastica monouso e nell'incentivo all'utilizzo di plastiche più facilmente riciclabili da un punto di vista legislativo, industriale ed educativo, vanificando una serie di iniziative, dal locale al globale, che cominciavano a dare risultati concreti, sebbene ancora lontane dall'avere un impatto reale sulla salute dell'ambiente, scrivono Elisabetta Tola e Marco Boscolo su Il Bo Live.
Siamo di fronte a un bivio, commenta Kristin Hughes, membro del comitato esecutivo del World Economic Forum: "Da un lato, se continuiamo così, ci aspetta un futuro non molto lontano in cui negli oceani ci sarà più plastica che pesci; dall'altro, un modello sostenibile di vita e di lavoro che creerà un futuro più sano, più equo e più vivibile per tutti".
Come la pandemia ha portato all'aumento dei rifiuti di plastica
L'utilizzo di mascherine, visiere e guanti per ridurre le eventualità di contagio, il cambiamento delle nostre abitudini quotidiane in seguito al lockdown che hanno portato a un maggiore ricorso agli acquisti online e di cibo e merci imballate o imbustate, la minore inclinazione a differenziare i rifiuti (anche per la riduzione dei servizi di raccolta differenziata e il difficile smaltimento dei dispositivi di protezione individuale) e il crollo del prezzo del petrolio, principale componente della maggior parte delle plastiche, hanno contribuito tutti insieme all'incremento del consumo di prodotti di plastica durante questi primi sei mesi e mezzo di pandemia.
Il timore, condiviso da ambientalisti e attivisti, è che l'aumento dei rifiuti di plastica difficilmente riciclabili possa ulteriormente compromettere una situazione già critica, con ricadute sul pianeta difficili da definire soprattutto a medio e lungo termine. Secondo i dati più recenti a disposizione raccolti da Plastics Europe [ndr, l'associazione continentale dei produttori], scrivono Tola e Boscolo, a livello globale, nel 2018 sono state prodotte 358 milioni di tonnellate di plastica. In quasi 70 anni, secondo uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista scientifica Science Advances, nel mondo sono stati prodotti 8 miliardi di plastica.
Ogni anno, stima un rapporto delle Nazioni Unite, vengono scaricate in mare 13 milioni di tonnellate di plastica: come se giungesse un camion della spazzatura al minuto per versare nell'oceano tutta l'immondizia raccolta. Solo nel Mediterraneo finiscono ogni anno 570mila tonnellate di plastica, l'equivalente di 33.800 bottiglie di plastica al minuto.
L'impatto di così tanto inquinamento di plastica negli oceani è molto dannoso per la fauna marina, per il pianeta e per l'uomo con costi economici ingenti: ogni anno, prosegue il rapporto delle Nazioni Unite, si sprecano oltre 13 miliardi di dollari tra spese di bonifica e perdite finanziarie nella pesca e in altri settori.
Le plastiche finiscono in genere nelle discariche e negli inceneritori. Nei paesi a basso reddito, spiega a The Economist Inger Andersen, attuale direttrice esecutiva del Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), il 93% dei rifiuti vanno in discariche a cielo aperto. Da lì proviene buona parte della plastica che poi termina negli oceani. E anche gli inceneritori sono di solito di bassa qualità. L'incenerimento libera tossine, spesso non riesce a eliminare la plastica e lascia grandi quantità di nano e microparticelle che finiscono nell'aria o nelle falde acquifere e da lì negli oceani.
Una volta giunte sul fondo, le plastiche sono particolarmente letali per i sistemi di barriera corallina, vivai del mondo sottomarino, in grado di alimentare una gamma incredibile di organismi viventi e di proteggere le comunità costiere da forti mareggiate, venti e onde. Uno studio di pochi anni fa ha mostrato che, quando i coralli entrano in contatto con la plastica, la probabilità che sviluppino malattie aumenta dal 4 al 90%.
«Abbiamo appena cominciato a comprendere il potenziale impatto delle micro e nanoparticelle e il modo in cui possono penetrare nelle cellule degli organismi marini», spiega Dan Parsons, direttore dell’Energy and Environment Institute dell’università di Hull. «Le nanoparticelle di plastica potrebbero essere l’amianto dei mari».
L'uso della plastica per la produzione dei dispositivi di protezione individuale
Il primo effetto della pandemia è stato l'incremento del consumo di plastiche monouso a causa dell'utilizzo di prodotti per la casa e la salute personale che contengono plastiche, tessuti, metalli e parti elettroniche, come termometri, indumenti e salviette per la pulizia, detergenti, disinfettanti, guanti e mascherine.
Secondo Antonis Mavropoulos dell’International Solid Waste Association (ISWA), un'associazione che rappresenta le organizzazioni per il riciclo dei rifiuti di oltre 100 paesi, solo negli Stati Uniti c'è stato un incremento del 250-300%, in buona parte per la richiesta di mascherine, visiere, guanti. Secondo la Grand View Research il mercato delle mascherine usa e getta salirà dai circa 800 milioni di dollari del 2019 ai 166 miliardi nel 2020.
Le carenze delle catene di approvvigionamento di materiale medico-sanitario e l'enorme richiesta di dispositivi di protezione individuale ha fatto sì che s'innescasse una corsa globale per accaparrarsi i materiali necessari per produrre le mascherine e le visiere che garantiscono la sicurezza degli operatori sanitari e di altri lavoratori, spiega ancora Inger Andersen. I motivi per cui il ricorso alla plastica è aumentato sono comprensibili, commenta Dan Parsons: «La gente sa che la plastica aiuta a proteggersi».
Ad aprile, il Politecnico di Torino aveva previsto con l'allentamento del lockdown e delle misure di distanziamento fisico un fabbisogno di circa 76 milioni di mascherine chirurgiche al mese e circa 8 milioni di quelle definite di comunità, non chirurgiche, per la sola Regione Piemonte, e numeri 12 volte superiori per tutta l'Italia.
Le criticità sono di due tipi: la manifattura dei dispositivi e il modo errato in cui vengono smaltite. Ad esempio, riporta Euronews, le mascherine importate dalla Cina sono risultate composte da più strati di materiali o polimeri diversi, rendendo questi articoli difficili da riciclare. A questo si aggiunge la delicata questione di come eliminiamo guanti e mascherine. "Lo smaltimento errato di anche solo l'1% delle mascherine utilizzate potrebbe causare ogni mese la dispersione in natura di 10 milioni di mascherine. Considerando che ognuna di esse pesa circa 4 grammi, potremmo essere inondati da oltre 40mila chilogrammi di plastica", spiega il WWF nel rapporto.
Il boom del commercio online
Contestualmente, c'è stata una crescita notevole del commercio online. Circa 2,5 miliardi di utenti hanno visitato il sito di Amazon nel periodo in cui gli esercizi commerciali europei e statunitensi avevano interrotto le loro attività: il 65% in più rispetto all'anno scorso. Secondo il Peterson Institute for International Economics di Washington, i cinesi hanno acquistato online più del 25% dei beni materiali nei primi tre mesi dell'anno. Questi prodotti sono avvolti in plastiche del peggior tipo e contenuti in imballaggi di vari strati quasi impossibili da riciclare. In Italia, riportava Il Sole 24 Ore già a marzo, c'era stata una grande crescita degli acquisti online e dei prodotti confezionati. Secondo uno studio commissionato a maggio da Comieco (il Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica) all’Istituto di Ricerca SWG, il 33% degli intervistati ha dichiarato di aver modificato le proprie scelte d’acquisto a favore dei prodotti imballati e il 46% di chi prima dell’emergenza sanitaria comprava prevalentemente prodotti sfusi si è orientato verso quelli confezionati.
L'acquisto di articoli tramite piattaforme online e il ricorso al cibo d'asporto o imballato ha portato a un incremento dei rifiuti di plastica per le monodosi dei cibi pronti consegnati a domicilio. Ad aprile, la Foodservice Packaging Association del Regno Unito ha riferito che le tazze monouso e le posate monouso confezionate "erano molto richieste", mentre, stando a quanto dichiarato dalla British Plastics Federation, le aziende che forniscono imballaggi per alimenti e bevande, candeggina, sapone e medicine stavano operando al limite delle loro possibilità. Grandi aziende come Starbucks, Tim Hortons e Dunkin' Donuts hanno rinunciato a utilizzare materiale riciclabile mentre diversi supermercati e ristoranti (che potevano vendere solo cibo d'asporto) hanno optato per imballaggi in plastica. Molti pub britannici, quando era ancora possibile solo la vendita d'asporto, utilizzavano bicchieri di plastica, e una volta riaperti, hanno cominciato a usare posate confezionate singolarmente.
Gli impatti di questi articoli possono essere devastanti per l'ambiente. Secondo i dati raccolti (seppur difficilmente comparabili anche per i diversi sistemi di raccolta e smaltimento nei diversi paesi) da Conversio Market and Strategy, un'azienda tedesca specializzata nell’analisi e nella consulenza nel settore dell’industria plastica, la fonte principale dei rifiuti è, infatti, proprio la plastica usa e getta che proviene dal packaging, mentre una rilevazione di McKinsey & Company ha mostrato che l'86% degli imballaggi in plastica prodotti a livello globale non viene riciclato: questo significa che, ad esempio, un sacchetto di plastica utilizzato per trasportare un singolo articolo dal supermercato resterà in circolazione per diverse generazioni.
Il crollo del prezzo del petrolio
Infine, c'è stato l'impatto del crollo del prezzo del petrolio, principale componente della maggior parte dei tipi di plastica. Già prima di COVID-19, scrive Grist, ExxonMobil aveva affermato di puntare sulla plastica per compensare le perdite di profitto dalla transizione alle auto elettriche. Con la pandemia la plastica è diventata ancora di più un'ancora di salvezza per compagnie, come quelle petrolifere e del gas, messe in difficoltà dalle oscillazioni dei prezzi del petrolio e dal riconoscimento da parte dei governi praticamente di tutto il mondo dell'urgente necessità di ridurre le emissioni per contrastare i cambiamenti climatici e contenere il riscaldamento globale.
La riduzione dei costi di produzione ha abbassato il valore della plastica e reso un'opzione economicamente discutibile il ricorso a quella riciclata, spiega David Xi dell’università di Warwick. Ciò significa che molti marchi che avevano dichiarato di adottare pratiche più sostenibili e sostituire tutti o parte dei loro prodotti con altri in plastica riciclata, una volta superata la situazione d'emergenza potrebbero avere difficoltà a rispettare gli impegni presi. Di conseguenza, commenta Kristin Hughes, membro del comitato esecutivo del World Economic Forum, potremmo vedere le aziende ritornare sempre più alla produzione di plastica vergine incrementando i livelli già insostenibili di consumo e generazione di rifiuti di plastica che stavamo vedendo prima della pandemia. «Se questa sarà una tendenza a breve o lungo termine – aggiunge Eleni Iacovidou, docente di Gestione ambientale alla Brunel University di Londra – dipenderà dalla perseveranza dei governi e delle imprese nel mantenere gli sforzi per ridurre la produzione e il consumo di plastica monouso e aumentare i tassi di riciclo».
Gli effetti immediati della pandemia: la sospensione delle leggi per ridurre la plastica monouso
Prima dell'esplosione della pandemia erano state avviate diverse iniziative internazionali orientate a ridurre la produzione di plastica. A gennaio 2018 è stata lanciata la Strategia europea per la riduzione della plastica con l'obiettivo di trasformare i modi in cui i prodotti di plastica sono concepiti, realizzati, usati e riciclati e favorire la transizione verso un'economia circolare. Circa un anno dopo, il Parlamento europeo ha approvato la direttiva Ue sulla plastica monouso che prevede il divieto dell'utilizzo di prodotti di plastica monouso come bastoncini di cotone, posate, piatti, cannucce, bastoncini per palloncini, tazze, contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso. Le mascherine e i guanti usati dai medici non erano inclusi nell'elenco. La direttiva si poneva l'obiettivo di incrementare fino al 90% la raccolta differenziata di bottiglie di plastica entro il 2029 (il 77% entro il 2025) e portare entro il 2025 al 25% la percentuale di bottiglie di plastica riciclata (il 30% a partire dal 2030). Se attuate, nelle intenzioni dei legislatori, le misure avrebbero consentito di evitare emissioni equivalenti a 3,4 milioni di tonnellate di Co2 e danni ambientali con un risparmio di risorse pari a 22 miliardi di euro entro il 2030.
Nel frattempo, ricostruiscono Elisabetta Tola e Marco Boscolo, diversi paesi, inclusa l'Italia, erano in procinto di adottare la cosiddetta Plastic Tax, mentre in alcuni Stati degli USA erano state introdotte leggi contro i sacchetti e le cannucce di plastica. In Africa, infine, si segnalava la legge contro la produzione e utilizzo dei sacchetti di plastica in vigore in Kenya dal 2017, e una molto rigida in Rwanda dal 2018. L'Africa "è il continente con il maggior numero di disposizioni nazionali anti-plastica, con leggi attive in ben 34 paesi".
In questa cornice legislativa è arrivata la pandemia che ha costretto al ricorso praticamente sistematico ad articoli diventati all'improvviso indispensabili, come i dispositivi di protezione individuale, o d'uso quotidiano, come le tazze, i bicchieri, le posate nella ristorazione, prodotti in materiali spesso difficili da riciclare, che però fanno sentire protetti sui mezzi pubblici, sul posto di lavoro, nei ristoranti e nei negozi.
Per favorire l'utilizzo di questi oggetti, alcuni paesi hanno cominciato a rendere più blande le misure a favore dell'utilizzo di prodotti fatti da materiale di riciclo. Il governo del Regno Unito ha sospeso la tassa di 5 pence [6 centesimi di euro] sui sacchetti monouso per tutte le consegne di generi alimentari ordinate online in Inghilterra, mentre il Dipartimento dell'Ambiente, dell'Alimentazione e degli Affari Rurali (DEFRA) ha posticipato alla fine di ottobre 2020 il divieto di utilizzo delle cannucce di plastica, con l'intento di "ridurre il rischio di contaminazione”. Analogamente, negli Stati Uniti, in Oregon, è stato temporaneamente revocato il divieto di utilizzo dei sacchetti di plastica monouso, entrato in vigore l'1 gennaio 2020; in Massachusetts e Illinois è stato chiesto ai cittadini di non ricorrere alle borse riutilizzabili, perché ritenute meno sicure nonostante, secondo uno studio pubblicato dal New England Journal of Medicine, il nuovo coronavirus sarebbe in grado di permanere sulla plastica fino a 3 giorni e ancora di più su altre superfici.
La Scozia e la Slovacchia hanno rinviato di un anno (rispettivamente al 2022 e al 2023) l'introduzione dei container per depositare bottiglie, bicchieri e contenitori di plastica usati per poterli poi riciclare per consentire alle imprese (che li avrebbero realizzati) di avere più tempo per rispondere alla pandemia.
In questo contesto, si legge in un post sul blog del Programma Ambiente dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), numerosi gruppi di lobby della plastica hanno colto l'occasione per fare pressione a favore dei prodotti di plastica monouso. Ad esempio, lo European Plastics Converters (EuPC) ha pubblicato una dichiarazione in cui chiedeva di tornare indietro a prima che fossero introdotti i divieti sulle materie plastiche monouso e di ritardare l'attuazione della direttiva Ue sulla plastica monouso, citando i benefici sanitari delle materie plastiche monouso. Ma l'Ue ha respinto la richiesta.
Negli Stati Uniti, la US Plastics Industry Association ha richiesto al Dipartimento della salute e dei servizi umani di prendere posizione contro il divieto dei sacchetti di plastica. Ma le evidenze scientifiche alla base di queste iniziative sono deboli e c'è, in generale, ancora grande incertezza su quanto il virus permanga sulle diverse superfici. Mentre alcuni studi hanno messo in guardia contro la possibilità della trasmissione potenzialmente elevata di germi e microrganismi attraverso borse della spesa riutilizzabili, altre ricerche, come quella pubblicata su NEJM precedentemente citata, hanno sostenuto che COVID-19 rimanga attiva anche su superfici in plastica per un massimo di 3 giorni, significativamente più a lungo del cartone, ad esempio. Gli articoli in plastica monouso potrebbero quindi essere agente di contagio tanto quanto le loro alternative riutilizzabili, a seconda di come ciascuno di questi prodotti viene utilizzato. Tutto questo, conclude il post dell'OCSE, dovrebbe suggerire che ogni misura introdotta durante la pandemia debba essere temporanea.
Che fare?
Il rischio più grande che si potrebbe correre, scrive l'OCSE, è che il ricorso a prodotti di plastica monouso possa consolidarsi e non restare circoscritto al periodo della pandemia. Innanzitutto, come detto, a livello legislativo: la sospensione delle misure volte a contrastare l'inquinamento da plastica potrebbe essere reiterata negli anni, "ritardando la transizione verso stili di vita sostenibili e un'economia più circolare". Poi, ci sono gli impatti indiretti sulla popolazione. Sarà importante, un volta usciti dall'emergenza sanitaria, sensibilizzare nuovamente i cittadini sull'importanza di ridurre la produzione, il consumo e i rifiuti di plastica. Infine, sul piano delle politiche da adottare: nell'alveo della protezione della salute umana, accanto alla cura sanitaria, dovrà essere prioritario prendere in considerazione "gli impatti più ampi, come quelli sull'ambiente".
Prima di tutto, spiega Richard Thompson, professore di Biologia marina all'Università di Plymouth, che per primo ha coniato il termine "microplastiche" nel 2004, nel momento in cui si dispone un utilizzo di massa dei dispositivi di protezione individuale (DPI) si dovrebbe già pianificare come smaltirli. «I rifiuti nel mare sono generati dal modo in cui smaltiamo i DPI e la plastica in generale, non dal loro utilizzo. [I governi] chiedono a tutti i cittadini di camminare con una mascherina, ma questo va fatto in modo tale da non generare rifiuti. Dobbiamo consigliare le persone su come smaltire questi oggetti».
Dopodiché, prosegue il professore di Biologia marina, bisognerebbe fare un passo in avanti e progettare dispositivi di protezione individuale fatti di materiali più facili da riciclare: «Sono le basi della filosofia dell'economia circolare».
«I paesi dovrebbero cercare di sviluppare prodotti realizzati con lo stesso polimero, che possiamo rintracciare e raccogliere in contenitori monouso sigillati, dove possono essere disinfettati e riciclati», afferma Claudia Brunori, chimico dell'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA). I dispositivi di protezione individuale dovrebbero essere realizzati localmente con elementi di plastica riciclabili e riutilizzabili, aggiunge Mike Bilodeau, direttore regionale di PlasticOceans per l'Europa.
Alcune ONG, istituzioni e ricercatori stanno sperimentando su piccola scala a livello locale l'utilizzo di mascherine con una struttura fissa e filtri usa e getta. In questo modo, vengono smaltiti solo i filtri invece dei dispositivi interi. Nel Regno Unito, il gruppo di campagne anti-plastica A Plastic Planet, in associazione con le società di imballaggi sostenibili Reelbrands e Transcend Packaging, ha lanciato le prime visiere prive di plastica per il personale medico, realizzate in legno e cartone, entrambi riciclabili e compostabili.
Un'altra soluzione che si va facendo strada, spiegano Tola e Boscolo, è la sostituzione dei materiali di origine fossile con le cosiddette bioplastiche, tra le quali vanno distinti quei prodotti (come i sacchetti che finiscono nell'umido) che, terminata la loro vita, possono essere biodegradati, e altri articoli, sempre di plastica, che non sono necessariamente biodegradabili, ma che sono prodotti a partire da materiali biologici (e non dal petrolio). Secondo un rapporto di European Bioplastic, l’associazione continentale che rappresenta i produttori di bioplastica, il 46% delle plastiche bio-based (e il 59% di quelle biodegradabili) è impiegato come packaging e utilizzato, dunque, per i pasti take away, le monoporzioni o i sacchetti per le verdure.
La Commissione europea sta predisponendo degli standard per le materie plastiche biodegradabili ma, spiega ancora il prof. Thompson, senza un corretto smaltimento, anche questa soluzione non sarebbe la risposta adeguata per la riduzione dei rifiuti marini. «Un recente studio sulla plastica biodegradabile esposta a diversi ambienti ci ha mostrato che alcuni oggetti sono scomparsi rapidamente, mentre dopo quattro anni in mare era ancora possibile trovare alcuni di questi sacchetti» perché «i tassi di degradazione dipendono da molti fattori diversi, dal tipo di polimero utilizzato, ad esempio», e poi «i mari profondi, dove fa freddo e buio, sono diversi da una spiaggia». Per questo motivo, prosegue il professore, la cosa più importante è «il corretto smaltimento, secondo le linee guida delle autorità. Quando i rifiuti arrivano in mare, è troppo tardi».
Immagine in anteprima via Opération Mer Propre