Il piano di Trump per Gaza si chiama pulizia etnica
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Chissà se il presidente statunitense Donald J. Trump se ne è reso conto. Il suo è stato davvero l’ennesimo gesto all’interno del ‘caos programmato’ di queste prime due settimane di seconda presidenza trumpiana? Oppure ha compreso il peso specifico delle sue parole, di tutte le sue parole pubbliche? In primis, le parole pronunciate nello Studio Ovale della Casa Bianca, nell’incontro con Bibi Netanyahu (sotto mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità e crimini di guerra da parte del Tribunale Penale Internazionale-ICC). E poi, di seguito, le parole pronunciate in conferenza stampa, sempre di fronte a un Netanyahu visibilmente colto di sorpresa, quasi allibito, quando ha ascoltato il piano per una Gaza svuotata e trasformata, ipoteticamente tra qualche anno, nella nuova Riviera del Mediterraneo orientale.
I piccoli retromarcia di poche ore dopo, affidati a portavoce e fonti ben informate, fanno parte di una strategia alla quale Trump ci ha già abituato. Lancio ballon d’essai, spiazzo i miei interlocutori, inizio una trattativa da una posizione di forza. Sono, però, retromarcia che tolgono poco al quadro di fondo, che dice molto di quello che il presidente statunitense pensa di Gaza, e del coinvolgimento degli Usa (amministrazione precedente e al potere).
Torniamo, dunque, alle molte parole gettate da Trump in pubblico durante la visita di Netanyahu. “Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza, e ci lavoreremo su. La possederemo”, ha detto Trump, alla lettera, usando un verbo che dà il senso della proprietà, e che sorprende molto, anche sul lato israeliano. Per possedere la Striscia di Gaza e lavorarci, i palestinesi non ci possono rimanere. Devono andarsene. E poi la Striscia, ora inabitabile, sarà ripulita dagli esplosivi e dalle macerie, e diventerà una Riviera sul Mediterraneo. Cannes, insomma, al posto dell’altra leggenda metropolitana degli scorsi decenni ma reiterata persino in questi ultimi mesi, che cioè Gaza sarebbe potuta diventare la Singapore del Mediterraneo, se solo i palestinesi avessero voluto. O meglio, fossero stati più accondiscendenti.
Quello che ha detto, però, ha bisogno di un altro livello di lettura. Gaza è effettivamente inabitabile, resa inabitabile da quindici mesi di costanti, devastanti bombardamenti delle forze armate israeliane con bombe di fabbricazione statunitense, inviate per quindici mesi dalla precedente amministrazione, secondo una scelta politica guidata da Joe Biden e realizzata, in particolare, da Anthony Blinken. La deportazione dei palestinesi da Gaza, che dunque configura un altro crimine contro l’umanità, realizzerebbe l’idea primigenia della nuova destra israeliana guidata da Bezalel Smotrich (sostenuta ora dalla maggioranza del paese) di svuotare la Striscia, e magari anche la Cisgiordania. In questo modo, si completerebbe la pulizia etnica iniziata con la nakba, la catastrofe del 1948. Il peso umano dello svuotamento di Gaza dovrebbe ricadere sui paesi arabi, come già avvenuto nel 1948. Allo stesso modo, sia pure con parole più riservate ma altrettanto miopi, questo era stato chiesto da Blinken all’inizio della guerra su Gaza, verso la metà di ottobre del 2023, agli alleati della regione, Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Emirati. Richiesta respinta al mittente, e senza appello.
Gli Stati Uniti, e di conseguenza non solo Trump e la sua presidenza, sono parte in causa di tutta questa storia. Anche in termini di responsabilità giudiziaria all’interno della legalità internazionale, dei diritti violati, del sostegno alla guerra israeliana su Gaza. Non si spiegherebbe, per esempio, perché il nuovo/rinnovato inquilino della Casa Bianca si soffermi su un dettaglio, e cioè la necessità di ripulire la Striscia dagli esplosivi, tonnellate di esplosivi. Vuol dire, anche, ripulire tutto da una probabile scena del crimine, necessaria per comprendere per esempio – da parte degli investigatori internazionali - cosa è stato bombardato e in che modo. Siti militari oppure ospedali e panifici e scuole e infrastrutture? Bisogna, quindi, entrarci a Gaza, e assumersi il compito principale di svuotare, ‘ripulire’ il territorio dalle macerie, e ricostruire.
Del genocidio, della scena criminis, non devono rimanere prove e tracce. Sin qui, insomma abbiamo scherzato. E la popolazione palestinese, la popolazione nativa della Palestina che, in parte, ha dovuto trasferirsi a Gaza per la Nakba del 1948, la popolazione che fa dell’appartenenza alla terra il cardine della propria storia, non può rimanere nella Striscia, e secondo questo progetto non ci potrà neanche tornare. Vorrebbe dire conservare memoria anche del genocidio, essere testimoni dei crimini, rivendicare giustizia. È, questa, una chiave di lettura necessaria che va oltre il ruolo dei paesi arabi.
Ciò non vuol dire, ed è già evidente, che i paesi arabi siano solo sul fondo del tragico palcoscenico di questa storia. Ci sono, eccome, in una posizione sempre più delicata, ma non per questo senza possibilità di usare leve importanti nei confronti degli Stati Uniti. Soprattutto verso Trump, che della normalizzazione israeliani-arabi (del Golfo) ha fatto il centro della sua narrazione in Medio Oriente, considerata – da lui – ancora oggi vincente.
Oltre gli Emirati, il coinvolgimento di Arabia Saudita e, per altri versi, del Qatar è stavolta centrale. In tutti e tre i casi parliamo di paesi per i quali la leva del ricatto economico non funziona. Può funzionare (ma fino a che punto?) per Giordania ed Egitto, che hanno alzato il muro sulla questione delle quote di palestinesi da prendere, sempre con l’obiettivo di svuotare Gaza. Quando però, si pensa di normalizzare l’area attraverso Abu Dhabi, Riyadh e Doha, la leva economica non solo è spuntata, ma deve per forza prevedere un contraltare politico importante. Nessun vassallaggio, insomma, per paesi che guardano a ovest così come guardano a est, verso l’Indo-Pacifico, e che – alcuni tra loro con forza - sono presenti anche come investitori dentro gli Stati Uniti. Ed è qui che la questione israeliano-palestinese, e in particolare il lato palestinese, assume tutta un’altra valenza, anche in termini negoziali.
Trump porta la questione israeliano-palestinese in un terreno incognito, ancor più pericoloso. Da ieri Trump aggiunge un tassello tanto involontario quanto rilevante. La descrizione del ruolo degli Stati Uniti a Gaza mette, infatti, mette in posizione subalterna anche Israele. In maniera paradossale, assesta un colpo alla legittimità di Israele. Colpo involontario, ma chiarissimo. Confermato dalle immediate reazioni all’interno di Israele, soprattutto da parte del minoritario fronte pacifista. Sono reazioni che dicono: è un piano impossibile da realizzare, l’unica via di uscita realistica è che siano i protagonisti sul campo, israeliani e palestinesi, a tirarsi fuori da soli dalle macerie etiche e politiche di questi (disumani) sedici mesi.
Il presidente Usa afferma, invece, di essere dentro questa storia assumendosi la responsabilità di Gaza. E Israele, quale ruolo avrebbe in questo progetto veterocoloniale? Questo è il nodo cruciale: la frase di Trump dà alla lettura di Israele come ultimo stato coloniale d’insediamento, già elaborata da tutta l’intellighentsjia palestinese e da buona parte degli studi internazionali di area, un sostegno che mai avrebbero pensato, e men che mai desiderato.
La retorica trumpiana, dunque, usa un armamentario anacronistico, visto che, almeno dal punto di vista formale, la legalità internazionale proibisce e sanziona tutto ciò che Trump vorrebbe fare. Non può essere uno Stato, neanche una superpotenza, a decidere la deportazione di una popolazione, per giunta nativa, da un territorio: è un crimine contro l’umanità. Non si può occupare un territorio (Gaza), né deciderne il futuro. Non si può bypassare l’Onu, tagliare i finanziamenti alle sue agenzie, e addirittura disconoscerne il ruolo, senza che vi siano dei contraccolpi.
Israele, in questa retorica trumpiana, è decisamente subalterno. Cosa che, però, non preoccupa la destra razzista e il cosiddetto centro-destra, che ne vede i guadagni senza accorgersi di quanto queste parole incidano sulla legittimità dello stato. La chimera della Grande Israele a portata di mano, insomma, non fa vedere i rischi altissimi. Alti anche per Israele, non solo per i palestinesi, considerati addirittura oggetti, pacchi da spostare.
La prospettiva immobiliarista di Trump, d’altro canto, non può avere un’aderenza con la terra, il territorio, la storia. Deve decidere in termini di potenza, e a tavolino, una riconfigurazione rapida della regione araba e del Levante, che disinneschi la crisi e la inserisca, congelata, dentro un quadro molto più ampio che arrivi al Pacifico. Quali altre macerie possa questa politica provocare, non sembra interessare il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Immagine in anteprima: frame video Global News via YouTube