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Per capire la guerra bisogna saper ascoltare i morti

20 Ottobre 2024 7 min lettura

Per capire la guerra bisogna saper ascoltare i morti

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“Se io non uccido l’altro” scriveva Capitini, “mi porto in un punto intimo di amore infinito per lui, e così posso fare per tutti: allora, io li sento come qualche cosa di più che esseri annientabili”. È così che i morti ci diventano presenti, ed è così che attraverso la morte scopriamo “questo atto di unità amore” che possiamo estendere ai vivi. Ho ripensato alle parole di Capitini leggendo Piedi freddi di Francesca Melandri, libro che parla della guerra in Ucraina e non solo. 

I morti parlano, a saperli ascoltare. Perciò desideriamo interrogarli sui nodi irrisolti, tenerli con noi attraverso le parole e le preghiere. Oppure la loro voce ci è insopportabile, come una ferita che non cicatrizza mai; allora ci infuriamo contro di loro, ci litighiamo persino, ne facciamo una malattia. 

Possono essere morti prossimi, nell’orbita degli affetti più intimi. Un genitore, un amico, una persona amata. Ma possono essere le masse sterminate di una guerra, mentre tra i cumuli di macerie si aggirano civili catapultati in un mondo dove l’unico orizzonte visibile è la sopravvivenza. Masse che a distanza comprimiamo in statistiche e impossibili geometrie nel tentativo di rendere intellegibile l’orrore. O che da vicino azzannano i nostri crani e non mollano più la presa.

Quando c’è un tale annientamento dispiegato, le azioni dei vivi e la loro testimonianza diventano fondamentali. I morti di una guerra sono un cataclisma; a distanza spesso elaboriamo quel frastuono arruolandoli in battaglie che urlano più forte del nostro smarrimento, usando i simboli che abbiamo a disposizione per contenerlo.  

Dallo scoppio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, poiché quei morti non sono arruolabili sotto l'insegna di un certo anti-imperialismo (contro gli Stati Uniti, contro la NATO), ai vivi di quel paese buona parte - troppa - dell'opinione pubblica italiana ha detto “la vostra non è resistenza”, “siete marionette degli americani”; persino “siete nazisti”. I vivi ucraini non si arrendono, e a molti italiani ciò appare una colpa imperdonabile. Non è un caso se l’ANPI a un certo punto è passata dalle iconografie partigiane ai manifesti per la liberazione a base di bandiere della pace, colombe e articoli 11 della Costituzione. O se posizioni come quella di Carola Rackete, eurodeputata favorevole da sinistra ad armare gli ucraini, scatenino mal di pancia e astrusi sofismi.

Piedi freddi è rivolto a noi che abbiamo vissuto sempre in un mondo protetto dallo scudo della pace, e che da sotto quello scudo giudichiamo la guerra in Ucraina, o le guerre in generale. Melandri affonda il bisturi in varie piaghe, tra cui una sinistra che del comunismo sovietico ha una cognizione estetizzata, o troppo astratta, ed è perciò incapace di problematizzarne la dimensione imperialista incarnata oggi dalla Russia di Putin; tanto da reprimere il trauma che può riaccendere in chi ne ha vissuto gli orrori attuati in nome dell’utopia. Esemplare nel libro il ricordo dell’insegnante comunista che a scuola spiegava l’Holodomor come “la liquidazione dei kulaki come classe”: un genocidio ridotto a dei Mazzarò di cui liberarsi in nome del popolo.

Per parlare della guerra in Ucraina, Melandri parte dal presente e va a ritroso nel tempo, fino a ripercorrere la storia personale di famiglia. Interroga i propri, di morti, quelli che la guerra l’han vissuta. Il personale è politico, e così le storie personali sono fiumi che sfociano nell'oceano dell'umanità. Perché noi italiani la guerra in Ucraina l’abbiamo conosciuta molto prima del 2022, o del 2014. Eravamo là negli anni ‘40, e tra i soldati mandati al fronte per la Campagna italiana di Russia c’era anche il padre della scrittrice.

Franco Melandri andò infatti a combattere in Unione Sovietica con il corpo degli alpini, quando l’Italia stava “dalla parte sbagliata della storia”. Uno degli obiettivi di quella sciagurata marcia verso est era “la Guerra del pane”, e il succulento granaio verso cui il regime fascista aveva puntato gli occhi era proprio l’Ucraina. Quella campagna fu una disfatta che prese il nome di “Ritirata di Russia”: una comoda maschera di sofferenza vittimista dietro cui celare il nostro ruolo di invasori colonialisti. 

I “piedi freddi” del titolo sono quelli congelati al fronte, che Franco Melandri riesce a salvare grazie ai valenki, gli stivali tradizionali russi. Sono quindi la lezione di vita appresa in quelle terre invase: “Non c’è male al mondo peggiore che avere i piedi freddi”. Ma, prendendo in prestito dall’inglese e pensando al presente, “piedi freddi” indica anche una mancanza di coraggio che fa tornare sui propri passi, affondandoli nell'ignavia. Un atteggiamento molto diffuso in Italia, chiusa in una bolla autoriferita che la fa sembrare sempre più una bellissima terra maledetta, affollata da troppi scribi e farisei. 

È questa una delle intuizioni più significative che animano il libro: lo scovare un filo nel nostro negare all’Ucraina il ruolo di paese invaso, ieri come oggi. Un po’ come quelle famiglie in cui i traumi di ieri pulsano sotto le disfunzionalità del presente. Per seguire quel filo, l’autrice si discosta dalla forma romanzo dei lavori precedenti, e adotta una struttura ibrida, moltiplicando le prospettive e illuminandole con un raggio di grazia letteraria. C’è l’attenzione fattuale per la guerra, affrontata con taglio da saggista: i massacri, gli stupri, le deportazioni di minori e le fosse comuni sono il paesaggio che fior fior di giornalisti e intellettuali han chiamato in molti modi infami, e che Melandri rimette in fila com’è giusto che sia. C’è una vocazione civile che si palesa nella pluralità conflittuale, un corpo a corpo con le piccole meschinità e le contraddizioni del presente, i subdoli narcisismi:

“Mai più guerra!” abbiamo detto per ottant’anni. Pensavamo che dirlo fosse un impegno specifico, concreto. Che significasse: “Non tollereremo mai più aggressioni militari, né guerre genocidarie né invasioni di eserciti, le combatteremo con ogni mezzo, difenderemo il diritto internazionale basato sulla inviolabilità dei confini senza il quale non può esistere la democrazia.” In realtà stavamo solo dicendo: “Se arriva la guerra non ce la vogliamo trovare davanti. Che sia solo altrove, grazie. Che la guerra non ci riguardi, se non per un vago e compiaciuto afflato di compassione oceanica per sofferenze lontane.” Oceanica, appunto, solo perché lontane. [...] La nostra onnipotenza è minata. Siamo fastidiosamente chiamati a mettere in pratica i principi che per decenni abbiamo sbandierato. Anzi, peggio: per difendere quei principi siamo chiamati addirittura a pagare un prezzo! Allora ecco che molti si sono chiusi in un bunker dove cercano protezione da questo bombardamento di dura realtà, e quel bunker lo chiamano Pace”.

C’è, infine, una donna che intraprende un dialogo impossibile con il padre morto, un “tu” evocato e soprattutto interrogato a più riprese, con quegli interrogativi umanissimi che sorgono mentre se ne ricostruiscono i passi. Più che a una discesa infera, assistiamo a una compresenza emotiva e intellettuale che permette di parlare degli altri morti, quelli della guerra attuale, così come dei vivi. Questa operazione non è certo indolore, perché tra le colpe dei padri che ricadono sui figli ci sono anche omissioni e bugie. I panni sporchi non si dovrebbero lavare in piazza, recita una morale molto in voga; figurarsi su pagina.

Dopo il fascismo, Franco Melandri è diventato giornalista, e alla Ritirata di Russia dedicò un romanzo, Ritorno col matto. Libro in cui sono le reticenze a parlare, in particolare se confrontate con il lavoro di ricostruzione a posteriori della figlia, che quell’opera l’ha riletta più volte, incrociandola con aneddoti, documenti e ricordi, srotolando una matassa che altrimenti sarebbe rimasta un grovigliaccio in un cantuccio del passato. Dove stavano nascoste varie scomode verità, tra cui la partecipazione ad altre campagne militari. 

Franco Melandri fu “educatamente fascista”, secondo la definizione che ne dà in Piedi freddi il giornalista ed ex partigiano Massimo Rendina. E l’autrice, che dal padre ha ereditato “l’interesse” (“se non addirittura ossessione”) per “le pieghe nascoste e tra loro non comunicanti della realtà”, ha bisogno di capire dove è stato per tutto quel tempo il fascismo del padre, una volta finita la guerra: 

Insomma, papà, dove l’hai messo il tuo fascismo individuale, quando quello collettivo era finito? Ti è restato dentro come un virus nascosto ma capace in ogni momento d’infuocarti i gangli vitali? O è scomparso come una brutta infezione, sconfitta dai globuli bianchi delle tragedie personali e collettive?

I morti ci parlano, ma non rispondono alle nostre domande. Eppure questa lotta che ingaggiamo, figlia di un amore profondo è tutt’altro che inutile, poiché eleva lo sguardo e dona una insperata lucidità. Avere i piedi caldi, ad esempio, è una fortuna non da poco nel mondo. E il contrario di “guerra” non è una parola, ma un concetto: 

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L’opposto della guerra non è la pace a qualsiasi costo, bensì lo Stato di diritto. Sono le leggi che impediscono al bullo di picchiare il debole, e che proteggono quest’ultimo dalla sua prepotenza. Ma lo Stato di diritto non è solo un concetto giuridico o politico; è innanzitutto un’aspirazione. 

“Come ci comporteremo, se un giorno la guerra smetterà di essere una serie tv e diventerà maledizione di vita vissuta? Che scelte faremo, quando la Storia verrà a rubarci le chiavi di casa?” domanda l’autrice. Sono domande che interrogano noi vivi, che nelle nostre “tiepide case” ci crediamo al sicuro da un futuro possibile o da un presente distante. Se c’è qualcosa che ho appreso dalla guerra in Ucraina, dalla sua ricezione in Europa e in particolare in Italia, e che la lettura di Piedi freddi mi ha ricordato, è che l’empatia non è un istinto o una pulsione. È qualcosa cui ci si educa, e questa educazione - così come la sua assenza - ha un valore politico, specie quando è così facile mostrarsi educatamente anti-ucraini.

 

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