Più in là del mio naso. Pensieri da Kabul
3 min letturaTesto e foto di Francesca Recchia
Non si finisce in Afghanistan, in Libia o in Siria perché “ti ci hanno mandato”. Bengasi, Kabul, Aleppo sono le destinazioni di percorsi ponderati, di scelte deliberate. Le motivazioni che conducono su queste strade sono le più disparate: l'idealismo, lo spirito di avventura, la fuga, l'ambizione, i soldi, l'autolesionismo, la curiosità, il desiderio di scoprire, conoscere, sapere; l'ansia della banalità. Ci sono poche verità, ma da una non c'è scampo: si vive, si viaggia, si lavora in posti come questi perché è quello che si vuole, perché è quello che si è scelto. E questa, come ogni altra scelta, insieme alle soddisfazioni, ha dei costi, richiede sacrifici e compromessi; diversi nella forma e nelle sfumature, ma non nella sostanza, rispetto a quelli di chi legittimamente sceglie di vivere una vita “sedentaria”. Si sacrifica la stabilità sull'altare della paura della noia; si diventa sacerdoti della ricerca (ogni tanto vien voglia di domandarsi chissà poi di cosa?) a spese della sicurezza.
È una scelta di vita, una come tante. Né meglio né peggio.
Vivo a Kabul da diversi mesi. Sono una scrittrice e ricercatrice indipendente. Non scrivo di guerra, non ho il giubbotto antiproiettile sotto al letto e non vado in cerca dell'adrenalina da trincea. Mi occupo di pratiche creative e di come queste prendono forma in paesi in conflitto. Mi interessano la creatività e la resilienza e mi interessa il ruolo che queste giocano nell'immaginare il futuro in paesi dove il presente offre solo violenza e incertezza. Sto scrivendo un libro e coordino la quarta edizione del premio di arte contemporanea per giovani artisti afghani. Sono fra i privilegiati che si svegliano la mattina e si dicono che sono fortunati perché sono dove vogliono essere e stanno facendo quello che desiderano fare.
Eppure la vita a Kabul non è semplice: sicuramente appassionante e affascinante, ma anche tanto faticosa. Ed è in questa fatica – emotiva, fisica, intellettuale, culturale – che si annida uno degli spettri che fanno parte della routine di questo genere di vita: l'autocompiacimento che è lì costantemente in agguato; un'arma a doppio taglio che protegge e accieca. Il narcisismo spesso scherma la paura, distrae lo sguardo da tutto ciò che di spaventoso ci aspetta nel mondo fuori e lo riproietta su noi stessi, sulle nostre imprese, sul nostro coraggio, ci fa guardare allo specchio e ci fa dire: “Dai dai, che stai andando bene”. Ma è un meccanismo subdolo che rende ciechi lentamente e scompiglia l'ordine delle priorità. Ed è così che la macchina narrativa si concentra sempre più su noi stessi e perde di vista la sua vera ragione d'essere.
Ci inorgogliamo di “dar voce” a chi voce non ce l'ha, senza renderci conto nel paternalismo intrinseco in un'affermazione del genere. Per fortuna che ci siamo noi a rischiare la vita, per fortuna che ci siamo noi a rivelare al mondo verità nascoste, per fortuna che ci siamo noi... E l'ego cresce e la paura della guerra viene messa a tacere – almeno per un po'. E con l'ego cresce una presunzione stile Blade Runner: “Ho visto cose che voi umani...” E ci sentiamo in diritto di giudicare la piccolezza delle preoccupazioni ordinarie, le scale di valori che non coincidono con le nostre, quella che dall'alto del nostro piedistallo consideriamo mediocrità. Precipitare in questo genere di cecità è la mia più grande paura ed è con questa che mi confronto ogni giorno.
Vivere in Afghanistan mi sta insegnando l'umiltà e la pazienza verso gli altri, ma soprattutto verso me stessa e verso i miei limiti. Sto imparando a mantenere lo sguardo fisso sulle motivazioni del mio lavoro, a mettere in discussione le ragioni di ogni parola che scrivo, ad accettare le sfumature del grigio e a ricordarmi che la mia presenza qui è transitoria e strumentale. Io sono a Kabul perché l'ho scelto e se la situazione precipita posso sempre fare lo zaino e tornare a casa. Qui la gente resta e va avanti, con serenità o con rassegnazione, ma sempre con determinazione. La guerra insegna che la vita continua. La gente nasce, muore, fa l'amore; le finestre tremano ogni volta che passa un elicottero; le bombe continuano a scoppiare. Eppure la vita continua. E io sono qui che racconto una storia.
Kabul mi sta insegnando che le storie che racconto possono al più essere un amplificatore e che, soprattutto, il mondo va serenamente avanti anche senza di me.