Petrolio, referendum e Sblocca Italia: il gioco vale la trivella?
26 min letturaArticolo in partnership con i quotidiani locali del gruppo Espresso.
Ha collaborato Antonio Scalari
[Ringraziamo chi ha risposto alla nostra call lanciata su Facebook e ha contribuito a questo articolo suggerendoci letture, inviandoci contributi e link interessanti: Andrea Colasuonno, Francesco Dondi, Ilaria Bianchini, Pietro Dommarco, Riccardo De Cristiano, Sergio Ferraris, Tiziana Bisogno]
Aggiornamento 15 gennaio 2016: L'Abruzzo si sfila dal Referendum contro le trivellazioni e si costituisce in giudizio accanto al Governo contro le altre nove regioni che l'hanno promosso a settembre 2015. È questo l'ultimo colpo di scena di una vicenda che, negli ultimi sei mesi, sul piano politico e istituzionale ha visto mutare il quadro, dopo le novità sulla normativa inserite nella Legge di Stabilità 2016 approvata a metà dicembre e il parere sui quesiti referendari espresso la scorsa settimana dalla Cassazione, alla luce delle modifiche introdotte. A oggi, la Cassazione ha dichiarato ammissibile il referendum sulle trivellazioni in mare entro le 12 miglia marine e si attende il parere della Corte Costituzionale sui quesiti referendari e sulle norme riguardanti le perforazioni per l’estrazione di idrocarburi. La decisione della Consulta è prevista per il 19 gennaio 2016. Come si è arrivati a questa situazione?
Dopo aver impugnato la legge regionale abruzzese che che vietava di trivellare lungo le coste dell'Abruzzo entro le dodici miglia marine, perché invasiva di “materie di esclusiva competenza statale", a metà dicembre il Governo ha presentato alcuni emendamenti nella Legge di Stabilità 2016 che sembravano recepire alcuni contenuti dei quesiti referendari presentati dalle dieci regioni lo scorso settembre. In base alle modifiche introdotte, le attività petrolifere non sono più opere strategiche, indifferibili e urgenti, ma diventano “opere di pubblica utilità”; non c'è più il "vincolo preordinato all'esproprio" già a partire dalla fase di ricerca idrocarburi ed è salvo il diritto di proprietà del privato sulle aree interessate; non ci sono più quelle norme che consentivano al Governo di sostituirsi alle Regioni. Inoltre, uno degli emendamenti ripristina il limite delle dodici miglia anche per le licenze di trivellazione concesse prima del 2010. Contestualmente, il Governo non è intervenuto sulla limitazione della durata delle concessioni in mare e ha soppresso la norma che prevedeva il piano delle aree.
L’8 gennaio 2016 è arrivato il parere della Cassazione alla luce delle novità previste dalla Legge di Stabilità 2016. È stato ammesso il quesito sulle trivellazioni in mare. Come ha dichiarato il costituzionalista Enzo Di Salvatore, per quanto il Parlamento abbia «accettato di modificare la norma del codice dell'ambiente, che consentiva la conclusione dei procedimenti in corso, prevedendo, però, che i permessi e le concessioni già rilasciati non avessero più scadenza, (...) la Cassazione ha ammesso che la modifica del Parlamento non soddisfa la richiesta referendaria, in quanto non corrisponde alle reali intenzioni dei promotori del referendum». In caso di vittoria del referendum, il legislatore non potrà più rimuovere il divieto di cercare ed estrarre gas entro le 12 miglia e il ministero dello sviluppo economico dovrà chiudere definitivamente i procedimenti in corso.
Due quesiti – quelli relativi alla durata dei permessi e delle concessioni e alla definizione del "piano delle aree" – sono stati respinti dalla Cassazione. In particolare, in quest'ultimo caso, il Parlamento ha soppresso la norma che prevedeva il piano e, in questo modo, è caduto anche il quesito referendario. «Lo Sblocca Italia – spiega ancora Di Salvatore – prevedeva che il piano dovesse essere elaborato dal Ministero dello Sviluppo Economico con la partecipazione fittizia degli enti locali e delle Regioni. Nel frattempo sarebbe stato possibile rilasciare permessi e concessioni. Il quesito referendario aveva due obiettivi: cancellare la partecipazione fittizia degli enti locali e vietare nuovi rilasci fino all’adozione di un piano. Solo che il Parlamento ha soppresso la norma che prevedeva il piano, facendo così cadere anche il quesito referendario».
I quesiti sulla strategicità delle attività petrolifere, sull’esproprio delle aree di proprietà privata e sul conflitto Stato/Regioni sono stati ritenuti superati alla luce delle modifiche introdotte in Legge di Stabilità.
Il 19 gennaio è attesa la decisione della Corte Costituzionale. Sui due quesiti respinti, sei regioni (Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Campania e Puglia) si sono impegnate a sollevare un confltto di attribuzione per trascinare il Parlamento in giudizio presso la Consulta, per mostrare che le modifiche apportate al decreto Sblocca Italia (in riferimento alle estrazioni di idrocarburi) attraverso la legge di stabilità restano elusive. Qualora la Corte Costituzionale annullasse le norme introdotte, i quesiti sulla durata dei permessi e sulla definizione del piano delle aree e delle competenze Stato/Regioni tornerebbero ammissibili, visto che la Cassazione aveva già dato il suo ok a fine novembre.
Intanto lo scorso 22 dicembre il Ministero dello Sviluppo Economico ha dato il permesso di ricerca idrocarburi alla Petrolceltic Italia srl (che fa capo all'irlandese Petroceltic International) al largo delle Isole Tremite, nei pressi del parco naturale del Gargano, al largo di Foggia. Secondo il documento del Ministero dello Sviluppo Economico, pubblicato il 31 dicembre, che assegna le concessioni alla ricerca e allo sfruttamento, ci si trova di fronte a 90 permessi di ricerca per la terraferma e 24 per i fondali marini.
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Lo scorso settembre i rappresentanti di 10 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto) hanno depositato in Cassazione sei quesiti referendari su alcune norme riguardanti la ricerca e l’estrazione di petrolio in Italia.
È questo, per ora, l’ultimo atto di una querelle su politiche di sviluppo energetico e tutela dell’ambiente e del territorio che, negli ultimi anni, ha visto protagonisti enti, associazioni e industriali.
Al referendum si è arrivati dopo che sette regioni e due province, nel gennaio scorso, avevano presentato ricorso contro il decreto “Sblocca Italia” in Corte Costituzionale, movimenti ambientalisti e comitati locali avevano organizzato manifestazioni lungo le coste interessate da nuove richieste di trivellazioni, i comuni avevano emesso ordinanze sindacali di divieto e sospensione delle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi riguardanti i propri territori e i bacini marini antistanti e associazioni avviato campagne di mobilitazione.
Per quello che si legge, sembra di essere di fronte a una battaglia tra sostenitori del progresso ed eco-reazionari, in una polarizzazione che contrappone tesi speculari che si escludono reciprocamente: il sì al progresso e il no alla sicurezza dell’ambiente, il no allo sviluppo e il sì alla tutela del territorio.
Il quadro è, invece, molto più sfaccettato e complesso. Di recente, ad esempio, il presidente della Federpetroli, Michele Marsiglia, ha criticato l’eccessiva centralizzazione di poteri prevista dallo “Sblocca Italia” e auspicato un maggior coinvolgimento degli enti territoriali e degli abitanti. Nella stesura del Green Act, inoltre, parrebbe che il Ministero dell’Ambiente stia rivedendo le norme dello “Sblocca Italia”, che qualificano le attività di ricerca di idrocarburi come "interesse strategico" e trasferiscono dalle Regioni allo Stato la competenze per il rilascio dei titoli minerari.
Sullo sfondo resta una questione: lo sviluppo energetico del nostro paese deve passare per l’energia derivante da combustibili fossili o per le fonti rinnovabili, visto che nella Strategia Energetica Nazionale del governo (2013) si leggeva che «tra le fonti di energia, il gas e le rinnovabili sono sempre più in espansione, a scapito soprattutto del petrolio, che perderà quote di mercato»?
Il post lo abbiamo suddiviso nei seguenti capitoli:
1) Referendum: i sei quesiti presentati dalle Regioni2) Una questione di metodo: le competenze tra Stato e Regioni
3) Una questione di merito: le ricerche di idrocarburi sono “opere strategiche, urgenti e indifferibili”?
4) Gli idrocarburi in Italia
5) Il fabbisogno e la speranza del raddoppio della produzione
6) Le Royalties fanno la felicità?
7) La qualità del petrolio
8) L'impatto ambientale: il rischio subsidenza
9) La tecnica air-gun
10) Il gioco vale la trivella? Per noi no, ecco perché
1) Referendum: i sei quesiti presentati dalle Regioni
I sei quesiti chiedono l’abrogazione dell'art. 35 del "Decreto Sviluppo" del 2012, di parti dell'art. 38 del decreto "Sblocca Italia" e di alcuni provvedimenti specifici previsti sulla concessione dei titoli minerari, contenuti nella legge 239/2004.
Su cinque dei sei quesiti è attesa la decisione della Consulta, che si pronuncerà tra gennaio e aprile 2016. – *aggiornamento del 17 ottobre 2015 ore 13:21 – La Corte Costituzionale renderà nota la propria decisione entro febbraio 2016. Su cinque dei sei articoli, oggetto del referendum, si attende, inoltre, il parere della Consulta, che si pronuncerà tra gennaio e aprile 2016.
Nel loro insieme i quesiti coniugano una questione di metodo a una di merito. Nel metodo, cercano di neutralizzare la centralizzazione nelle mani dello Stato delle competenze sulle materie energetiche. Nel merito, vogliono abrogare quelle norme che fanno della ricerca e coltivazione degli idrocarburi in Italia una questione di strategicità e pubblica utilità e che rendono possibile cercare ed estrarre gas e petrolio anche entro le dodici miglia dalle nostre coste, soglia limite definita dal cosiddetto “Decreto Prestigiacomo” del 2010 dopo l’inabissamento nel Golfo del Messico della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon.
2) Una questione di metodo: le competenze tra Stato e Regioni
Nel metodo, il secondo, il quarto e il quinto quesito si propongono di porre rimedio al depotenziamento del ruolo delle Regioni e degli enti locali in sede di approvazione del piano delle aree per le attività di ricerca e di estrazione degli idrocarburi e a rivedere le modalità della trattativa Stato/Regioni per il rilascio dei titoli minerari.
Nel caso specifico, viene posto nel mirino l’art. 38, comma 1-bis del decreto Sblocca Italia, per come è stato modificato dalla Legge di Stabilità (art. 1, comma 554, L. 190/2014): le regioni hanno 6 mesi per esprimere, attraverso la Conferenza unificata, il proprio parere per la predisposizione del piano delle aree dove trivellare. Se non c’è l’intesa o se le Regioni non esprimono un parere, la presidenza del Consiglio entro 60 giorni assume in autonomia la decisione.
Però, come spiega Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale italiano e comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza di Teramo, in un’intervista a cura di Pietro Dommarco su Qualenergia.it: «un conto è se gli Enti territoriali non si pronunciano in alcun modo, e allora l’inerzia può essere superata velocemente dallo Stato con l’esercizio del potere sostitutivo. Altro conto è se si esprimono ma dichiarando di non essere d’accordo». «In questo caso – conclude Di Salvatore – lo Stato non può superare unilateralmente il dissenso manifestato, ma è tenuto ad avviare una reale trattativa».
3) Una questione di merito: le ricerche di idrocarburi sono “opere strategiche, urgenti e indifferibili”?
Il primo quesito affronta la questione della stratetegicità delle trivellazioni dichiarate «di pubblica utilità, urgenti e indifferibili», come previsto dell’art. 38 dello “Sblocca Italia”.
In questo modo, però, «c’è il pericolo – continua il costituzionalista Di Salvatore – che si utilizzi il criterio di strategicità con eccessiva disinvoltura per superare impasse tra Regioni e Stato per l’esecuzione delle opere, mettendo a duro rischio la costituzionalità delle prerogative assunte dallo Stato, chiamato a operare come una Regione».
Contro il procedimento unico che prevede entro 180 giorni il rilascio del titolo concessorio, ovvero l’autorizzazione, riguardante sia la fase di ricerca che quella di coltivazione di idrocarburi (cfr. art. 38, commi 5 e 6) si pone il terzo quesito.
In precedenza il permesso di ricerca era rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipavano gli enti locali coinvolti e consentiva solo lo svolgimento delle attività di prospezione, esclusa però la perforazione dei pozzi esplorativi. Infatti per scavare occorreva un’apposita autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale competente, rilasciata dopo valutazione di impatto ambientale.
Il sesto quesito, infine, riguarda quelle norme che definiscono i limiti entro i quali non si può trivellare. Le acque italiane sono distinte in otto aree, istituite con leggi e decreti ministeriali, denominate “zone marine” e identificate con le lettere dell’alfabeto.
Negli anni, ai fini della salvaguardia delle coste e della tutela ambientale, sono state introdotte delle limitazioni alle aree dove è possibile svolgere le attività minerarie. Il decreto Prestigiacomo del 2010 stabiliva il divieto di ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle aree marine e costiere protette entro le 12 miglia dal perimetro esterno.
Nel 2012, il Dl “Misure urgenti per la crescita del Paese” del governo Monti ha esteso il limite previsto dal precedente decreto all’intero litorale nazionale e ha stabilito che le richieste delle compagnie debbano essere sottoposte alla valutazione di impatto ambientale e al parere degli enti locali interessati.
Questa rimodulazione – ratificata dal Decreto Ministeriale 9 agosto 2013 – ha ridotto del 44% la superficie totale delle zone marine aperte alle attività minerarie. Tuttavia, come si legge nelle decreto, tale divieto si applica solo alle istanze presentate successivamente all’entrata in vigore del già citato Dl Prestigiacomo, ovvero dopo il 20 giugno 2010, salvando, di fatto, tutte le richieste già presentate e le concessioni precedentemente autorizzate.
Come sottolinea il Wwf, pur ricadendo nelle aree interdette dal DM 9/2013 sono del tutto valide, ad esempio, l'istanza di coltivazione Ombrina Mare (a 6 km dall’istituendo parco della Costa Teatina in Abruzzo) della Medoil Gas, il permesso di ricerca di AUDAX di 657 kmq a Pantelleria nel Canale di Sicilia, le otto istanze di permesso di ricerca della baia storica di Taranto.
*aggiornamento del 17 ottobre 2015 ore 20:49 – Lo scorso 13 ottobre, il ministero dell’Ambiente ha dato il via libera a due istanze di ricerca nel Golfo di Taranto, presentate dalla Shell nel novembre del 2009 (e pertanto esentate dal divieto di estrazione entro le 12 miglia marine, soglia limite stabilita dal Decreto Prestigiacomo), nonostante siano vicine a Siti di Importanza Comunitaria e le Regioni Puglia e Basilicata (quest’ultima presenterà ricorso) abbiano espresso parere negativo.
Le due aree individuate sono lungo la costiera calabrese, lucana e pugliese: una a 12 miglia alla Zona di Protezione Speciale (ZPS) “Alto Ionio Cosentino” e l’altra a 8 miglia marine dalla spiaggia di Trebisacce e vicina ai Siti di Importanza Comunitaria (SIC) “Amendolara” (a sole 1,16 miglia) e “Fondali Crosia-Pietrapaola-Cariati” (5,7 miglia).
I due decreti di compatibilità ambientale firmati dal ministro Galletti prevedono diverse prescrizioni che la Shell dovrà rispettare, a sottolineare i rischi da cui cautelarsi prima e durante le ricerche. La compagnia petroliferà dovrà concordare con l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) un cronoprogramma dettagliato delle ricerche in modo tale da non sovrapporsi con altri progetti previsti dalla stessa compagnia in aree circostanti, rispettare i periodi di fermo biologico della pesca marittima, effettuare le attività di indagine al di fuori dei periodi di deposizione delle uova, di riproduzione e reclutamento delle principali specie ittiche. Modellare, inoltre, la potenza acustica per minimizzare danno e rischi ai mammiferi marini eventualmente presenti e, nella aree di transito di specie da salvaguardare, evitare l’intrappolamento accidentale di tartarughe marine. Infine, ridurre il rischio di versamenti accidentali di oli, carburanti, sostanze tossiche e inquinanti liquidi.
4) Gli idrocarburi in Italia
Le aree più ricche di idrocarburi nel nostro paese sono l’Alto Adriatico e la Pianura Padana (gas e olio), il Bacino di Pescara (olio e gas), l’Adriatico meridionale (olio e gas), l’Appennino meridionale (olio), la Fossa Bradanica in Puglia (gas e olio), l’offshore calabro (gas), la Sicilia centrale (gas), il Bacino Pelagico (olio). In particolare la Val d’Agri (Potenza) e l’area di Villafortuna-Trecate (Novara) costituiscono giacimenti petroliferi storici.
Oltre che in Basilicata, dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale, le regioni in cui sono presenti pozzi a terra sono l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte, la Sicilia e la Toscana (con i giacimenti nelle aree di Grosseto e Pisa).
A oggi i permessi di ricerca già concessi sono 107: 84 su terraferma e 23 sul fondale marino.
a) Le istanze di permesso di ricerca sulla terraferma
Al 30 settembre 2015 i procedimenti in corso per la richiesta di permessi di ricerca sono complessivamente 56, di cui due istanze in fase pre - istruttoria, 43 in corso di valutazione ambientale, 10 in fase di conferimento e una in corso di rigetto.
b) Le istanze di permesso di ricerca in mare
Al 30 settembre 2015, i procedimenti in corso per la richiesta di permessi di ricerca sono complessivamente 41: 10 in fase pre - istruttoria, 23 in corso di valutazione ambientale e
8 in fase di emanazione di decreto di conferimento.
Dall’emanazione del “Decreto ministeriale 9 agosto 2013”, sono pervenute 19 nuove istanze: 13 nel mare Adriatico (zone marine A, B e F) al largo delle coste romagnole, marchigiane, abruzzesi e pugliesi e 6 nel mare Ionio (zona marina F) di fronte alle coste pugliesi, lucane e calabresi.
5) Il fabbisogno e la speranza del raddoppio della produzione
L’approvazione dello “Sblocca Italia” ha dato l’occasione per parlare della possibilità di raddoppiare la produzione di idrocarburi, ridurre la dipendenza di gas e petrolio dalle importazioni dai paesi esteri e risanare la nostra economia.
Chi, in genere, sostiene queste posizioni pone la questione di come rendere sostenibile il nostro fabbisogno energetico su un piano squisitamente politico e non considera che le risorse si consumano nel tempo. Ma le nostre riserve non sono come la borsa di Mary Poppins.
A monte, poi c’è un equazione tutta da dimostrare: raddoppiare le estrazioni significa automaticamente raddoppiare la produzione di petrolio utilizzabile? E, alla luce anche dell’andamento del mercato del petrolio (piuttosto fluttuante) e della qualità del nostro petrolio (che come vedremo è di qualità medio/bassa e, pertanto, costa tanto raffinarlo e non vale tanto sul mercato), incrementa i guadagni dello Stato? Infine, siamo proprio certi che sia ancora l’energia fossile l’unica via per la sostenibilità energetica?
Come si legge nel documento “Il mare”, a cura del MISE, tra il 1991 e il 2014, l’attività di ricerca di nuovi giacimenti ha visto negli anni Novanta il suo massimo periodo di espansione, con una media di circa 80 nuovi pozzi perforati all’anno, una parte dei quali di tipo esplorativo.
Negli anni Duemila, c’è stato un assestamento (intorno a poco più di 20) del numero di pozzi mentre sono andate gradualmente riducendosi le perforazioni in mare. Nell’ultimo decennio si è assistito, infatti, a una progressiva diminuzione dell’attività di ricerca di nuovi giacimenti. In particolare dal 2008 al 2014 sono stati effettuati meno di 20 nuovi pozzi all’anno, nessuno dei quali di tipo esplorativo. Poco incoraggianti i dati sui ritrovamenti: solo 11 pozzi esplorativi con esito positivo a gas e il solo pozzo “Ombrina Mare 2 dir” con esito positivo a olio.
Nel 2014, la produzione di idrocarburi in Italia ha soddisfatto quasi il 10% del consumo totale nazionale. I nostri giacimenti hanno prodotto 7.286 milioni di metri cubi di gas (e di questi, 4.863 milioni, pari al 67%, in mare) e 5,75 milioni di tonnellate di petrolio (di cui solo 0,75 milioni in mare).
Secondo i dati forniti dal MISE nel rapporto “La situazione energetica nazionale 2014” dello scorso luglio, le importazioni nette (al netto delle scorte accumulate) hanno soddisfatto circa il 90% della domanda. Le importazioni di greggio, semilavorati e prodotti petroliferi nel 2014 (pari a 70,6 milioni di tonnellate) sono diminuite complessivamente dell’8,8% rispetto al 2013.
Sempre secondo i dati del MISE, nel 2014 si è registrata una riduzione del consumo interno lordo di petrolio e prodotti petroliferi dell’1,8% e di gas naturale dell’11,6% rispetto al 2013. Quindi, rispetto all’anno precedente, abbiamo importato e consumato meno petrolio e meno gas.
Per quanto riguarda il petrolio, infatti, il fabbisogno energetico lordo del paese nel 2014 è stato di 166,43 milioni di tonnellate (Mtep), con un calo del 3,8% rispetto al 2013 e toccando, in termini assoluti, il valore più basso da 18 anni.
Anche il consumo di gas naturale, pari a 61,9 miliardi di metri cubi, è sceso registrando un valore simile a quello nel 1998.
Inoltre, la diminuzione del consumo di petrolio e gas naturale è avvenuto in un anno in cui, si legge ancora nel rapporto del MISE, la produzione nazionale di fonti energetiche è cresciuta complessivamente del 2,8% rispetto all’anno precedente.
Disaggregando per fonte i dati relativi alla produzione di combustibili fossili si evidenzia l’aumento della produzione di petrolio (+4,8%) e la crescita delll’energia prodotta da fonti rinnovabili (+4,7%), mentre diminuisce sensibilmente la produzione dei combustibili solidi (-11,7%) e del gas naturale (-7,6%).
Nell’offshore italiano (cioè le piattaforme in mare) al 31 dicembre 2014 erano presenti 724 pozzi attivi dei quali 361 in produzione (305 produttivi a gas e 56 produttivi ad olio), 349 potenzialmente produttivi ma non eroganti e 14 utilizzati per monitoraggio e altri scopi. Di questi, 305 sono pozzi produttivi a gas e solo 56 a olio.
Secondo una stima elaborata dal Sole24Ore, attualmente le risorse italiane verificate ammontano a 84,8 milioni di tonnellate di petrolio e 53.713 milioni di standard metri cubi di gas naturale.
Tuttavia, si legge nell’articolo, il sottosuolo italiano potrebbe ospitare circa 700 milioni di tonnellate di petrolio e metano, la maggior parte dei quali si troverebbe al Sud Italia e in Sicilia.
Le stime sulle quantità di petrolio e metano che il nostro sottosuolo potrebbe ospitare sono, però, di difficile verifica. Come si legge sul sito del MISE, «si tratta naturalmente di stime, cui si deve attribuire un notevole coefficiente di incertezza, dato che sono basate su considerazioni speculative derivate dalle esperienze di precedenti lavori».
Nel 2006, proprio il MISE aveva calcolato negli anni la produzione di oltre 700 miliardi di metri cubi di gas e 140 milioni di tonnellate di petrolio in Italia, e risorse ancora da produrre per circa 150 miliardi metri cubi e 110 milioni di tonnellate di olio da giacimenti già scoperti. Questo faceva pensare all’Italia come un paese ormai "maturo", ma con potenzialità residue (riserve ancora da scoprire) dell'ordine di 170 miliardi di metri cubi di gas e di 110 milioni di tonnellate di olio.
Le riserve di gas e petrolio presenti alla fine del 2006 corrispondevano a un quantitativo di petrolio pari ad 1 anno e 3 mesi di consumi oppure a 18-20 anni di produzione nazionale (qualcosa meno di 6 milioni di tonnellate all'anno) e un quantitativo di gas pari a poco più di 2 anni di consumi oppure a 13-14 anni di produzione nazionale (10,8 miliardi di mc all'anno).
Nel 2009, il Siteb (Associazione Italiana Bitume e Asfalto Strade) aveva calcolato riserve di petrolio pari a 129 milioni di tonnellate circa.
Dati fluttuanti, dunque, e stime di difficile elaborazione. Tuttavia, in sede di approvazione dello “Sblocca Italia”, la sola possibilità di poter cercare nuovi pozzi, che il decreto concedeva, ha fatto parlare di raddoppio della produzione di idrocarburi e, quasi fosse un’equazione, di benefici per il bilancio statale, per l’occupazione e l’autonomia energetica del paese.
Assomineraria prefigurava 80 nuovi progetti da avviare nell’arco di 4 o 5 anni e un investimento pari a 17 miliardi di euro per mettere in produzione le riserve già scoperte, attuare piani di ricerca per identificare nuovi siti e promuovere impianti per lo stoccaggio in giacimenti esauriti di gas naturale.
Effetti? Raddoppio della produzione nazionale di idrocarburi – secondo l’Associazione – nel giro di 5-7 anni e prolungamento delle riserve domestiche fino almeno al 2050. Ricadute importanti nei territori locali interessati dalle trivellazioni in termini di occupazione (100mila unità lavorative impiegate negli impianti) e gettito delle royalties sull’estrazione e la raffinazione (stimato in 60 miliardi di euro). Riduzione, infine, del 10% del fabbisogno estero di energia e un calo delle bollette energetiche di oltre 200 miliardi di euro in 20 anni.
In altri termini, trivellare è considerata la via per il risanamento dell’enorme debito pubblico dell’economia italiana. «Non è soltanto un’opportunità, è un dovere», aveva dichiarato in un’intervista il presidente di Nomisma, Davide Tabarelli.
Una soluzione che – come si legge ancora oggi in un recente articolo del Sole24Ore – permetterebbe all’Italia di sfruttare importanti riserve di petrolio e gas naturale dal potenziale però inespresso a causa di iter procedurali troppo lunghi e complessi, delle frammentazioni delle competenze tra Stato e Regioni e dell’interdizione delle attività di estrazione offshore in molte aree dei nostri mari.
Queste posizioni tendono a considerare le riserve di idrocarburi praticamente infinite e a dare per scontato che ci sia un rapporto di causa effetto tra scoperta di nuove riserve, raddoppio della produzione di gas naturale e petrolio e aumento dell’autonomia energetica nazionale per soddisfare i consumi di energia.
Non è detto, però, che le cose stiano così perché:
- Le risorse non sono infinite e vengono consumate nel tempo.
- Non tutte le riserve sono utilizzabili, un giacimento è una complessa formazione geologica il cui sfruttamento implica un processo che si sviluppa nel tempo con una iniziale crescita della produzione fino a un livello di produzione costante per ogni pozzo e un successivo declino.
- Il processo di ricerca, coltivazione ed estrazione di idrocarburi non produce solo guadagni, dura anni e implica costi economici, energetici e ambientali.
Come scrive Luca Pardi, presidente di Aspo Italia (Associazione per il Picco del Petrolio) e autore del libro “Il paese degli elefanti”, «attingere a una risorsa petrolifera non è come attingere dalla scorta di vino in cantina. Le riserve italiane di idrocarburi sono molto limitate rispetto ai consumi.
Nel caso più ottimistico, cioè prendendo la somma di riserve certe, probabili e possibili si arriva a qualche anno dei consumi attuali. Ma se si considerano solo le risorse certe, cioè quelle per cui si stima una probabilità del 90% che possano essere estratte, la loro “durata” si riduce a pochi mesi sia per il gas che per il petrolio».
Inoltre, scrive sempre il presidente di Aspo Italia in un articolo pubblicato sulla rivista Sapere, valutando la quantità di riserve probabili e certe presenti in Italia (secondo le stime del Ministero dello Sviluppo Economico, pari a 177,90 Mt), gli anni necessari per raddoppiare la produzione e portarla da 6 a 12 milioni di tonnellate annue, la durata del periodo per cui si pensa che la produzione possa rimanere costante e il suo tasso di declino, potremmo garantire il raddoppio della produzione di idrocarburi solo per i prossimi cinque anni (dal 2016 al 2020). Tutte le altre stime presuppongono riserve cumulative superiori a quelle presenti.
In altre parole, conclude Pardi:
Dire che l’Italia è ricca di idrocarburi è come dire che il nostro è il paese degli elefanti perché ce ne sono due allo zoo di Pistoia e altri tre o quattro sparsi per i circhi.
6) Le Royalties fanno la felicità?
Le compagnie petrolifere che estraggono idrocarburi in Italia devono versare allo Stato delle royalties, ovvero una percentuale sulla base del petrolio o gas estratto.
Le royalties sono calcolate sui prezzi medi del mercato del petrolio e del gas e, quindi, sono strettamente legate all’andamento del mercato: se il prezzo del petrolio si abbassa, cala anche il loro gettito.
Dal 2010 per le estrazioni in terraferma è applicata un’aliquota del 10% sulle quantità di petrolio e gas estratti, mentre per le estrazioni offshore dal 2012 le royalties si differenziano in due aliquote: 10% sulla quantità di gas naturale estratto e 7% sul petrolio.
Le somme incassate vengono divise in questo modo:
Per il 2015 i versamenti effettuati dalle società e gli introiti per stato, comuni e regioni sono stati i seguenti:
Tra le regioni, la Basilicata, capofila della campagna referendaria, è anche quella che più ha ricavato dalle estrazioni.
Sulle royalties fanno leva, inoltre, due articoli dello “Sblocca Italia” – non toccati dai quesiti referendari presentati dalle dieci regioni – che puntano a incentivare la ricerca di idrocarburi: l’art. 36, che prevede l’estensione dell’esenzione del patto di stabilità (pari al gettito delle royalties) per quelle regioni che autorizzano attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi; l'art. 37, che prevede meccanismi tariffari incentivanti a favorire lo sviluppo di ulteriori prestazioni erogative di punta e che, secondo quanto detto dal Wwf in un’audizione alla Camera, potrebbe creare le premesse per una bolla idrocarburi.
Secondo gli studi di Nomisma, il raddoppio di produzione di idrocarburi porterebbe un aumento del gettito delle royalties che consentirebbe allo Stato di incassare circa 1,2 miliardi di euro l’anno per i successivi dieci anni.
Denaro fresco per le casse statali e per quelle regioni interessate dalle estrazioni che consentirebbe loro – come si legge in uno dei tanti articoli di questo tenore sul tema – di pagare scuole e ospedali.
Tuttavia, il rapporto di Nomisma è già datato e prende in considerazione un periodo in cui il prezzo del petrolio era più alto di quello attuale. Le stime andrebbero, dunque, rielaborate alla luce dell’attuale andamento del mercato del petrolio che, come mostrano le analisi della BP Statistical Review of World Energy 2015, è molto fluttuante e soggetto a congiunture di carattere geo-politico ed economico, alle politiche energetiche adottate e, ovviamente, alla qualità del petrolio estratto.
7) La qualità del petrolio
Altrettanto difficoltoso è capire la qualità del petrolio presente in Italia. Per quanto riguarda quello estratto nel mar Adriatico, come si legge su Petrolioegas.it, è scadente (pari a 9 gradi API), mentre, secondo le analisi presentate nel documento dell’Eni “World Oil and Gas Review 2014”, il petrolio della Val D’Agri, pur essendo tra i più leggeri, è ricco di zolfo, e quindi non di buona qualità perché soggetto a procedimenti più complessi, lunghi e costosi di raffinazione e smaltimento delle sostanze nocive. Il che comporta un valore di mercato basso.
Nel mondo sono prodotti, infatti, diversi tipi di petrolio. A distinguerli sono principalmente due caratteristiche: la densità e la percentuale di zolfo. La prima si valuta in gradi API (sigla dell’American Petroleum Institute, organizzazione che coordina e promuove l’industria petrolifera statunitense, che misura il peso specifico rispetto all’acqua di una miscela idrocarburica liquida. Meno il petrolio è denso, più è alto il valore dell’API.
Convenzionalmente un greggio si definisce pesante per valori minori di 25° API (ossia densità relative maggiori di 0,90), leggero per valori maggiori di 40° API (ossia densità relative minori di 0,83). I petroli leggeri e dolci (vale a dire con poco zolfo) sono più costosi di quelli pesanti o molto solforosi perché sono più pregiati, possono essere più facilmente lavorati per produrre benzina e diesel, la loro raffinazione è meno sofisticata.
A livello di scambi internazionali i petroli più importanti sono il Brent e il West Texas Intermediate, l’uno scozzese, l’altro statunitense, che prendono il nome dai giacimenti dove sono stati scoperti e poi estratti. Il Brent è oggi il petrolio di riferimento europeo, un prodotto molto leggero, risultato dell'unione della produzione di 19 campi petroliferi situati nel Mare del Nord. Il WTI è un petrolio americano, caratterizzato da un minore contenuto di zolfo rispetto al Brent e quindi più pregiato, leggero, utilizzato come greggio di riferimento nel mercato petrolifero americano (Nord e Sud America), quotato nella Borsa di New York nel 1983.
8) L'impatto ambientale: il rischio subsidenza
Tra le maggiori novità introdotte dallo “Sblocca Italia”, c’è la possibilità di presentare progetti di coltivazione di idrocarburi offshore (della durata di 5 anni prorogabili) che sperimentino nuove tecnologie di estrazione per limitare gli effetti di subsidenza sulle coste italiane, cioè l'abbassamento della superficie del suolo, causato da fenomeni naturali o indotto dall’attività dell’uomo.
I tempi di abbassamento del suolo sono lenti e su ampia scala se effetto di attività vulcanica e sismica; rapidi e circoscritti se conseguenza di attività antropiche, come l’estrazione di fluidi dal sottosuolo (in generale si tratta di estrazioni di acque dalle falde sotterranee per usi industriali, agricoli, civili, etc).
Tra le aree interessate dal fenomeno (come la pianura padano-veneta, la laguna veneta, la valle dell’Aniene), c’è il 90% del territorio dell’Emilia Romagna, oggetto di 37 concessioni già attive (1.774 kmq su 22.122kmq). Secondo i rilevamenti dell’Arpa, nelle adiacenze del giacimento di gas Angela-Angelina, negli ultimi 20 anni si è registrato un abbassamento di 80-90 centimentri sui fondali compresi tra i 3 e i 6 metri.
Nel 2014, la Commissione Ichese (International Commission on Hydrocarbon Exploration and Seismicity in the Emilia Region) ha pubblicato un rapporto sulle possibili relazioni tra le attività di estrazione di idrocarburi nel giacimento del Cavone e il terremoto che si è verificato in Emilia Romagna nel 2012, giungendo alla conclusione che è molto improbabile che le attività di estrazione abbiano indotto il sisma. Proprio il Cavone è oggi segnalato come modello di monitoraggio dell’impatto ambientale delle attività estrattive.
Sui risultati raggiunti dalla Commissione Ichese è nato un dibattito in ambito scientifico e pubblico attraverso giornali e social media. Come si legge su uno speciale dell'INVG (Istituto Nazionale Geofisica e Vulcanologia) a due anni dal terremoto in Emilia, «una valutazione complessiva di merito sarà però possibile solo dopo aver esteso le analisi dei molti dati prodotti dalla Commissione e quando saranno eseguite nuove indagini finalizzate ad una migliore comprensione della dinamica dei fluidi nei serbatoi carbonatici nel campo di Cavone e nell’area epicentrale».
Ha destato polemiche, infine, l’accordo tra Eni e il Comune di Ravenna, una delle aree più interessate da questo fenomeno, che prevede fondi (da 12 milioni di euro) proprio per testare i nuovi tipi di progetti di coltivazione di idrocarburi previsti dallo “Sblocca Italia”.
In una nota congiunta, Legambiente, Greenpeace e Wwf hanno espresso perplessità sulle finalità di tali “progetti sperimentali”. «Sinora – si legge nel comunicato – era al solo ministero dell’Ambiente che facevano capo gli studi sui rischi di subsidenza legati alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nell’Alto Adriatico, mentre con i "progetti sperimentali”, come fa presupporre lo stesso nome, si intende riavviare insieme con il Ministero dello Sviluppo Economico proprio quelle attività che erano state giustificatamente interdette per motivi ambientali e di protezione civile in questa delicatissima zona».
9) La tecnica air-gun
Un'altra critica mossa dai sostenitori del referendum riguarda le tecniche che dovrebbero essere utilizzate per la ricerca di idrocarburi in mare, in particolare quella nota come “air-gun”, una delle tecnologie di prospezione geofisica più diffuse.
La tecnica utilizza un sistema di tubi per espellere sotto la superficie del mare un getto di aria compressa. Le bolle d'aria quando implodono generano impulsi sonori ad alta intensità e bassissima frequenza che, propagandosi attraverso l'acqua, arrivano a colpire il fondale marino. Le onde sonore, riflesse e poi rilevate da un sistema di ricezione, permettono di ricostruire un’immagine della struttura del fondale, svelando, in questo modo, anche la presenza di sacche di gas naturale e petrolio.
Da tempo l'utilizzo di questa tecnica è al centro di controversie per i possibili danni che, secondo alcuni studi, è in grado di arrecare alla fauna marina, in particolare per quei mammiferi, come i cetacei, che sfruttano i suoni a bassa frequenza per la comunicazione, l'orientamento e l'individuazione delle prede.
L'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), nel rapporto tecnico “Valutazione e mitigazione dell’impatto acustico dovuto alle prospezioni geofisiche nei mari italiani”, elenca i potenziali effetti negativi che l'air-gun potrebbe provocare sulla fauna marina, da quelli fisiologici (danni al sistema uditivo e altre strutture e tessuti corporei) a quelli comportamentali (fenomeni di spiaggiamento). Nello stesso rapporto l'Ispra indica alcune misure di mitigazione che, nei diversi contesti ambientali in cui viene utilizzata la tecnica, è possibile adottare per limitare i potenziali effetti negativi sulla fauna marina.
Lo scorso marzo, approvando un emendamento al Disegno di Legge sugli ecoreati, il Senato introduceva il divieto di utilizzo della tecnica dell'air-gun «per le attività di ricerca e di ispezione del fondali marini finalizzate alla coltivazione di idrocarburi».
A maggio, la Camera, nella discussione sul disegno di legge, ha soppresso il divieto di impiego di questa tecnica, provocando aspre critiche da parte delle associazioni ambientaliste.
Molti hanno interpretato la retromarcia del parlamento come un favore nei confronti dell'industria petrolifera ma già a marzo, alcuni dei principali enti pubblici di ricerca erano intervenuti criticando l'approvazione dell'emendamento che introduceva il divieto, attraverso un comunicato firmato, tra gli altri, dal CNR, dall'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, dall'Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale, dalla Stazione zoologica Anton Dohrn e dallo stesso Ispra.
Gli enti firmatari del comunicato affermavano che:
Le emissioni di aria compressa in mare sono utilizzate da decenni per analizzare la struttura del sottosuolo tramite la tecnica della sismica a riflessione: sono l’unica o quantomeno la migliore possibilità che l’uomo ha per ricostruire la natura della crosta terrestre. […] La sismica a riflessione è utilizzata sia dalle compagnie di servizio che svolgono l’acquisizione per le società petrolifere, sia da enti di ricerca nazionali ed internazionali per fini propri di pura ricerca o per fini industriali. Il limite tra i due ambiti è indefinibile e proibire l’acquisizione di profili sismici per scopi petroliferi equivale a impedirlo anche per gli enti di ricerca. […] La discussione che ha preceduto l'approvazione dell'emendamento in aula è stata caratterizzata da numerose inesattezze scientifiche. […] Esistono procedure e linee guida codificate, prescriventi la presenza a bordo di osservatori specializzati (marine mammal observers) per limitare l’impatto di queste tecnologie in mare […] Le linee guida e direttive menzionate non negano le evidenze raccolte in ambito scientifico, del possibile impatto negativo prodotto dall’immissione di energia acustica durante le prospezioni del sottosuolo, e forniscono quindi precise indicazioni per evitare gli usi impropri che possono trasformare un rischio potenziale in un danno.
Alcune associazioni ambientaliste (Greenpeace, Legambiente e Wwf), nel rispondere alle obiezioni dagli enti di ricerca, hanno sottolineato che l'emendamento, alla lettera, prevedeva il divieto di impiego della tecnica air-gun solo per le attività di ricerca di idrocarburi.
Di fronte alla modifica del disegno di legge, gli ambientalisti hanno risposto che si sarebbe potuto introdurre un emendamento che escludesse dal divieto le attività di ricerca scientifica.
10) Il gioco vale la trivella? Per noi no, ecco perché
In base agli approfondimenti e allo studio fatto noi di Valigia blu riteniamo che il gioco non valga la trivella. Questa ovviamente è la nostra posizione. Ognuno può farsi la propria opinione in base ai dati e fatti sovraesposti.
Le impugnative alla Corte Costituzionale e i referendum depositati in Cassazione dalle Regioni per bloccare gli effetti di una legge dello Stato che accentra i poteri in nome della semplificazione dei processi decisionali, le ordinanze di sospensione emesse dai Comuni, le manifestazioni organizzate da movimenti territoriali e associazioni ambientaliste, i mezzi di informazione che poco hanno informato e hanno spostato la discussione quasi su questioni di principio contrapponendo due modelli di sviluppo pregiudizievolmente opposti, in questi ultimi anni, ci raccontano di un contesto che piano piano ha allontanato i cittadini (e con loro, gli enti territoriali) da un coinvolgimento nei confronti delle questioni ambientali e ci ha portato molto indietro nel tempo. Almeno di quindici anni, quando, nel 2001, l’Italia ratificava con la legge 108/2001 la Convenzione di Aarhus (1998), che prevedeva: l’accesso all’informazione ambientale; incrementare il contributo dei cittadini alle attività decisionali sull’ambiente e renderli consapevoli che la partecipazione non si limita all’esercizio del voto; l’accesso alla giustizia, cioè garantire che i cittadini possano ricorrere a procedure di revisione amministrativa e giurisdizionale qualora ritengano violati i propri diritti in materia di accesso all'informazione o partecipazione.
A questo ci richiamiamo.