PFAS: cosa sono, quanto sono tossici e la battaglia per ridurre la nostra esposizione agli ‘inquinanti eterni’
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Aggiornamento 28 settembre 2024: La Commissione Europea ha adottato nuove misure restrittive per limitare l’uso di acido undecafluoroesanoico (PFHxA) e sostanze correlate, appartenenti al gruppo dei composti perfluoroalchilici e polifluoroalchilici, i cosiddetti PFAS noti anche come “forever chemicals” (prodotti chimici eterni) per la loro resistenza alla decomposizione nell’ambiente.
La restrizione, introdotta nel quadro del regolamento REACH sul contrasto dei rischi legati alle sostanze chimiche, mira a ridurre l’esposizione a questi composti attraverso specifiche applicazioni commerciali, laddove esistano alternative più sicure e dove il rischio non è adeguatamente controllato. Le nuove misure riguardano diversi prodotti di uso quotidiano, come alcuni tessuti (in particolare le giacche antipioggia), gli imballaggi alimentari (come le scatole per pizza), le miscele di consumo (inclusi gli spray impermeabilizzanti), e alcuni cosmetici (come prodotti per la cura della pelle). Anche l’uso nelle schiume antincendio per formazione e test sarà soggetto a restrizioni, senza compromettere la sicurezza nelle operazioni di spegnimento.
“Questa restrizione è una pietra miliare che ci avvicina a un ambiente libero da sostanze tossiche, eliminando l’uso di questi ‘forever chemicals’ nei tessuti, nelle scatole della pizza e in alcuni cosmetici”, ha commentato Margrethe Vestager, vicepresidente esecutiva uscente della Commissione e commissaria alla concorrenza con delega per Un’Europa pronta per l’era digitale.
Per la prima volta uno studio universitario ha formalmente dimostrato l'associazione tra l’esposizione ai PFAS, i cosiddetti “inquinanti eterni”, e la mortalità per malattie cardiovascolari, in particolare le malattie cardiache e la cardiopatia ischemica. Nel dicembre 2023 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro delle Nazioni Unite ha definito i PFAS “certamente cancerogeni”, ma finora non era stato possibile associare l’aumento della mortalità per malattie cardiovascolari ai composti artificiali. Le prove riguardanti il cancro del rene e il cancro ai testicoli, invece, sono coerenti con i dati già riportati in passato.
I PFAS sono sostanze chimiche industriali poli-e per-fluoroalchiliche note soprattutto perché usate nel rivestimento delle pentole antiaderenti o nella produzione di tessuti impermeabili e traspiranti, ma sono impiegate già dagli anni Cinquanta per usi comuni come vernici, rivestimenti per contenitori di cibo e molto altro.
Non è un caso che la ricerca arrivi proprio dall’Università di Padova, cioè dall’ateneo di una delle tre province che compongono la grande area rossa abitata da circa 150 mila persone e contaminata dalle sostanze chimiche industriali.
Dall’area che comprende superficie, suolo e acqua potabile di 30 comuni delle province di Vicenza, Verona e Padova, emerge il più grande episodio mondiale di contaminazione dell’acqua da forever chemical segnalato finora.
Di cosa parliamo in questo articolo:
La battaglia impari del Veneto
La ricerca, firmata da 11 studiosi coordinati dal professor Annibale Biggeri, docente del Dipartimento di Scienze cardio-toraco-vascolari e Sanità pubblica dell’Università di Padova, e pubblicata su Enviromental Health, segnala che tra il 1985, ossia l’anno di inizio della contaminazione delle acque e nel quale purtroppo venne anche potenziata la rete dell'acquedotto nell’inconsapevolezza di ciò che stava accadendo, e il 2018, ultimo anno di disponibilità dei dati, sono stati osservati 51.621 decessi contro i 47.731 attesi: 3.890 morti in più rispetto all’atteso, vale a dire un morto in più ogni 3 giorni. Ma non è solo una questione di numeri.
Lo studio non risparmia dettagli sulla presenza dei PFAS e sui loro effetti sulla salute, ma anche sulla storia dell’area rossa (come viene descritta nello studio) scoperta nel 2013, sulla modalità di contaminazione, sulla contaminazione del cibo prodotto nella zona (e ovviamente esportato in altre parti d’Italia), sul piano di sorveglianza sanitaria e anche sugli obiettivi da raggiungere a breve e medio termine. Ed è questo il punto. A fronte dei danni causati da queste decine di migliaia di composti chimici sintetici, non si fa ancora abbastanza.
La ricerca padovana si conclude così:
“Considerati i risultati attuali e la recente revisione della IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), è urgente vietare immediatamente la produzione di PFAS e iniziare ad attuare ulteriori attività di bonifica nelle aree contaminate”.
La battaglia delle Mamme NO PFAS
La battaglia veneta contro i PFAS è durissima e si preannuncia lunga. Lo studio padovano è stato condotto in collaborazione con i ricercatori dell’Istituto Tumori della Romagna e del Servizio Statistico dell’Istituto Superiore di Sanità, e con l’importante contributo del gruppo Mamme NO PFAS. Non c’è da stupirsi se queste ultime abbiano imparato a unire l’energia dell’attivismo ambientale alla conoscenza della falda inquinata. Lo studio universitario ha evidenziato un trend di morti per tumori in crescita soprattutto tra i più giovani e ha riscontrato un effetto protettivo nelle donne in età fertile, probabilmente dovuto al trasferimento di PFAS al feto.
Per le madri è iniziato tutto nel 2017, quando hanno ricevuto le risposte delle analisi sulla ricerca dei PFAS nel sangue dei loro bambini a seguito dell’avvio di un bio monitoraggio proposto dalla Regione Veneto. Fu la relazione del Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri di Treviso ad avviare l’indagine da parte della Procura; l’inquinamento, iniziato quarant’anni prima, venne ricondotto alla ditta Miteni di Trissino (VI).
Oggi gli abitanti sanno perfettamente che, nonostante l’azienda sia stata smantellata, la contaminazione resta ancora in atto “poiché al di sotto dell’azienda - dice a Valigia Blu Laura Ghiotto, una delle attiviste - è presente uno strato di inquinante difficilmente rimovibile in quanto sottostante agli edifici. L’inquinante è inoltre posizionato sopra una cosiddetta ‘ricarica di falda’. Ogni volta che piove, il terreno intriso di inquinante viene bagnato e come una bustina da tè rilascia i suoi veleni a valle, inquinando la stessa falda e i corsi d’acqua. La massa inquinante si sposta in questo modo circa 1,3 km all’anno vicino a Miteni”.
L’Italia che, come detto, ha il caso di contaminazione più esteso e che coinvolge più persone, “non possiede ancora una regolamentazione della produzione, utilizzo e scarico di questi inquinanti eterni. Dopo aver tentato due volte di intervenire su una legge che limiti i PFAS, il testo è saltato ogni qualvolta è caduto il Governo. Ora proviamo una via più lunga: chiediamo ai comuni di firmare una mozione per la messa al bando dei PFAS e poi passare alle regioni e infine approdare al Parlamento”, conclude Ghiotto.
C’è anche un importante processo in corso con il rinvio a giudizio di 15 ex manager a cui sono stati contestati diversi capi d’accusa: dal disastro ambientale innominato all’avvelenamento delle acque.
La Regione Veneto intanto ha investito 25 milioni di euro e 21 chilometri di condotte che “porteranno acqua sana”, e il Consiglio regionale ha votato all’unanimità l’adesione al ‘Manifesto Ban PFAS’, già sottoscritto da 134 organizzazioni della società civile europea, tra le quali il Forum italiano dei movimenti per l’Acqua, Greenpeace, Zero Waste, Legambiente, Medicina Democratica e ovviamente le Mamme No PFAS. I firmatari sottolineano che
“Esistono migliaia di PFAS diversi. Tuttavia, è molto preoccupante che solo una manciata di essi sia attualmente controllata da normative a livello globale, nonostante siano prontamente disponibili molte alternative più sicure. Noi, organizzazioni della società civile europea, esortiamo gli Stati membri dell'UE e la Commissione a vietare tutti i PFAS in tutti i prodotti di consumo entro il 2025 e a vietarli completamente entro il 2030”.
Nonostante i buoni propositi, però, la Regione Veneto ad oggi ha puntato su uno screening al quale partecipa solo una parte della popolazione (“questi dati non avrebbero valenza a livello processuale”, secondo Laura Ghiotto), mentre ritarda l’avvio dello Studio di Coorte deliberato nel 2016 ma mai iniziato. Poter contare su questa indagine significherebbe invece ottenere un’analisi a lungo termine e completa per la salute pubblica, purché i dati che ne derivano vengano condivisi con i cittadini per ulteriori approfondimenti.
Il caso ex Solvay e il monitoraggio delle Regioni
Non va tanto meglio in Piemonte dove è in corso un’altra battaglia anti PFAS. Attraverso due diffide, la Provincia di Alessandria ha intimato all’ex-Solvay, oggi Syensqo, un fermo di 30 giorni alla produzione dello stabilimento chimico di Spinetta Marengo, dopo i controlli di Arpa Piemonte. L’impianto produce polimeri speciali impiegati in applicazioni per l’industria aerospaziale, dei trasporti, medica, petrolifera, elettronica, dei cavi e in settori rivolti alle energie alternative. Vi lavorano circa mille persone. L’allarme era partito a fine marzo dalla stessa azienda che aveva riscontrato concentrazioni anomale di PFAS sotto una vasca utilizzata per ripulire le acque di produzione da questi composti chimici.
La produzione ora si è fermata e all’azienda è stato concesso un mese per presentare un piano che elimini le sostanze. Nel mezzo si è consumata una battaglia a suon di comunicati stampa aziendali, senza contare che tutte le 36 persone residenti ad Alessandria che si sono sottoposte alla quantificazione di PFAS nel sangue mostrano concentrazioni superiori ai 2 nanogrammi per millilitro, ovvero il limite individuato dalla National Academies of Sciences (NAS) e adottato anche dal protocollo della Regione Piemonte.
Oltre questi valori scatta l’allarme per la salute umana. Il biomonitoraggio indipendente è stato realizzato e coordinato lo scorso maggio da Ánemos, Greenpeace Italia e Comitato Stop Solvay, con la partecipazione di alcune frazioni del Comune di Alessandria, Spinetta Marengo compresa.
E nel resto del paese? Secondo Greenpeace Italia sono almeno sedici le regioni i cui corsi d’acqua sono contaminati da PFAS. L’inchiesta dell’associazione, presentata il 28 maggio scorso alla Camera dei deputati, è basata sul database dell’Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nonché organo tecnico-scientifico del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio.
“La percentuale di valori positivi ai PFAS varia da Regione a Regione, anche a seconda dell’accuratezza delle misurazioni effettuate dai diversi enti pubblici. Più una Regione fa controlli e utilizza strumenti precisi e all’avanguardia, più è probabile che venga rilevata una positività da PFAS durante i monitoraggi. Basilicata (31%), Veneto (30%) e Liguria (30%) sono le Regioni con la più alta percentuale di analisi positive rispetto ai controlli effettuati tra il 2019 e il 2022. Anche altre sei Regioni (Lombardia, Toscana, Lazio, Umbria, Abruzzo, Campania) presentano un tasso di positività superiore al 10% nel periodo preso in considerazione”.
Ma in alcune aree i controlli ambientali sono ancora pochi, frammentari o assenti. Ad esempio in Puglia, Sardegna, Molise e Calabria, dal 2017 al 2022, non risulta alcun controllo sulla presenza di PFAS nei corpi idrici.
Il Governo nel 2019 non ha fatto nulla nonostante le raccomandazioni dell'ISS
Sempre Greenpeace ha divulgato un documento inedito che svela come nel 2019 – e dunque cinque anni prima che l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dichiarasse cancerogeno il PFOA e possibile cancerogeno il PFOS (anch’essi inquinanti eterni) – l’Istituto Superiore di Sanità avesse raccomandato l'adozione di “valori specifici più cautelativi” per la salute umana circa la presenza di queste due sostanze nell'acqua potabile. Ma il Governo non ne ha tenuto conto, come dimostra il decreto n.18 del 23 febbraio 2023 che ha recepito la direttiva UE 2020/2184. Come scriveva Il Fatto Quotidiano (che ha pubblicato in esclusiva i contenuti):
“Sottolineandone la pericolosità, l’Iss indicava parametri di 0,030 microgrammi (30 nanogrammi) per litro nel caso del Pfoa, l’acido perfluoroottanoico e di 0,065 microgrammi (65 nanogrammi) per litro per il Pfos, l’acido perfluoroottanosolfonico. La direttiva europea 2184, invece, fissa il limite a 100 nanogrammi per litro per la somma di venti Pfas (24 in Italia) e cinquecento nanogrammi per tutti i Pfas (gli oltre 10mila). E mentre molti paesi sono corsi ai ripari, fissando limiti a livello nazionale, l’Italia non ha seguito le raccomandazioni dell’Iss”.
I PFAS sono stati rinvenuti in tutto il mondo e in una moltitudine di ambienti tra cui acqua di superficie, sotterranea e potabile. Gli impianti di produzione sono di certo le più importanti fonti di contaminazione, seguiti dalle emissioni provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue municipali e industriali. Al momento sono in via di sperimentazione nuove tecniche per una reale depurazione delle acque contaminate; in assenza di idee innovative, l’unica soluzione è eliminare a monte la causa dell’inquinamento.
Gli esseri umani si espongono ai PFAS consumando acqua o cibo contaminati (vale anche la contaminazione derivante dall'imballaggio degli alimenti) o utilizzando prodotti realizzati con PFAS (dai recipienti di cucina resistenti al fuoco al filo interdentale, dalle protesi chirugiche al make-up, o respirando aria contaminata).
L’anno scorso fu l'inchiesta giornalistica “Forever Pollution Project” alla quale hanno collaborato diciassette media, tra cui Le Monde e Guardian, a rilevare ben 17mila siti contaminati da PFAS in Europa, di cui 2.100 a livelli pericolosi per la salute.
Immagine in anteprima: MountainFae, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons