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Oltre Pio e Amedeo: una riflessione sul linguaggio che concorre a plasmare il nostro mondo

20 Maggio 2021 10 min lettura

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Oltre Pio e Amedeo: una riflessione sul linguaggio che concorre a plasmare il nostro mondo

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di Maurizio Mascitti

Di recente il programma Quarta Repubblica ha dedicato al caso Pio e Amedeo un altro servizio televisivo. Una giornalista di Rete 4 ha intercettato a Roma i due comici e ha chiesto loro di esprimersi di nuovo sulle polemiche che hanno investito il duo a seguito dell’ultima puntata di Felicissima Sera, il programma in prima serata ideato e condotto dai due comici. Nonostante la reticenza del duo c’è infatti chi insiste nel chiedere le loro scuse dopo il molto discusso monologo sul politically correct. Pio e Amedeo, tuttavia, si mostrano fermi e risoluti nelle loro idee, dichiarando di non volersi scusare in alcun modo. A detta dei due il loro obiettivo era semplicemente quello di spostare il focus dalle parole offensive alle intenzioni, e di consigliare l’autoironia come metodo per disinnescare la carica emotiva dell’offesa. 

In effetti, se si prova a ricostruire la linea argomentativa del loro monologo, i punti nodali del discorso di Pio e Amedeo sono proprio i due appena ricordati: la riduzione della denigrazione a una questione di intenzioni e l’autoironia come unica arma di difesa dall’hate speech. Per la precisione, Pio e Amedeo hanno sostenuto che la pratica del politically correct induce le persone in una falsa credenza, secondo cui «contano più le parole che le intenzioni, più le parole che il significato che ci metti dentro» (dal monologo, minuto 00:07). A detta dei due comici, termini come “negro”, “frocio”, “ricchione” non sarebbero espressioni intrinsecamente problematiche; tutto sta invece nell’intenzione del parlante, nel sentimento che sta dietro il proferimento di quegli epiteti. Ma se il problema è nelle intenzioni, se ne conclude che non c’è alcun motivo di censurare certi termini: «Ci sono parole che non si possono dire in televisione, – lamenta Amedeo – invece si dovrebbe poter dire tutto» (00:56). Dovremmo quindi essere liberi di scherzare sui luoghi comuni – come la presunta avarizia degli ebrei (05:28) – e di poter appellare certi gruppi sociali con gli epiteti che preferiamo; a patto che nel farlo, ovviamente, non vi siano cattive intenzioni. E quand’anche vi fossero, la soluzione ancora una volta non può essere la censura, ma solo l’autoironia: «Vi dicono “negro”? Voi ridetegli in faccia. […] Quando vi chiamano così non ve la prendete» (01:42).

Nonostante il monologo abbia scatenato le polemiche di alcuni rappresentanti delle comunità più sensibili a questi temi, l’opinione pubblica tutto sommato è divisa fra l’affermazione del diritto alla scorrettezza della satira e l’accusa di superficialità del monologo. Premesso che in questo caso parlare di satira è controverso, dato che la satira è una forma di discorso che dovrebbe muoversi dal basso verso l’alto, in una direzione che va dai più deboli ai privilegiati, e non il contrario; premesso questo, si diceva, il vero problema della performance del duo comico non è la superficialità, che tutto sommato è perdonabile. Il vero problema del monologo di Pio e Amedeo è che esso contribuisce a rinforzare una visione miope: quella che considera il linguaggio uno strumento di mera e passiva descrizione della realtà. 

Siamo abituati a pensare, infatti, che il linguaggio sia solo un mezzo attraverso il quale ci limitiamo a rappresentare e a riflettere la nostra realtà sociale. Se questa stessa realtà è sessista, antisemita o omofoba, il linguaggio si adatterà di conseguenza, producendo termini che ne riflettono le sfumature denigratorie. Di per sé però esso non aggiunge nulla, è neutro. Il linguaggio è solo uno specchio più o meno fedele, più o meno efficace nel riportare una realtà già data. Questa concezione riduttiva è ciò che informa, in maniera sotterranea, la riflessione di Pio e Amedeo sull’uso dei cosiddetti epiteti denigratori (slurs), e cioè tutti quei termini – come “negro” e “ricchione” – che veicolano disprezzo verso gli individui e i gruppi sociali di cui fanno parte in virtù della mera appartenenza dei primi ai secondi. Se la premessa fondamentale è che il linguaggio si limita a riflettere il già dato, allora è ovvio che il problema non sta nelle parole, «ma è tutto qua nella testa» (12:30), come dice Amedeo. Purtroppo però le cose non sono così semplici. 

Da diversi anni linguisti, filosofi del linguaggio e psicologi sociali hanno infatti dedicato molta attenzione al ruolo giocato dagli epiteti denigratori nel linguaggio d’odio. Questi termini, che d’ora in avanti chiameremo semplicemente slurs, sembrano possedere delle proprietà del tutto particolari; proprietà che sfuggono a qualsiasi visione ingenua che consideri gli epiteti denigratori delle “semplici parole”. Innanzitutto gli slurs sono espressioni che i parlanti generalmente percepiscono come più offensive rispetto ai peggiorativi standard (es. “idiota” o “cretino”). Per l’esattezza, alcuni studi empirici hanno dimostrato che, rispetto ai peggiorativi, gli slurs sono termini percepiti come più offensivi quando pronunciati in isolamento (Es. “negro” usato per appellarsi a qualcuno). Al contrario, quando inseriti in frasi minime (es. “Marco è negro”), il loro potenziale offensivo tende leggermente a scemare. Per spiegare questo fenomeno, i ricercatori sostengono che la componente descrittiva dello slur, e cioè il fatto che queste parole informino dell’appartenenza di un soggetto a un gruppo sociale (es. gli afroamericani), riesca in qualche modo ad attenuare, seppur parzialmente, il loro potenziale offensivo. Cosa che non accade nel caso dei peggiorativi standard.

Gli slurs sono inoltre termini che resistono più facilmente alla negazione rispetto ai peggiorativi standard. Si considerino le due frasi seguenti: (1) “Marco non è idiota” e (2) “Marco non è frocio”. L’impressione che si ha nel caso di (1) è che la negazione riesca a neutralizzare con successo tutto il potenziale offensivo del peggiorativo. In (2), al contrario, non sembra accadere lo stesso: la negazione riesce a bloccare solo la componente descrittiva dello slur, ma non la componente valutativa, che invece si proietta sul gruppo sociale di riferimento. In altre parole, anche quando si proferiscono enunciati come (2), non si è in grado di salvare dalla denigrazione l’intera comunità omosessuale. E se anche si cercasse di salvare l’innocenza di queste espressioni facendo appello alle intenzioni dei parlanti, alla maniera di Pio e Amedeo, il tentativo non avrebbe successo. 

Infatti, come nota certa letteratura, un’altra caratteristica di questi epiteti è la loro capacità di veicolare disprezzo a prescindere dalle intenzioni e dalle credenze del parlante che li proferisce. Questo fatto mette in difficoltà tutte quelle strategie che tentano di ridurre la carica offensiva degli slurs a una componente legata al tono del proferimento o al contesto; anche se, va detto, alcuni studi sembrano suggerire che la percezione degli slurs varii in base alla prospettiva che si assume, se quella degli in-group o degli out-group. 

Già solo da questo primo, scarno abbozzo dovrebbe risultare chiaro il fatto che gli slurs non sono espressioni sovrapponibili ai semplici insulti. Un fatto, questo, che ha spinto gli studiosi a cercare un’interpretazione che catturasse in maniera soddisfacente l’origine del loro potenziale denigratorio. Nonostante gli sforzi, però, tra i ricercatori non si è ancora raggiunto un giudizio unanime su quale possa essere l’interpretazione migliore. Secondo quella che nella letteratura filosofica viene chiamata “prospettiva semantica” degli slurs, ad esempio, gli epiteti denigratori avrebbero il loro contenuto offensivo come parte del loro significato letterale. In quest’ottica, spiegano gli studiosi, parole come “frocio” significano letteralmente “omosessuale e disprezzabile in quanto tale”. Non solo: per autori come Robin Jeshion, filosofa della University of Southern California, la semantica degli epiteti denigratori è funzionale alla loro capacità di disumanizzare gli individui bersaglio della denigrazione. Il punto dietro il ragionamento di Jeshion è che col chiamare una persona “negro” o “ricchione” non si comunichi semplicemente il proprio disprezzo, ma si stia di fatto esprimendo l’idea che quell’individuo non è pienamente meritevole del rispetto che si deve a una persona in quanto persona. In altre parole, che quell’individuo sia ‘meno’ che una persona. 

Questa tesi, che a primo impatto può sembrare impegnativa da sostenere, è suffragata in realtà da altri lavori, fra cui spicca l’articolo Genocidal Language Games (2012) della filosofa Lynne Tirrell. Nell’articolo Tirrell mostra in che modo gli slurs avrebbero svolto un ruolo di primo piano nel preparare il terreno a uno degli eventi più sanguinosi di fine secolo: il genocidio del Ruanda del 1994. Prima della mattanza che portò alla morte circa un milione di persone nel giro di tre mesi, Tirrell fa notare che l’ala estremista degli Hutu aveva iniziato a riferirsi ai membri dell’etnia dei Tutsi con due epiteti profondamente denigratori: “inyenzi” e “inzoka”. In lingua kinyarwanda questi termini significano rispettivamente “scarafaggio” e “serpente”, dunque i Tutsi erano di fatto paragonati ad animali non umani. Ma c’è di più. Nella cultura del Ruanda questi animali, e in special modo i serpenti, sono associati a pratiche simboliche molto precise. Una di queste, ad esempio, vuole che l’uccisione dei serpenti costituisca una sorta di rito di passaggio per i giovani ragazzi ruandesi, ai quali viene insegnato a recidere la testa dell’animale per poi farla a pezzi. Chiamare un connazionale “inzoka” significava quindi associare i Tutsi a un animale la cui uccisione veniva giustificata, quando non auspicata, da un retaggio culturale fortissimo. La tesi di Tirrell è che quindi gli slurs abbiano avuto un ruolo di action-engendering: essi hanno legittimato l’insorgere di comportamenti violenti non verbali verso i Tutsi. 

Ovviamente, nessuno sostiene che atti tanto efferati come i genocidi siano causati direttamente dall’uso di epiteti denigratori. Quello che Tirrell e altri studiosi cercano di far notare è che il linguaggio, lungi dall’essere una protesi inerte della comunicazione, è invece uno strumento di trasformazione della realtà. Cosa che sembra intercettare il risultato di alcuni studi, i quali dimostrerebbero come l’esposizione a epiteti omofobi favorisca (di nuovo, non “causi”) la disumanizzazione degli omosessuali e una presa di distanze nei loro confronti. 

Il linguaggio, dunque, concorre attivamente a plasmare il nostro mondo sociale, categorizzandolo in base ai nostri pregiudizi e stereotipi. Il fatto stesso che si inventino delle espressioni, come gli slurs, che sono volte a stigmatizzare un gruppo sociale in quanto tale, fa sì che si insinui nella comunità dei parlanti la sensazione che nello stigma, in fondo, ci sia qualcosa di naturale, qualcosa di normale. Gli epiteti denigratori hanno la capacità di normalizzare il disprezzo: se esiste una parola atta a ferire un certo gruppo sociale, allora deve esserci per forza una giustificazione dietro la sua esistenza. Siamo spinti inconsciamente a pensare che quel gruppo sociale meriti la denigrazione, che in qualche modo se la sia ‘guadagnata’. 

Allo stesso modo con il linguaggio possiamo proiettare i nostri pregiudizi fino al punto di creare un certo numero di aspettative attorno alle identità sociali. È il fenomeno del cosiddetto essenzialismo psicologico: un bias cognitivo che induce a credere che i membri di una stessa categoria condividano proprietà e disposizioni sulla base di una presunta natura sottostante (di un’essenza per l’appunto). Un esempio in tal senso è il luogo comune sull’avarizia degli ebrei, evocato proprio da Pio e Amedeo. Questo tipo di associazione è spesso veicolata da enunciati generici come “gli ebrei sono tirchi”; una classe di enunciati che è più volte stata oggetto di interesse dei linguisti, dato il suo forte potenziale essenzialistico. Questi enunciati infatti affermano che una categoria di individui possiede una certa proprietà, ma al contempo non specificano quanti membri di quella stessa categoria possiedono effettivamente la proprietà in questione; e nel nostro caso quanti ebrei siano davvero tirchi. Il risultato, secondo alcuni studi, è che i generici contribuiscano a formare nei soggetti l’idea che alcune categorie sociali abbiano per essenza certe attitudini o disposizioni. Oltre all’esempio di Pio e Amedeo, si pensi a quante volte nel quotidiano si è soliti imbattersi in asserzioni come «i musulmani sono terroristi» o «gli extracomunitari sono violenti». Ancora una volta siamo costretti a chiederci quanto possa essere fedele alla realtà una visione riduttiva del linguaggio come quella sottesa dal monologo di Pio e Amedeo.

Così come siamo costretti a chiederci se l’autoironia possa essere un modo di combattere gli epiteti denigratori. Gli slurs sono vere e proprie armi per ferire gli altri e per far loro del male, e una volta che abbiamo imparato a conoscerle non ci resta che deporle. Questo significa essere vittime del politicamente corretto? No, vuol dire soltanto capire quello che Eugène Ionesco, in una citazione forse spuria, riassumeva ironicamente così: «Solo le parole contano, il resto sono chiacchiere». 

Gli studi e le ricerche cui si fa riferimento nell'articolo:

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Immagine in anteprima via medium/@chacon.com

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