Da Pilato a Sinner, gli sportivi non ci devono nulla
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Si può essere felici per un quarto posto ai Giochi Olimpici? Questa innocente domanda, dalla risposta all’apparenza scontata, è divenuta argomento di dibattito dalle prime ore di luce di martedì 30 luglio, in Italia: la nuotatrice Benedetta Pilato, che ha chiuso alle spalle del podio per un solo centesimo nei 100 metri rana, si è detta lo stesso “troppo contenta” e ha descritto quel momento come “il giorno più bello” della sua vita. Pilato ha 19 anni e ai microfoni della Rai ha specificato che la sua gioia era dovuta al fatto che una gara del genere, solo un anno fa, non sarebbe stata in grado di farla. Un’intervista che l’ex-schermitrice Elisa Di Francisca, oggi commentatrice sempre per la Rai, ha definito “surreale” e criticato con una severità inspiegabile, ma potremmo pure dire “cattiveria”: “rabbrividisco”, “fatene un’altra, d’intervista”, per poi aggiungere ridendo “no, è bastata”, “i sottotitoli, ci mandasse una lettera”.
Le reazioni al commento di Di Francisca sono state altrettanto critiche nei confronti della due volte vincitrice dell’oro olimpico nel fioretto. Sia per la loro gratuità, sia per il contesto in cui sono arrivate, quello dei Giochi Olimpici, il cui “spirito” tanto sbandierato fin dalla loro rinascita alla fine dell’Ottocento sostiene che l’importante è partecipare. Il sogno utopistico di De Coubertin è oggi chiaramente solo uno slogan, in una manifestazione che da tempo abbraccia atleti e atlete più o meno esplicitamente professionisti e che muove talmente tanti soldi e sponsorizzazioni che ormai è sempre più difficile considerarla ingenuamente come una festa dello sport. A tutto ciò si aggiunge anche il fatto che Benedetta Pilato è una ragazza di appena 19 anni che dal 2022 porta su di sé le enormi pressioni di una che è stata capace di vincere, ancora minorenne, l’oro ai Mondiali e agli Europei.
Ma la questione non deve essere ridotta unicamente a un’uscita discutibile di una commentatrice in diretta tv: l’atteggiamento paternalistico e spesso accusatorio nei confronti degli sportivi e delle sportive è purtroppo frequente e generalizzato. Nel suo Caffè sul Corriere della Sera del 26 luglio, Massimo Gramellini accusava il tennista Jannik Sinner - “colpevole” di aver rinunciato a Parigi 2024 per una tonsillite - di essere uno di quei talenti “più costruiti che naturali” e pertanto di pensare di poter “funzionare solo quando la macchina del suo corpo risponde alla perfezione”. Il privilegio di scrivere di sport (come di qualsiasi altro argomento) dovrebbe andare di pari passo con l’onere di affrontare il tema con la dovuta serietà, e perlomeno conoscere i rischi che i medici sottolineano nel praticare l’attività agonistica quando si soffre di tonsillite. Ma, al di là di tutto questo, c’è una regola che dovrebbe essere sempre rispettata: non si giudicano le scelte che riguardano solo ed esclusivamente la salute altrui. Per estensione, si dovrebbe dire che le scelte riguardanti gli altri e loro soltanto - come ad esempio le scelte di carriera o, in questo specifico caso, legate alle prestazioni sportive - non andrebbero giudicate con eccessiva leggerezza.
Lo sport che non vediamo
Il nostro sguardo di spettatori e tifosi sullo sport andrebbe completamente destrutturato. Ciò che noi vediamo è la prestazione sportiva, che specialmente nel caso dei giochi olimpici si riduce a una manciata di secondi o pochi minuti. Questa è la punta dell’iceberg: alle spalle di tutto questo c’è una grande massa di lavoro e sacrifici che accompagnano la stagione degli sportivi e delle sportive. Josh Tarling, ciclista britannico di 20 anni, prima di correre la gara a cronometro dei Giochi di Parigi ha confessato che, in caso di medaglia, sarebbe andato a mangiare da McDonald’s e si sarebbe concesso un cioccolatino Lindor: due cose normalissime, che alcuni di noi mangiano magari anche più di una volta al mese, rappresentano un lusso per persone che devono attenersi a una rigida routine atletica e alimentare. Per la cronaca: Tarling è arrivato quarto, a meno di 2 secondi dal podio.
Circa un mese prima di conquistare l’oro nei 100 metri rana maschili, il 24enne Nicolò Martinenghi rivelava a Valerio Coletta su Esquire che una delle questioni spesso più sottovalutate del nuoto è quella mentale: “Sei da solo, non puoi parlare con nessuno, sei sott’acqua, non respiri neanche, è una solitudine diversa dalle altre”. Lo scorso 18 luglio Unai Simón, 27enne portiere della Spagna che ha da poco vinto gli Europei di calcio maschile, è stato operato al polso per una rottura del legamento: il problema era emerso mesi fa, ma d’accordo con il suo club aveva deciso di ritardare l’operazione per non dover saltare il torneo, e ha così convissuto (e giocato) con il dolore per diverse settimane. Tornando a Benedetta Pilato, la giornalista Lia Capizzi ha raccontato cosa c’è dietro la gioia per quel podio sfuggito di un niente: “Benny ha avuto problemi fisici. Ha iniziato a dubitare di se stessa. L'anno scorso ha stravolto la vita, ha lasciato la cuccia di Taranto per trasferirsi a Torino, nuova vita, nuovo allenatore”.
Le persone che vediamo in campo, in pista, in pedana e in piscina sono il risultato di fatiche, sacrifici, dolori e privazioni di cui noi individui comuni davanti allo schermo spesso non abbiamo non solo esperienza, ma nemmeno una vaga impressione. Valorizziamo gli atleti e le atlete unicamente in base alle vittorie, e pensiamo che la loro eccezionalità - ciò che li distingue dalle persone normali - siano queste ultime, quando in realtà è la capacità di sopportare quei sacrifici nel tempo. Specialmente in uno sport individuale, non essere al meglio in una gara olimpica può significare l’eliminazione, e quindi altri quattro anni di lavoro, nella speranza di arrivare ai prossimi Giochi in condizioni ottimali, cosa tutt’altro che scontata. Questo è un peso enorme, e non è un caso se negli ultimi tempi si stia parlando con sempre maggiore insistenza del problema della salute mentale nello sport, come dimostrano i casi di Simone Biles e Naomi Ōsaka.
Agli sportivi non si perdona mai nulla, a livello di opinione pubblica. Sinner, dopo la rinuncia a Parigi, è stato al centro delle polemiche perché - in estate, in un periodo di riposo anche per motivi di salute e dopo una lunga stagione di successi - si è permesso di andare in vacanza in Sardegna con la fidanzata. I calciatori sanno bene che, dopo una sconfitta, devono farsi vedere seri e gravi, mantenere un profilo basso ed evitare di pubblicare sui social foto in cui si divertono o si rilassano (il post più frequente, in questi casi, è una foto di un allenamento con una caption del tipo “Back to work!”), perché se no i tifosi leggeranno nel loro comportamento pigrizia, mancanza di professionalità e disinteresse per le sorti della squadra. L’ideale di atleta che i tifosi vorrebbero è probabilmente Uta Abe, la 24enne judoka giapponese che, inaspettatamente eliminata nelle prime fasi della competizione olimpica pochi giorni fa, è crollata a terra piangendo: il suo allenatore ha faticato a portarla via, perché Abe stentava a stare in piedi, si schiacciava il volto sul petto di lui ed urlava in maniera lacerante. È questo che vogliamo, come tifosi? Vogliamo vedere soffrire lo sportivo che ha “tradito” la nostra fiducia, perché altrimenti il tradimento diventerebbe doppio?
Essere tifosi migliori
Questa gratificante pornografia del dolore è l’aspetto più agghiacciante del nostro spesso malsano rapporto di spettatori e spettatrici di sport. Ma se potrebbe quasi essere tollerabile nel momento in cui è espressione esclusiva del tifoso, che di per sé non fa opinione - nonostante nell’epoca dei social i commenti del pubblico abbiano un peso molto maggiore rispetto al passato - è decisamente più grave vedere questo atteggiamento dilagare anche tra chi si occupa d’informazione, come nel caso di Gramellini o di Di Francisca (che, ulteriore aggravante, è pure un’ex-atleta). O come Lorenzo Vendemiale, che durante i Giochi di Tokyo di tre anni pubblicava un tweet sarcastico (poi rimosso) sull’eliminazione della schermitrice Rossella Fiamingo nella spada individuale, aggiungendo una vecchia foto di lei in vacanza con un’amica e nel commento “Rossella Fiamingo in lacrime dopo il flop olimpico: ‘Sono stati cinque anni durissimi’”.
Il problema di fondo è quello di credere che gli atleti e le atlete ci debbano in qualche modo qualcosa. Che, in quanto tifosi, siamo custodi di un sport che gentilmente appaltiamo a dei rappresentanti - gli sportivi - che hanno il dovere di onorarlo (ma soprattutto di onorarci) vincendo. Il fatto che lo sport alimenti in chi lo segue anche degli istinti nazionalisti non fa che peggiorare le cose: una sconfitta dell’atleta che rappresenta l’Italia è una sconfitta di tutti noi come popolo (qualunque cosa questo voglia dire), e diventa un’onta nazionale. Eppure, all’atto pratico, né una vittoria né una sconfitta di questi personaggi cambia minimamente le nostre vite (mentre cambia notevolmente le loro, anche in termini lavorativi e di guadagno). Nessuno di noi ha una qualche responsabilità nei successi di Sinner o di Paola Egonu: l’unico sacrificio che facciamo nei loro confronti è di accendere la televisione per seguirli, o in alcuni casi di pagare abbonamenti alle tv che trasmettono i loro incontri o per i biglietti, se vogliamo vederli dal vivo.
Essere soddisfatti e delusi per dei risultati sportivi è legittimo ed è nello stato delle cose, ma va tenuto presente un fatto inoppugnabile: gli unici veri artefici delle vittorie e le uniche vere vittime delle sconfitte degli sportivi e delle sportive sono loro stessi.
(Immagine anteprima: frame via Rai News)