Piccolo viaggio nel mondo di Alain Bashung
4 min letturaNon che gli anniversari (di nascita, morte, uscita album etc) mi facciano particolarmente impazzire (un po' come le classifiche). Quello che ormai è entrato a pieno titolo nelle rubriche giornalistiche, al pari di “politica”, “cronaca”, “sport”, è un appuntamento quotidiano che ci invade (e col quale invadiamo) la socialsfera.
Chi è morto oggi? Chi è nato? E i tributi si sprecano, dai film in sequenza alle riedizioni di album importanti, fino ai doodle di Google, ogni giorno siamo invasi dai ricordi, dalle foto, dalle immagini e dai video muiscali che ci ricordano di non dimenticare. Ed è per questo che oggi, allineandoci al bisogno di non dimenticare, mescolato a quello del “far conoscere” parleremo di uno dei maggiori cantanti francesi di questi ultimi anni: Alain Bashung.
Sfrutteremo il fatto che giovedì scorso sono stati 4 anni che è morto (quindi, vista la data d'uscita, sarà un articolo di finta ricorrenza), ma sono sicuro che nessuno ha invaso le vostre bacheche, perché Bashung, in Italia, non lo conosce praticamente nessuno. Sarà perché se proprio dobbiamo guardare all'estero preferiamo gli artisti anglofoni, sarà che è nato qualche anno dopo gli anni d'oro del cantautorato francese (quelli, ad esempio, della famosa foto con Brel, Brassens e Ferrè), sarà che canta in francese, appunto (ma la Piaf, Gainsbourg e quelli citati precedentemente non lo fanno?) o sarà che Bashung non è un tipo semplicissimo e anche in patria ha rotto un po' gli schemi, modellando la lingua, innovandola nella forma canzone, riuscendo a non ripetersi e non ripetere il successo (o l'insuccesso) dell'album precedente, dando, così, ai palati degli amanti del rock d'oltralpe sempre un prodotto nuovo.
Per parlare di questo artista potremmo partire da tante cose, ma proviamo a farlo partendo dalle due settimane prima della sua scomparsa, dovuta a un cancro di cui si era accorto poco più di un anno prima. Bashung è invitato, come ospite e come candidato a diversi premi, ai Victoires de la musique, i premi musicali dell'anno in Francia. Lui non sta bene, è stanco, sfibrato, ma accetta di cantare e di farlo dal vivo, in diretta e senza playback. Canta Residents de la Republique, brano tratto dal suo ultimo lavoro, datato 2008, “Blue Petrol” e nominato nella categoria miglior canzone. Bashung sale sul palco e lo si vede quasi in bilico, col suo immancabile cappello in testa, magrissimo, con una voce in equilibrio precario sin dall'inizio, ma con i suoi immancabili gesti, la sua armonica e le sue mimiche facciali, a nascondere una difficoltà che affiora ogni tanto nella voce che si spezza.
Pochi minuti che rimarranno gli ultimi della sua carriera ripresi in tv e che terminano con un'ovazione del pubblico per un artista che ha segnato un pezzo di storia della musica francese. È da lì che voglio partire perché è là che si capisce la grandezza di un artista e il suo amore per la musica e il suo pubblico. Un amore che lo ha portato a cantare fino all'ultimo, perché è sul palco che Bashung amava vivere: “Sul palco è sempre stato più che un insieme di canzoni. È una specie di teatro in cui sono portato dai musicisti”, dirà.
Quindici giorni prima di morire, dunque, si chiude il penultimo capitolo della vita di un musicista che è riuscito, ha fallito, senza però mai perdere la coerenza. Quella di rinnovarsi, sperimentare, provare, muovendosi, però, sempre nell'ambito di quel rock anglofono del quale si innamora da bambino. Musica che gli cambierà la vita dopo aver fatto breccia nonostante il piccolo paesino e la poca possibilità di ascoltarne. Di quel rock e della musica Usa/Gb se ne attornierà durante tutta la sua carriera, non solo nelle sonorità, ma anche nei collaboratori con cui di volta in volta lavorerà: tra gli altri Micheal Brooks dei King Crimson, Marc Ribot, storico collaboratore di Tom Waits e del nostro Capossela, Colin Newman dei Wire, Dave Ball dei Soft Cell, Arto Lindsay ma anche Blixa Bargel degli Einsturzende Neubauten e altri musicisti internazionali.
Mescolare le esperienze, riunire attorno a un tavolo francesi, inglesi e americani, farli parlare, farli suonare, e poi servirsi del risultato, portarlo all'estremo, e soprattutto modificarlo, perché le regole erano chiare fin dal principio: i collaboratori apportavano la propria esperienza ma l'ultima parola era sempre del “capo” che piacesse o meno, e se inizialmente qualche bocca si storceva, alla fine il risultato (artistico e di critica) metteva tutti d'accordo.
Ma, ovviamente, Bashung faceva parte di una tradizione e di quella se n'è servito, come quando chiese aiuto a Serge Gainsbourg per l'album “Play Blessure”: “Pensavo potesse portare delle parole nuove, più selezionate. Mi proponeva talvolta delle cose che non mi convincevano tanto: lui aveva l'abitudine di scrivere per delle donne e spesso le sue parole suonavano meglio in bocca a una donna”, ma ne esce uno dei suoi migliori album. Francesi che tornano quando parliamo dei parolieri dell'artista francese; due quelli storici: Boris Bergman e Jean Fauque, a cui si aggiunge Gaetan Roussel, leader dei Louise Attaque, che collabora a Bleu Petrol. Amici, collaboratori che l'hanno aiutato nel portare una ventata di freschezza nella tradizione, appunto, francese.
Canzoni più commerciali, come i successi Gaby oh Gaby, Vertige de l'Amour, Angora, Osez Joséphine, Volontaire o la bellissima La nuit je mens, che si alternavano ad album come “Novice”, oscuri e claustrofobici eppure bellissimi. Ma Bashung, appunto, si divertiva a cambiare e così fa anche nel trittico che chiude la sua carriera. Dal miglior cantato della sua esperienza in “Fantasie militaire” si passa a un album quasi completamente parlato, “L'imprudence” (tanto da far scrivere Christophe Conte su Les Inrocks: “Su Fantasie Militaire Bashung non aveva mai cantato così bene, su L’imprudence non ha mai parlato così bene”) fino al folk, questo sì in chiave americana, di Bleu Petrol, dove troviamo anche un omaggio, ovvero una versione in francese di Suzanne di Leonard Cohen.
Ci voleva un anniversario (passato) per parlarne? No. Ma a volte serve. Perché se i De Andrè, i Battisti, i Ciampi etc li ricordiamo e ascoltiamo continuamente, ce ne sono tantissimi di cui veniamo a conoscenza per puro caso. Questo potrebbe essere un puro caso, appunto. E dato che ci troviamo vi ricordo che quest'anno saranno anche 10 anni dalla morte di Elliott Smith, un altro artista fantastico che non gode, secondo me, della conoscenza che merita, nonostante la colonna sonora di Will Hunting - Genio Ribelle che gli valse la candidatura all'Oscar nell'anno più sfortunato... quello di Titanic e Céline Dion.