Il piano di riarmo europeo di fronte a un nuovo ordine mondiale
20 min letturaLa dottrina Trump – miscela di isolazionismo, dichiarazioni neoimperialiste, minacce contro gli alleati della NATO, disprezzo per le norme del diritto internazionale e l’Ucraina aggredita, elogi delle dittature eurasiatiche e protezionismo – è riuscita ad atterrire le cancellerie europee più dell’invasione russa del 2022. Come ha scritto Paolo Gentiloni sulla Repubblica del 10 marzo, “[l’]Europa s’è desta, almeno un poco”.
Sembra aver mutato atteggiamento persino la Spagna, che da anni tiene sotto ferreo controllo le spese militari. Nel 2023 Madrid ha dedicato alla difesa un budget pari ad appena l’1,19% del PIL (e l’1,28% nel 2024); recentemente però ha annunciato un’accelerazione nell’aumento delle spese militari. L’obiettivo ora è arrivare a un budget per la difesa pari al 2% del PIL prima del 2029. Di fronte a una platea di militanti galiziani il capo del governo, il socialista Pedro Sánchez, ha dichiarato: “La Spagna deve difendere l'Europa affinché l’Europa possa difendersi da sola”.
Di fronte al disimpegno statunitense dall’Europa, la classe dirigente europea cerca insomma di correre ai ripari (come tentò di fare all’inizio degli anni ’50 con la CED, di fronte a una URSS staliniana sempre più aggressiva e al divampare della guerra in Corea). Il ReArm Europe Plan proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen il 4 marzo ne è forse l’esempio più cospicuo.
Il piano von der Leyen
Il piano è strutturato in cinque parti. La prima consiste “nel liberare l’uso dei finanziamenti pubblici per la difesa a livello nazionale. Gli Stati membri sono pronti a investire di più nella propria sicurezza se hanno lo spazio fiscale necessario […] Per questo motivo proporremo a breve di attivare la clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità e crescita. Essa consentirà agli Stati membri di aumentare in modo significativo le spese per la difesa senza far scattare la procedura per i disavanzi eccessivi”. Si vorrebbe consentire agli Stati membri di allocare un ulteriore 1,5% del PIL in difesa senza rischiare di far scattare una procedura per deficit eccessivo. Quasi 650 miliardi di euro per un lasso di tempo di quattro anni.
La seconda parte del piano punta a fornire “150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri per investimenti nel settore della difesa. Si tratta fondamentalmente di spendere meglio – e di spendere insieme. Stiamo parlando di capability domains paneuropei: ad esempio la difesa aerea e missilistica, i sistemi di artiglieria, i missili e le munizioni, i droni e i sistemi anti-drone, ma anche altre esigenze, come la cibernetica e la mobilità militare. Aiuterà gli Stati membri a mettere in comune la domanda e ad acquistare insieme”. Questo permetterà peraltro di fornire più armi ed equipaggiamenti all’Ucraina aggredita dalla Russia, in una fase della guerra segnata dalla sospensione del sostegno militare statunitense. Secondo Ursula von der Leyen, “[t]ale approccio di approvvigionamento congiunto ridurrà anche i costi e la frammentazione, aumenterà l'interoperabilità e rafforzerà la nostra base industriale di difesa. E può andare a vantaggio dell’Ucraina”.
La terza parte riguarda “l’utilizzo del potere del bilancio della UE”. Secondo la presidente della Commissione si può fare molto “in questo campo nel breve termine per indirizzare più fondi verso gli investimenti nel settore della difesa […] [P]roporremo ulteriori possibilità e incentivi per gli Stati membri che decideranno, se vogliono utilizzare i programmi della politica di coesione, di aumentare la spesa per la difesa”. Le ultime due parti del Piano vogliono invece “mobilitare il capitale privato accelerando l’Unione del risparmio e degli investimenti e attraverso la Banca europea per gli investimenti”.
Il ReArm Europe Plan è stato approvato informalmente il 6 marzo dai capi di Stato e governo nel corso di una riunione straordinaria del Consiglio europeo a Bruxelles, ma dovrà ricevere il via libera ufficiale tra il 20 e il 21 marzo, all’unanimità (e la cosa non è scontata). Come è stato osservato dal sito di informazione Politico, il piano per certi aspetti è simile al Next Generation EU; tuttavia a differenza del primo questo non comporta sovvenzioni, ma solo prestiti. No free money, niente soldi gratis.
Il piano potrebbe diventare una pietra miliare nella storia dell’integrazione europea. Si colloca nel solco della Commissione “geopolitica” che Ursula von der Leyen ha cercato di costruire in questi anni con alterne fortune: non a caso lei è la prima ad aver nominato un commissario per la difesa e per lo spazio, il lituano Andrius Kubilius. In ogni caso il ReArm Europe Plan non è stato accolto da un consenso unanime, specie in alcuni paesi della UE.
Ha generato perplessità, ad esempio, l’assenza di coinvolgimento del Parlamento europeo. Infatti solo l’11 marzo la presidente della Commissione europea è intervenuta alla plenaria dell’Eurocamera, citando Alcide De Gasperi (strenuo sostenitore della CED) e ottenendo un sostegno cauto da un’aula divisa.
La domanda sorge, come si suol dire, spontanea: di fronte alla peggiore crisi geopolitica europea dal 1945, perché un coinvolgimento così tardivo del Parlamento europeo, cioè l’istituzione che rappresenta tutti i popoli dell’Unione, nonché l’unica a essere eletta direttamente dagli stessi? Non solo perché a pagare il conto saranno – naturalmente – i cittadini europei, ma perché la difesa è materia delicatissima, che va al cuore del concetto stesso di sovranità (e la sovranità, in una democrazia, appartiene al popolo, seppure entro certi limiti).
Nella Costituzione italiana, per esempio, si legge: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. L’articolo 52, che sancisce la piena liceità della difesa (così come l’articolo 11 ripudia la guerra, “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”), e che è incastonato in una carta figlia della lotta armata contro il nazifascismo, rende evidente quanto la difesa sia legata non solo alla dimensione della cittadinanza, ma alla natura stessa di un ordinamento democratico; non a caso si può anche leggere: “[l]’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Ancora, secondo l’articolo 78, “[le] Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.
La difesa – almeno nei suoi aspetti più cruciali – è materia di dibattito parlamentare in una democrazia. È pur vero che l’articolo 42 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) investe il Consiglio europeo di definire, all’unanimità, la Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) che dovrebbe condurre a una difesa comune; il Parlamento è chiamato comunque a esercitare un controllo sul bilancio della stessa. E in generale il TUE riconosce il ruolo di rilievo del Parlamento europeo nella definizione della PSDC. Non sarebbe stato meglio, dunque, se in una fase così complessa e travagliata della storia continentale il Parlamento europeo fosse stato coinvolto ab origine, anche per aiutare i cittadini europei a comprendere le ragioni di questa decisione?
Peraltro il fondamento giuridico del “nuovo strumento” per fornire i 150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri è l’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), sorta di “clausola di emergenza” utilizzata anche durante la gravissima emergenza economica e sociale causata dalla pandemia.
L’articolo 122 (ex 100 del TCE) recita nei suoi due paragrafi:
1. Fatta salva ogni altra procedura prevista dai trattati, il Consiglio, su proposta della Commissione, può decidere, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure adeguate alla situazione economica, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell'approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia.
2. Qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un'assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato. Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo in merito alla decisione presa.
In particolare ad avere natura prettamente emergenziale, secondo uno studio pubblicato nel 2023 e commissionato dal dipartimento Diritti dei cittadini e affari costituzionali su richiesta della commissione AFCO, è il secondo paragrafo dell’articolo 122; il primo paragrafo può essere sì invocato al di fuori di situazioni di emergenza, ma solo se esso non va a scapito delle prerogative del Parlamento, come suggerisce la sua stessa formulazione introduttiva (“Fatta salva ogni altra procedura prevista dai trattati”). Mentre è probabile che la Commissione abbia ricevuto un assenso preventivo dai capi di Stato e di governo prima di presentare il piano, è ovvio che il Parlamento non è mai stato coinvolto nell’elaborazione della proposta, se non a livello dei capigruppo dei tre maggiori partiti europeisti (il tedesco Manfred Weber per il PPE, la spagnola Iratxe García Pérez per il PSE e la francese Valérie Hayer per Renew Europe – ed è ovvio che tutti e tre sono in stretto contatto rispettivamente con il probabile neocancelliere Friedrich Merz, con il capo del governo spagnolo Sánchez e con il presidente francese Macron).
La stessa Ursula von der Leyen ha dichiarato: “Questa serie di proposte si concentra su come usare tutte le leve finanziarie a nostra disposizione per aiutare gli Stati membri ad aumentare rapidamente e significativamente le spese per le capacità di difesa. Con urgenza, ora, ma anche in un arco di tempo più lungo, nell’arco di questo decennio”. Nello stesso periodo ci si imbatte sia in due termini che rinviano al concetto di emergenza (rapidamente, urgenza) sia in uno che suggerisce un orizzonte temporale molto più lungo (decennio). Chi scrive proverà a chiarire tra poco l’ambiguità (su più livelli) che caratterizza il ReArm Europe Plan.
Ma le perplessità hanno anche natura politica. Si consideri quanto ha dichiarato la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein in un’intervista al Corriere della Sera:
“Quello che serve oggi è un salto in avanti verso difesa comune europea. Se non si sta facendo, ahimè, è perché evidentemente non c’è ancora la volontà politica da parte degli Stati. Ai socialisti europei ho anche detto che la difesa europea è una cosa diversa rispetto all’agevolazione al riarmo dei 27 Stati membri, come fa il piano von der Leyen. Per questo va nella direzione sbagliata”.
Emergenza e sfiducia
Il tema dell’emergenzialità è fondamentale. A meno che non si ipotizzi davvero un’invasione della Groenlandia da parte delle forze armati statunitensi su ordine di Donald Trump (l’isola artica, del resto, è coperta, paradossalmente, dall’articolo 5 sulla difesa collettiva del Trattato del Nord Atlantico), a rappresentare una minaccia reale e urgente per la UE è indubbiamente la Russia putiniana, che nel 2022 ha lanciato l’invasione su larga scala dell’Ucraina, dopo aver aggredito il paese est-europeo già nel 2014 e prima ancora la Georgia nel 2008. C’è il rischio che il regime russo aggredisca nel breve periodo la UE?
La domanda va riformulata. Se è estremamente improbabile che si verifichi uno sbarco anfibio russo nelle Fiandre o in Attica, il rischio che si verifichi, nel giro di pochi anni, un’aggressione russa a un piccolo paese UE non è una mera ipotesi fantapolitica, a meno che non si voglia tacciare di totale incompetenza o isteria le agenzie di intelligence, i vertici militari e i ministeri della difesa di paesi come Svezia, Polonia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Paesi Bassi, e funzionari apicali della stessa UE e della NATO.
Ad esempio per il Forsvarets Efterretningstjeneste (l’intelligence militare ed esterna danese), “è probabile che la Russia sia più disposta a usare la forza militare in una guerra regionale contro uno o più paesi europei della NATO se essa percepisce la NATO come militarmente indebolita o politicamente divisa. Ciò è particolarmente vero qualora la Russia percepisca che gli USA non possono o non vogliono sostenere i paesi europei della NATO in una guerra con essa”. Per il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius la Germania “deve essere in grado di affrontare una guerra entro il 2029”.
Occorre sottolineare che Pistorius non è un guerrafondaio di destra: è un esponente apicale della socialdemocrazia tedesca. E il Forsvarets Efterretningstjeneste è espressione di una democrazia nordica che non conduce una guerra di aggressione dai tempi di Napoleone. In Italia si continua (soprattutto nell’estrema sinistra) a tacciare di “isteria” e “russofobia” i paesi baltici; tuttavia liquidare con un misto di condiscendenza e razzismo la conoscenza che estoni, lettoni e lituani hanno della classe dirigente russa e della società russa è come minimo miope. Il già citato Kubilius, per esempio, parla russo ed è cresciuto nella Lituania sovietica, allora sotto il controllo di Mosca.
Il punto è: cosa accadrebbe se tra due o tre anni (un lasso di tempo davvero esiguo per ogni riorganizzazione militare) la Russia invadesse un paese baltico? Come già rilevavo a marzo 2024 su Gli Stati Generali:
potrebbe scoppiare una guerra tra la Russia e uno o più Stati membri dell’Unione Europea? Sì. È improbabile, ma purtroppo non è più quasi impossibile come nei due decenni successivi alla fine della Guerra Fredda. In ogni caso non prima del 2027 o del 2028. E tra gli obiettivi di Mosca non ci sarebbero ovviamente l’Italia, la Francia o la Germania, ma i piccoli stati un tempo sovietici dove risiedono cospicue minoranze russe, e già da molti anni oggetto di azioni di guerra ibrida russa (attacchi hacker, intimidazione, disinformazione ecc.) come l’Estonia e la Lettonia. Il neoimperialismo revanscista del regime putiniano, del resto, si è sempre rivolto primariamente a paesi un tempo parte dell’URSS.
A margine, è il caso di notare che è stato lo stesso presidente russo Vladimir Putin (che nel 2022 si è paragonato esplicitamente a Pietro il Grande) ad aver dichiarato più volte, anche di recente, che la Russia si riprenderà quanto è suo. Le inquietudini verso la sicurezza dei paesi baltici, del resto, sono iniziate dopo l’invasione russa della Georgia, con il palesarsi del neoimperialismo revanscista russo.
Perché una guerra euro-russa scoppi è necessario che si verifichino almeno due condizioni. Come osservavo nella già citata analisi divulgativa del marzo 2024:
La prima [condizione] è che il regime putiniano vinca la guerra in Ucraina. Vincere non significa necessariamente conquistare Kyiv, come pure Mosca tentò di fare […] La seconda condizione perché una guerra euro-russa scoppi è il disimpegno statunitense totale dall’Europa.
Ovviamente nessuno ha la certezza che la Russia attaccherà o non attaccherà un paese baltico una volta conclusa la guerra in Ucraina; il punto tuttavia è che sino a una quindicina di anni fa uno scenario del genere sarebbe stato quasi impossibile, mentre oggi non lo è. E i già citati allarmi lanciati dai vertici politici, spionistici e militari della regione baltico-nordica (e oltre) suggeriscono la fondatezza di tali preoccupazioni.
Cosa accadrebbe nel 2027 o nel 2028 se la Russia, dopo aver “neutralizzato” nel 2025 o nel 2026 in un modo o nell’altro Kyiv (e l’attuale linea di condotta dell’amministrazione Trump senz’altro sembra favorire un esito della guerra di questo tipo), volesse “riprendersi” Narva o Daugavpils? Sia la Lettonia che l’Estonia confinano con la Russia, hanno superfici esigue (pari a due o tre regioni italiane messe insieme) e forze armate di poche decine di migliaia di unità. È vero che entrambi i paesi sono coperti dall’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico, ma con Donald Trump alla Casa Bianca è più che legittimo chiedersi se Washington sarebbe davvero pronta ad assolvere ai suoi impegni militari, specie in un contesto di crescenti tensioni commerciali, culturali, geopolitiche ecc. con Bruxelles.
È bene ricordare che l’articolo 5 non comporta automatismi di sorta; nella sua prima parte esso recita:
Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale.
Nell’articolo 5 si parla di “azione che [ciascuna parte] giudicherà necessaria, incluso l’uso della forza armata”, ma non necessariamente esso. E se il presidente Trump decidesse che i paesi baltici appartengono legittimamente alla Russia? E se il Congresso non desse il via libera a intervenire per la difesa di un paese europeo remotissimo, di cui molti statunitensi ignorano l’esistenza? (persino un autore colto come Jonathan Franzen ha scelto, nel suo Le correzioni, di collocare le vicende più drammatiche del romanzo in una Lituania ben poco verosimile, una specie di esotico sobborgo moscovita sul Baltico).
È vero che l’articolo 42, paragrafo 7, del TUE recita:
Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri.
Ma aggiunge anche:
Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del trattato del Nord-Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa.
L’assistenza tra Stati membri non è necessariamente militare. Si tratta sì di una clausola di mutua assistenza (che è stata invocata per la prima volta dalla Francia a seguito degli attacchi del 13 novembre 2015), ma il livello di assistenza ha una natura statuale, bilaterale, e non è imperniato sulle istituzioni della UE. Inoltre sorge un altro quesito, allarmante: i francesi, i tedeschi, gli spagnoli sarebbero pronti a inviare truppe francesi, tedesche e spagnole per la difesa di Narva o Daugavpils? Nell’Opération Barkhane in Africa, durata anni, la Francia ha perso 49 uomini; in Afghanistan l’Italia ne ha persi, nel complesso, 53. La UE non è minimamente pronta a perdere centinaia, per non dire migliaia, di soldati. Lo shock sarebbe gigantesco, e potrebbe travolgere quasi ogni governo.
Che cosa accadrebbe in Italia se un’intera compagnia venisse spazzata in poche ore da un devastante bombardamento a sorpresa russo? Se un centinaio di italiani e italiane in divisa perdessero la vita dall’alba al tramonto? Con tutta probabilità il dibattito pubblico italiano raggiungerebbe livelli di tensione inauditi. E come reagirebbe l’AfD alla notizia di trecento soldati tedeschi trucidati o catturati dai russi? E l’Ungheria o la Slovacchia filorusse che farebbero? E che si direbbe a Madrid o Lisbona se con una serie di fulminee manovre la Russia (magari con l’aiuto bielorusso) occupasse la Letgallia?
E ancora, pensiamo a come ha reagito in questi ultimi mesi una cospicua fetta dell’opinione pubblica italiana di fronte alle periodiche minacce russe di lanciare un attacco nucleare contro Londra o Parigi. Chi scrive conosce persone molto colte e intelligenti, persino docenti universitari e manager, atterriti dall’idea di un improbabile Armageddon putiniano. “Per me l’Ucraina può tornare russa, basta che non scoppi la Terza Guerra Mondiale”, è stato un commento che ho sentito varie volte da nostri concittadini, peraltro rispettabilissimi. Che cosa direbbero costoro di fronte al reale rischio di un conflitto tra Italia e Russia?
A oggi è ragionevole pensare che i baltici potrebbero probabilmente contare, oltre che su se stessi, sui polacchi (che difatti hanno varato un massiccio riarmo), e forse su finlandesi, svedesi e danesi, e sui non-UE norvegesi e britannici. I francesi nel 2027 dovranno eleggere un nuovo presidente (che potrebbe essere Marine Le Pen) mentre la Germania a oggi ha tentennato, a dispetto dei proclami della Zeitenwende. Del resto gli Stati membri non hanno contribuito in egual misura nemmeno al sostegno militare e finanziario dell’Ucraina in guerra: i nordici, i baltici, i polacchi ecc. hanno dato in proporzione al PIL molto di più di francesi, italiani e spagnoli. Se Parigi, Roma o Madrid hanno lesinato sui denari e sulle armi, cosa fa pensare che sarebbero pronte a versare sangue per Riga e Tallinn?
La presenza di truppe tedesche, francesi, canadesi, britanniche, neerlandesi o polacche - e via dicendo - nei paesi baltici ha scopi di deterrenza: qualora i russi aggredissero la Lettonia, l’Estonia o la Lituania colpirebbero anche le truppe dei paesi citati, trascinando quei paesi (e, in teoria, la NATO tutta) in guerra. Non a caso si parla di “battaglioni detonatori”, aventi lo scopo non tanto di fermare a lungo un’avanzata russa, ma di indurre Regno Unito, Francia, Germania ecc. a intervenire in forze. Ma la capacità di deterrenza della NATO oggi si fonda in primis sulla potenza degli Stati Uniti: senza Washington, con la sua supremazia militare convenzionale e il suo poderoso arsenale nucleare, è ragionevole dubitare anche della determinazione bellica di alcuni paesi europei.
Si può supporre che von der Leyen abbia avanzato le sue proposte stretta tra quattro fuochi: la necessità di rispettare, almeno formalmente, la primazia della NATO (come da paragrafo 7 dell’articolo 42 del TUE), perché esplicitare i timori europei nei confronti della tenuta della NATO a causa di Trump vorrebbe dire indebolire ancora di più la capacità di deterrenza dell’alleanza stessa; lo scetticismo verso alcuni alleati europei, ad esempio gli ungheresi; la necessità di aumentare in modo rapido e significativo le forniture militari all’Ucraina abbandonata da Washington; infine, il tempo limitato, perché il 2027 (o il 2028, o persino il 2029) è – da un punto di vista militare – davvero dietro l’angolo.
Ancora, si ha la sensazione che la Commissione europea non si fidi del tutto del Parlamento europeo, dove in effetti abbondano le forze filorusse e trumpiane. Forse agli occhi di von der Leyen il coinvolgimento ab origine di Strasburgo, con le sue procedure, i suoi dibattiti sfiancanti e i suoi riti, avrebbe rischiato di rallentare ulteriormente ogni decisione, o persino condurre a uno stallo. Ma è utile ricordare che la democrazia ha il suo fulcro proprio nel Parlamento europeo. E che il consenso politico dietro un’iniziativa si costruisce così, non calando le decisioni dall’alto.
Senza dubbio il nome del piano è infelice, inutilmente bellicoso. Ancora, è comprensibile che filosofi, attivisti ed elettori stigmatizzino post roboanti come quello del liberale belga Guy Verhofstadt, che chiede all’Europa di farsi “impero” al pari di Russia, Cina e Stati Uniti. E hanno del tutto ragione le forze di sinistra quando denunciano che Bruxelles non ha mai permesso di allentare i vincoli di bilancio per temi altrettanto urgenti come il welfare o il contrasto alle diseguaglianze. I debiti per il riarmo tuttavia non comportano automaticamente tagli alla sanità o alla scuola, a meno che i governi nazionali non vogliano usarli come scusa per una rinnovata austerity (del resto è da anni che paesi come l’Italia riducono la spesa sociale senza investire in difesa…)
Costruire in tre o quattro anni una difesa comune non è però fattibile, con buona pace di ciò che dicono importanti critici, inclusa Elly Schlein. Ci vorrà più tempo, e la UE non ha tempo. Ursula von der Leyen lo ha dichiarato esplicitamente: «[a]bbiamo bisogno di velocità e di scala». Ecco perché ricorrere all’articolo 122 del TFUE.
C’è chi sostiene che una difesa comune potrebbe essere costituita ad esempio ricorrendo all’articolo 42 paragrafo 3 del TUE (“Gli Stati membri mettono a disposizione dell'Unione, per l'attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune, capacità civili e militari per contribuire al conseguimento degli obiettivi definiti dal Consiglio”), e in effetti gli EU Battlegroups hanno il loro fondamento giuridico proprio nel TUE. Ma al di là del fatto che il TUE parla di “forze multinazionali” e non di “eserciti”, le forze di cui all’articolo 43 paragrafo 1 del TUE operano con missioni ben definite (quali “azioni congiunte in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso, le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi”).
Soprattutto tali forze sono appunto “multinazionali”, cioè composte da truppe dei vari Stati membri: semplificando, se la Polonia conferisce mille uomini a uno EU Battlegroup di stanza in Lettonia o in Bulgaria, avrà mille uomini in meno in patria (e la Polonia confina con l’oblast russo di Kaliningrad, tra i centri nevralgici del sistema militare russo). I giochi a somma zero non servono a molto. Il punto è che si deve aumentare rapidamente la capacità militare complessiva degli europei sul Fianco Est, e questo è realizzabile a breve solo in due modi: o con un travaso di forze dai paesi meno esposti alla minaccia russa (Italia, Spagna, Francia ecc.) a quelli in prima linea - e si tratta di un’eventualità poco fattibile, per molte ragioni - o con un drammatico rafforzamento delle forze armate polacche, baltiche, nordiche, tedesche.
Certo, si potrebbero modificare i trattati, e creare delle forze armate europee. Ma modificare un trattato (o stipularne uno ex novo) è un percorso politico e giuridico lungo e complesso, e l’ostruzionismo di Stati membri filorussi potrebbe rimandare sine die la creazione di forze armate agli ordini di Bruxelles. Inoltre è improbabile che l’attuale governo francese o italiano possa dare facilmente il via libera a una simile iniziativa, non solo per motivi politici, simbolici e strategici (le forze armate sono una prerogativa cruciale della sovranità; e chi sarebbe il comandante in capo delle truppe europee?) ma perché un esercito comune (finanziato quindi anche da contribuenti francesi e italiani) pescherebbe nel medesimo bacino di reclutamento dell’Armée de terre o dell’EI.
Il riarmo degli Stati membri potrebbe tuttavia innescare un processo in grado di condurre realmente a una difesa comune, e forse persino a un’unione politica (un orizzonte già possibile con la CED, affossata negli anni ’50 dai francesi, e indirettamente dagli italiani). Intanto urge consentire agli Stati membri che vogliono armarsi di farlo, e di investire in R&D militare e in infrastrutture e linee di difesa adeguate, come quelle che i baltici stanno realizzando.
È stato osservato che già oggi l’Europa spende in difesa molto più della Russia; questo è vero, ma ciò non significa che in caso di una guerra Mosca non possa avere la meglio (se in guerra contassero solo le risorse finanziarie e materiali gli Stati Uniti non avrebbero perso in Vietnam, e i sovietici in Afghanistan). Ancora, è da molto tempo che i vertici militari europei dicono che le forze armate del continente non sono attrezzate per le nuove minacce regionali e globali. Soprattutto i paesi baltici, cioè gli Stati membri più vulnerabili ed esposti a un’aggressione russa, non possono contare al 100% su tutti gli alleati europei, ma solo su sé stessi ed eventualmente su un pugno di altre medie potenze, e la classe dirigente russa ne è consapevole: alla luce di questo amaro dato di fatto il gap di spesa militare tra il blocco filo-baltico e Mosca è ben diverso (il lettore che ne dubita provi a fare un esperimento mentale, e si interroghi su quanti suoi conoscenti sarebbero favorevoli a combattere con alpini e bersaglieri la Russia).
Ecco perché il ReArm Europe Plan sembra varare una sorta di Europa della difesa a geometria variabile, come in effetti suggerisce la seconda parte del piano. Una cooperazione militare sempre più stretta tra paesi europei è già in corso, ad esempio nella regione nordica, o tra Germania e Paesi Bassi. E il Nordic-Baltic 8 delinea nuove architetture di sicurezza nel continente, che guardano anche a Londra (attore di peso nel Baltico), e si sovrappongono al Triangolo di Weimar, ormai il principale motore geopolitico della UE. Il piano di von der Leyen, se da un lato prefigura evoluzioni profonde dell’Europa, dall’altro va ad assecondare trend già in atto (inclusa la recentissima decisione tedesca di lanciare un grande piano di riarmo e infrastrutture). Soprattutto, nel suo cinico realismo punta ad approntare difese così schiaccianti e sofisticate (come droni e sistemi anti-drone, difese aeree e missilistiche ecc.) da indurre la Russia a non osare un attacco. È la deterrenza. Ha un costo economico molto ingente, ma potrebbe salvare moltissime vite umane.
Nel breve periodo la priorità è scongiurare un attacco russo, rendendolo estremamente costoso per Mosca, prima di tutto sul piano militare. Da qui il riarmo su base nazionale, e la necessità di ulteriori e più cospicui aiuti militari a Kyiv. Infatti qualora il regime russo avesse in qualche modo la meglio sugli ucraini, tra la fine della guerra e l’eventuale elezione di un presidente USA più amico dell’UE (o l’improbabile creazione di forze armate comuni) si verificherebbe una pericolosa window of opportunity per una Russia aggressiva e anti-UE con un dispositivo militare molto più potente che in passato, e un’economia in difficoltà ma senz’altro in pieno assetto bellico.
Se la Russia aggredisse la Lettonia o l’Estonia non solo morirebbero molti europei innocenti, ma il rischio di uno sgretolamento della UE diventerebbe reale, così come il crollo dell’euro e un’ingente fuga dei capitali verso gli Stati Uniti (i paesi baltici fanno tutti parte dell’eurozona, ed è molto arduo fidarsi di una valuta incapace di difendersi). L’Europa precipiterebbe in una grave recessione, e l’isteria probabilmente porterebbe al potere, in alcuni Stati membri, partiti di estrema destra filorussi (“per la pace”), con pericoli concretissimi per la democrazia. Il riarmo non è bello né nobile ma sembra essere davvero necessario.
Un’ultima osservazione. Sic stantibus rebus non sembra che il ReArm Europe Plan costringa l’Italia, la Spagna o altri paesi lontani dal Fianco Est a riarmarsi, e a far debito “per la guerra”. Piuttosto dà agli Stati membri che ne avvertono l’urgenza strategica l’opportunità di rafforzarsi militarmente in modo più efficace, ampio e celere. Così come il Next Generation EU ha aiutato gli Stati membri più colpiti dalla pandemia a ripartire economicamente (mi riferisco in primis all’Italia), così il ReArm Europe Plan è concepito soprattutto per gli europei che vivono in paesi confinanti con la Russia e che (lo posso assicurare, essendoci stato) da qualche anno non dormono sonni tranquilli. La solidarietà europea deve valere sempre, sia quando il Covid colpisce italiani o spagnoli, sia quando Mosca terrorizza nordici, baltici e polacchi.
