Educare alle relazioni: tutte le falle del piano del governo Meloni e del ministro Valditara
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L’Italia, i cui partiti di governo hanno scelto di astenersi nel voto al Parlamento Europeo sull’adesione alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, in questi mesi si trova a rispondere a una forte richiesta di educazione come forma di contrasto alla violenza maschile contro le donne. Questa domanda si è fatta più intensa negli ultimi mesi, prima sull’onda dell’indignazione di fronte agli stupri di gruppo avvenuti a Palermo e Caivano, e oggi a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin.
Se, come hanno sottolineato alcuni commenti, l’educazione rischia di assomigliare a una soluzione troppo lenta e intempestiva di fronte alle morti e al pericolo reale che ogni donna affronta già adesso, è pur vero che la violenza contro le donne ha solide radici in una cultura patriarcale e maschilista. Di fronte a questo contesto, lavorare perché le giovani generazioni siano protagoniste di un profondo cambiamento negli assetti di potere che normalizzano la violenza di genere costituisce una strada certamente più efficace e duratura rispetto al refrain dell’inasprimento delle pene, soluzione-bandiera a cui il governo attuale ci ha abituato.
Alla crescente richiesta di educazione il governo risponde, quindi, con due azioni: un protocollo di intesa (“Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica – iniziative rivolte al mondo della scuola”) siglato da tre ministeri (Cultura, Istruzione e Merito, Famiglia Natalità e Pari Opportunità) e una direttiva sul progetto “Educare alle relazioni”, annunciato dallo scorso settembre con grande enfasi dal ministro Valditara e costruito, secondo le sue parole, “all’insegna di un confronto ampio e di un pluralismo di apporti”.
L’esito di questo ampio e plurale confronto, tuttavia, ricorda la famosa montagna della fiaba di Esopo che, tra fumi e smottamenti, partorisce un topolino.
Forse a questa drastica riduzione, rispetto agli altisonanti annunci iniziali, ha contribuito l’imbarazzo causato dall’aver affidato i lavori preparatori a un gruppo coordinato da una figura di “esperto”, Alessandro Amadori, che non solo non risulta avere competenze sull’educazione di bambini e adolescenti, ma che, come ha messo in evidenza Christian Raimo su Domani, ha nel suo curriculum pubblicazioni che espongono una visione quantomeno singolare della violenza maschile sulle donne, teorizzando una guerra tra i sessi in cui il “bisogno di sottomissione maschile”, in una relazione non equilibrata con le donne, trasforma gli uomini o in “vittime” o in “carnefici”.
Ritornando ai documenti, che cosa propone il progetto “Educare alle relazioni”, o meglio ciò che ne resta?
Il piano? Pochi confusi tentativi di dimostrare che si sta facendo qualcosa contro la violenza sulle donne ma senza disturbare il patriarcato
Un’analisi in chiave pedagogica non è semplice perché nei contenuti il testo si limita a ribadire quanto le scuole possono (già) fare: attività extracurricolari nella forma di “progetti, percorsi educativi, attività pluridisciplinari e metodologie laboratoriali” (sic! – qui il testo tratta le metodologie come se fossero azioni a sé e non, appunto, metodi). Le azioni sono però accompagnate da uno stanziamento di fondi di 15 milioni di euro e dall’annuncio di attività formative specifiche per gli insegnanti impegnati nei progetti, a cura di Indire e di eventuali altri organismi qualificati.
Le azioni previste dalla direttiva, tuttavia, vengono già nel testo depotenziate in modo sistematico, in tre modi.
In primis, sono attività indicate esplicitamente per la scuola secondaria – addirittura di secondo grado. Il messaggio è che la prevenzione e il contrasto alla violenza maschile verso le donne si fanno quando ragazzi e ragazze avranno già ampiamente interiorizzato e subìto, spesso a prezzo di una profonda sofferenza, proprio quell’ordine di genere che costituisce la radice della violenza che si dichiara di combattere.
In secondo luogo, queste attività vengono sottoposte al controllo delle associazioni dei genitori. Non vi è altro modo, infatti, per definire la scelta – piuttosto irrituale per ogni altra attività educativa della scuola pubblica - di affidare al Forum Nazionale delle Associazioni dei Genitori della Scuola (FONAGS) il compito di “raccordare le modalità di attuazione dei percorsi progettuali con le esigenze e le osservazioni migliorative delle associazioni dei genitori”. Sembra, questa scelta, in linea con l’esigenza di rassicurare le famiglie, sull’onda del timore che un’educazione che contrasta la violenza di genere possa violare il primario diritto dei genitori a educare i figli secondo i loro valori (paradosso per cui il maschilismo sarebbe quindi un valore come un altro) o diventare surrettiziamente un veicolo di “propaganda gender”, termine caro agli esponenti dell’attuale maggioranza di governo.
Un terzo elemento di depotenziamento riguarda il fatto che si tratta di percorsi educativi interamente lasciati sulle spalle di singoli insegnanti di buona volontà che assumeranno l’ennesima funzione nella scuola, faranno i corsi di formazione, e porteranno avanti le azioni progettate senza che a nessuno tra gli estensori del progetto sia venuto in mente (c’è anche una vasta letteratura internazionale in proposito) che farsi carico di affrontare una violenza sistemica non è un’attività confinabile in uno spazio d’aula con un docente dedicato, ma un tema che ha bisogno di una comunità scolastica che si interroghi profondamente e che intraprenda una trasformazione del suo funzionamento, del suo modo di comunicare e di gestire il potere, delle sue regole implicite ed esplicite, dei suoi spazi (corridoi, palestre, bagni, cortili…) che spesso non sono sicuri – né per le ragazze né per le persone che non corrispondono a un modello eterosessuale e cisgender.
Il riferimento di cornice alle linee guida nazionali “Educare al rispetto” del 2015 ci porta a vedere in modo netto la distanza tra il 2015 e oggi, misurabile in passi indietro. Quelle linee, pur con i loro limiti, appaiono oggi ben più avanzate delle attuali nella concettualizzazione del fenomeno: avevano come punto di partenza un’analisi di sistema che identificava con chiarezza le linee di oppressione che, fin dall’infanzia, condizionano la vita di bambine e bambini, e mettevano in luce gli ambiti su cui lavorare facendo educazione: il linguaggio, la consapevolezza delle dinamiche di potere, l’emancipazione da ruoli maschili e femminili prefissati e confermati nella cultura diffusa. Niente di tutto questo si ritrova nei due documenti (protocollo e direttiva), che preferiscono centrare l’attenzione su dispositivi, più che educativi, informativi: gli obiettivi del protocollo (art. 2) parlano di “diffondere i valori del rispetto e della parità” e di fornire informazioni e strumenti sui segnali e sulle risorse disponibili per le donne che subiscono violenze. Nell’ambito degli aspetti educativi e formativi, emerge una centratura sulla promozione della consapevolezza individuale relativa ai “comportamenti impropri”, ancora una volta isolati da ogni elemento che permetta di osservarli dentro un’ecologia complessiva, anche nella stessa scuola. Derubricare la violenza di genere a cattivo comportamento individuale in luogo di questione sistemica è maggiormente in linea con l'approccio che addita come “mostro” l’uomo che ha ucciso Giulia Cecchettin e che vede nella violenza di genere una questione culturale solo quando si tratta della cultura di qualcun altro, solitamente di religione islamica.
Infine, il protocollo si propone di aumentare l’efficacia delle azioni educative agitando il tema delle conseguenze giudiziarie: uno degli obiettivi dichiarati è infatti “accrescere la conoscenza tra i giovani, in particolare tra le studentesse e gli studenti, della normativa e delle politiche in essere per la prevenzione e il contrasto della violenza maschile sulle donne, anche al fine di sensibilizzarli e responsabilizzarli sulle conseguenze, anche penali, di comportamenti violenti nei confronti delle donne e delle ragazze”.
Il lavoro della rete nazionale Educare alle differenze
Per fortuna, in mezzo a questi confusi tentativi di dimostrare che si sta facendo qualcosa contro la violenza sulle donne ma senza disturbare il patriarcato, c’è qualcuno in Italia che lavora per davvero, come la rete nazionale Educare alle differenze. Proprio a settembre, nei giorni in cui il Ministero annunciava il suo piano, l’associazione distribuiva in tutte le scuole italiane una guida per prevenire e contrastare le violenze di genere a scuola.
La guida, frutto di un lavoro condiviso tra personale della scuola di ogni ordine e grado, esperte, attiviste, femministe, operatrici dei Centri Antiviolenza e studenti della scuola secondaria, affronta il tema della violenza senza limitarsi a quella maschile contro le donne, ma mettendo in evidenza anche le altre forme di violenza di genere, e di violenza delle norme di genere, subite dalle persone LGBTQI+ e verso le quali nella scuola e nella società italiana non vi è riconoscimento né tutela, nonostante le loro gravi conseguenze. Il testo si divide infatti in tre sezioni: una dedicata alla violenza maschile contro le donne (sia in famiglia, che tra pari, sia nella forma della violenza assistita), una sulla violenza omolesbobitransfobica che nella scuola è una delle principali matrici del bullismo, e una sulla violenza delle norme di genere, quelle che hanno in particolare un impatto sulla vita delle persone trans e non binarie.
Le tre sezioni sono inquadrate in una cornice complessiva, dichiarata in apertura del documento:
“Le violenze di e del genere sono un insieme di violenze fisiche, verbali, simboliche e psicologiche di cui sono vittime le donne, le persone omosessuali e bisessuali, le persone trans e non binarie in virtù dell’ordine patriarcale ed eterocisnormativo della società che assegna loro minore valore, potere, privilegi, diritti e risorse. (…) La cultura che legittima la violenza domestica di un marito nei confronti della moglie, la vessazione di un adolescente omosessuale da parte di un gruppo di pari o l’appellare una donna trans con pronomi maschili affondano le radici nei medesimi stereotipi di genere e nei medesimi rapporti di potere. Non è quindi possibile comprenderne una senza il riconoscimento di tutte le altre, nella consapevolezza che ognuna agisce con specificità e con regimi di visibilità differenti”, anche interagendo con altre differenze (etniche, socio-economiche, di abilità, di età).
Per ogni tipologia di violenza, il testo analizza situazioni concrete che possono emergere a scuola e offre a dirigenti, docenti e personale di supporto strumenti e prospettive per osservare e comprendere i fenomeni di violenza e per mettere in atto azioni di ascolto, accoglienza e protezione di chi subisce violenza, identificando in modo chiaro sia le responsabilità di docenti singoli/e, sia quelle degli organi collegiali, informando sugli obblighi legali della scuola e offrendo orientamenti per il lavoro educativo e culturale.
La visione che guida questo documento, e che manca completamente in quello ministeriale, è di tipo sistemico e si fonda sul riconoscimento della capacità della scuola di trasformare le pratiche di convivenza in contesti sociali complessi attraverso il suo lavoro di tessitura istituzionale, di promozione di nuovi immaginari, e di agency relazionale.
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