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“Persone senza diritti”: gli ostacoli e le paure che le persone trans e di genere non conforme vivono insieme alle loro famiglie

3 Ottobre 2023 18 min lettura

“Persone senza diritti”: gli ostacoli e le paure che le persone trans e di genere non conforme vivono insieme alle loro famiglie

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Secondo alcune stime, in Italia le persone transgender sarebbero circa 400 mila e costituirebbero dunque una percentuale che va dallo 0,5% all’1% della popolazione generale. Senza dubbio si tratta di una sottostima, poiché questo numero difficilmente tiene conto di chi non ha ancora fatto coming out, di chi è in fase di esplorazione di sé e della propria identità di genere e di chi non si riconosce nel termine “transgender”, ma preferisce ad esempio l’espressione “genere non conforme”. 

Non avere dati certi è il primo segnale della poca cura e dello scarsissimo interesse che l’Italia rivolge a questa fascia di popolazione, le cui storie diventano rilevanti sul piano nazionale solo se funzionali a una narrazione stigmatizzante. Dai proclami contro la cosiddetta “ideologia gender” e “l’indottrinamento dei bambini”, usati da partiti politici di estrema destra e movimenti fondamentalisti cattolici come strumento di propaganda, a una visione ancora fortemente patologizzante dell’esperienza trans, la vita delle persone transgender e di genere non conforme in Italia è un percorso a ostacoli fatto di esclusione, paura, sguardi giudicanti e fortissime pressioni sociali. A raccontarlo sono loro stesse, insieme alle loro famiglie, che a Valigia Blu hanno spiegato cosa vuol dire essere una persona transgender e di genere non conforme in Italia.

La presa di coscienza di sé

Il percorso di affermazione di genere per le persone transgender e di genere non conforme ha inizio nel momento in cui prendono coscienza di sé e della propria identità e questo, per tante di loro, è avvenuto molto presto. “Mia figlia Marina”, racconta Claudia a Valigia Blu, “fin da subito ha manifestato degli interessi solitamente legati al genere opposto. All’inizio non abbiamo pensato a una varianza di genere, ma piuttosto a gusti personali, perché sua sorella più grande è sempre stata libera di vestirsi liberamente e di giocare con qualsiasi tipo di giocattolo. Quando Marina però ha cominciato a parlare, ha iniziato a riferirsi a sé al femminile, a correggerci e chiederci di trattarla da bambina, a usare un nome e pronomi femminili. Qualche mese fa ci ha chiesto di poter fare la transizione sociale e ormai tutti utilizzano con lei i pronomi femminili, i suoi amici, la famiglia e anche a scuola”. 

Per transizione sociale si intende il presentarsi alle altre persone con il proprio genere e non più con quello attribuito alla nascita e nel caso di Marina, oggi preadolescente, “non è stato un fulmine a ciel sereno”. “Nel corso degli anni”, ha infatti raccontato Claudia, “soprattutto quando era più piccola, lasciavamo Marina libera di portare a scuola e di utilizzare i giocattoli che voleva, di avere i capelli lunghi e mettere i fermagli nei capelli, e quando ha fatto la transizione sociale usava già gonne e vestiti da due, tre anni”.

Una storia simile la racconta Flavia, la mamma di una persona non binaria preadolescente che lei chiama “la mia creatura” e che “durante la crescita ha esplorato diversi pronomi, ma oggi chiede a noi di usare quelli che vogliamo mentre fuori di casa, per non dare troppe spiegazioni, si fa chiamare al maschile”. “Quando era molto piccola”, racconta Flavia, “parlava di sé al femminile e questo ha destato un po’ la nostra attenzione.  Io sono insegnante e linguista e, anche se alcune persone mi dicevano che era solo un problema di confusione linguistica, sapevo che non poteva essere così: nella mia esperienza, ho visto che le difficoltà di una persona che impara una lingua nuova, non sono mai relative al genere. All’inizio abbiamo semplicemente interpretato alcuni comportamenti come l'espressione di una persona che viveva in un contesto familiare in cui nessuno le diceva ‘questo è da maschio, quello è da femmina’”. Quando questa forzatura però è arrivata dall’esterno, con messaggi come “Devi comportarti in un altro modo, devi comportarti da maschietto”, le cose si sono fatte più complicate: “Aveva circa tre anni”, ha detto Flavia, “e lì ha iniziato a dimostrare una sofferenza molto forte, con crisi di pianto e momenti di grande rabbia”.

Anche la storia di Paola, adolescente bigenere (che quindi si identifica in entrambi i generi), ha inizio nell’infanzia. “Alle elementari non giocava con le bambole, odiava i vestiti e qualunque cosa avesse riferimenti femminili, e ha iniziato a fare domande come ‘Perché non mi hai fatto nascere maschio?’”, racconta la mamma di Paola a Valigia Blu, “Quando è arrivata la prima mestruazione, ha avuto una crisi forte, perché non l’accettava, era angosciata e disperata”. Quello di Paola comunque è stato un percorso molto lento, che è partito con una forte determinazione nell’identificarsi come ragazzo trans, per arrivare a comprendere di essere una persona bigenere. “Anche se io uso i pronomi alternati”, racconta la stessa Paola, “non ho mai rifiutato il mio nome femminile e non ho mai chiesto alle altre persone di chiamarmi in un altro modo”.

La difficoltà di informarsi e il ruolo delle associazioni

Una delle prime e più grandi difficoltà che queste famiglie hanno incontrato riguarda il reperimento di informazioni sul genere, l’identità, i servizi disponibili e il possibile percorso da fare in Italia. “Io ero ignorantissima su questi temi”, ha detto ad esempio la mamma di Paola, “infatti spesso ci si prendeva in giro col papà su chi ad esempio era più ignorante sulla terminologia. È stato un lavoro di reperimento delle informazioni e di studio che abbiamo fatto sempre da soli, su Internet, leggendo dei libri che ci erano stati consigliati, sui social network”. 

Per Flavia, invece, è stato importante studiare anche su fonti e testi stranieri, per capire come in altri paesi si parlava di identità transgender e non binarie. In tutti i casi, un ruolo centrale lo hanno avuto le associazioni. “Per noi è stato molto importante incontrare altre famiglie”, ha raccontato la mamma di Marina, “perché ci ha aiutato a leggere i segnali che lei ci mandava” e anche per capire che “non si è da soli” e che di “bambini e bambine con una storia simile ce ne sono molti di più di quelli che pensiamo”.

Un’associazione che in Italia si occupa di dare ascolto e supporto alle famiglie, oltre che fare formazione e ricerca, è GenderLens, che offre sia momenti di confronto, sia informazioni e consigli pratici. È stato soprattutto grazie a GenderLens, ad esempio, che Leo, ragazzo transgender, e sua mamma hanno scoperto tutto ciò che c’era da sapere per intraprendere un percorso di affermazione di genere in Italia che includesse il trattamento ormonale e chirurgico. 

Il percorso è di per sé già molto complesso. È necessario infatti rivolgersi a uno dei non tantissimi centri presenti sul territorio nazionale, ma le liste di attesa sono spesso molto lunghe. Inoltre la terapia ormonale viene solitamente preceduta da un percorso di psicoterapia di durata variabile. Per ottenere la rettifica dei documenti e sottoporsi a interventi di riassegnazione chirurgica bisogna rivolgersi al tribunale, presentare una diagnosi di “disforia di genere” e una perizia endocrinologica che attesti che la persona si è sottoposta a terapia ormonale sostitutiva, e attendere la decisione del giudice che potrà autorizzare o meno la rettifica dei documenti e/o gli interventi. “Io non riuscivo a prendermi tutto il carico di dovermi informare da solo”, ha detto a questo proposito Leo, “e mia mamma mi ha dato una grossissima mano”. Ripensando a quel periodo, Leo ha detto: “La difficoltà più grande è stata trovare un centro che lavorasse bene”.

L’esperienza di Flavia con un servizio sanitario che si occupa di identità transgender ad esempio non è stata molto positiva. Dopo aver parlato con il pediatra, “una persona completamente inconsapevole, che sottovalutava la questione e diceva che la mia creatura era una persona estrosa e che da grande avrebbe fatto l’artista e mi avrebbe dato filo da torcere”, e una psicologa, “una professionista dalla grandissima esperienza che con onestà mi ha detto ‘è la prima volta che mi si presenta un caso simile’ e che a un certo punto non sapeva più cosa fare”, Flavia ha trovato un ospedale in cui venivano affrontati questi temi: “Per la prima volta, ho trovato un’equipe di persone che sapevano di cosa si stesse parlando”. 

Il problema però era come ne parlavano: “Hanno cominciato a dire delle cose che non mi tornavano. Citando uno studio che poi ho scoperto essere molto discusso, sostenevano che l’80% di bambini come mio figlio in adolescenza desistono e si adeguano al genere attribuito alla nascita. E quindi dicevano valesse la pena fare capire che a casa poteva fare quello che voleva, ma fuori di casa la società si aspettava che si comportasse da maschietto. E io mi chiedevo: ‘Come fai a spiegare a un bambino di 3 anni che a casa può giocare con la bambola, ma fuori casa deve fare tutt’altro?’ Parliamo di bambini molto piccoli ai quali bisogna dare spiegazioni relativamente semplici”. Inoltre, Flavia pensava: “Mettiamo che questo studio sia valido: e se mio figlio fa parte di quel 20% che non desiste? Gli ho rovinato l’infanzia”. 

Nonostante tutto, Flavia ha continuato a frequentare i gruppi di supporto dell’ospedale per circa due anni: “Ascoltare i genitori di ragazzi più grandi mi aiutava tanto a capire che quel mio intuito che mi faceva pensare che reprimere mio figlio non fosse la cosa giusta si confermava: ho notato che la pressione che le famiglie facevano sui ragazzi per aspettare, con l’idea che magari si sarebbero potuti pentire, portava a dei risultati terribili. Se reprimi un bambino, a un certo punto esplode”.

La patologizzazione delle persone trans e di genere non conforme

Il problema principale è che “i centri e i servizi che oggi si occupano di identità di genere hanno una forte visione patologizzante delle persone transgender e soprattutto delle persone non binarie, la cui identità viene considerata non reale”, ha detto Flavia a Valigia Blu. “L'identità è una componente soggettiva”, ha spiegato, “perciò come può una terza persona dirmi qual è la mia identità? Specialmente se questa persona non è preparata ed è carica di pregiudizi”. Anche Claudia è della stessa opinione: “Allo stato attuale, in Italia, ogni step nel percorso di affermazione di genere di una persona che mira ad avere la rettifica anagrafica deve essere autorizzato da qualcuno di esterno, dai medici prima e da un giudice poi. In Italia ci sono criminali che non finiscono mai di fronte a un giudice, e invece una persona per avere il permesso di essere chi è deve avere l’autorizzazione di un tribunale”. Davanti a un giudice per ottenere l’autorizzazione c’è stato Leo, che ha chiesto una causa congiunta sia per la rettifica dei documenti sia per poter effettuare gli interventi di riassegnazione chirurgica. “Il giudice si è autodichiarato non in grado di valutare la mia situazione e ha delegato la decisione a una psicologa del tribunale”, ha detto Leo. Durante i due incontri fatti insieme, “la psicologa mi ha fatto domande assurde e mi ha chiesto tutta la mia vita nel dettaglio, su cose che non c’entravano niente, come il genere delle persone con cui avevo avuto rapporti sessuali”. L’orientamento sessuale e l’identità di genere, infatti, sono due concetti distinti e separati. “Però tu sei lì e capisci che devi rispondere per forza”, ha spiegato Leo a Valigia Blu, “perché a un certo punto del percorso, quando cominci a vedere come funzionano questi servizi e i vari enti che ti devono giudicare e dire ‘tu sei degno’ o meno, capisci che per forza di cose devi rispondere e anche mentire”. Perciò “ho detto di aver avuto rapporti sessuali solo con donne, perché altrimenti non l’avrei mai convinta, così come consapevolmente sono andato là vestito in modo estremamente maschile, cosa che nella vita di tutti i giorni non faccio, perché non mi interessa”. Alla fine, ha raccontato Leo, “Mi hanno concesso il cambio anagrafico, ma negato l’autorizzazione alle operazioni con quelle scuse un po’ campate in aria, del tipo ‘Hai tempo per pensarci’ e ‘Non c’è bisogno di affrettare tutto’. Avrei potuto fare ricorso, ma ho preferito andare all’estero”.

Una situazione se possibile ancora più sfiancante è, come dice Flavia, quella vissuta dalle persone non binarie: “Le persone non binarie che decidono di intraprendere un percorso di affermazione di genere vengono scrutate e forzate a mentire. Loro sanno che se vanno a parlare con lo psicologo di un centro, ad esempio, non possono mettere lo smalto sulle unghie, o si devono porre in un certo modo e dire determinate cose. La sofferenza poi è usata come strumento diagnostico: molte volte gli psicologi valutano se il ragazzo è transgender o meno in base a quanto soffre, quindi in qualche modo stanno spingendo le persone a soffrire o a dire di soffrire per dimostrare di essere ‘davvero’ trans”. Secondo Flavia, invece, bisognerebbe allentare la presa: “Per determinare se una persona è trans, basta chiedere alla stessa persona trans”. E a chi pensa che sia necessaria una valutazione esterna per legittimare la veridicità di un’identità transgender, Flavia dice: “Mi chiedo quanti di loro hanno mai parlato con una persona trans adolescente: chi è che si vuole incasinare la vita, che vuole essere discriminata a scuola, non sapere in che bagno poter andare, doversi confrontare con un dirigente scolastico che magari ti fa bullismo da quando hai iniziato il liceo?”

La scuola e le carriere alias

Trovare una scuola accogliente è molto complicato. Quando Paola frequentava le scuole medie, ricorda sua mamma, “ci sono stati alcuni episodi di prese in giro da parte dei compagni, perché si presentava come molto mascolina e si era tagliata i capelli”. “Non mi hanno mai insultato pesantemente”, racconta la stessa Paola, “ma mi facevano battute che erano poco piacevoli e si divertivano a stuzzicarmi con malizia e in maniera ripetitiva. Si era creato questo clima in cui io non stavo bene. Cercavo di non interagire, ma questo li divertiva di più”, ricorda Paola. 

Claudia, invece, ha raccontato la chiusura mostrata dalle maestre della scuola dell’infanzia frequentata dalla figlia Marina: “Le insegnanti l’hanno contrastata in tutti i modi e, quando poi ha dovuto iscriversi alla scuola primaria, ci hanno esplicitamente detto che avrebbero chiesto al dirigente scolastico che Marina venisse inserita in una classe con un insegnante uomo, perché secondo loro aveva bisogno di un modello maschile che le era mancato, nonostante in famiglia ci fosse comunque mio marito”.

Leo ha invece descritto la sua esperienza alle scuole superiori come “molto più tranquilla di altre che ho sentito”, ma nonostante ciò anche lui ricorda i problemi che ha avuto con i docenti nei primi anni: “Per quanto io avessi portato una lettera della psicologa e la richiesta di usare il nome e i pronomi giusti, gli insegnanti mi hanno completamente ignorato”. Negli anni successivi ha fatto richiesta per la carriera alias, per la quale ci hanno messo “una quantità di tempo ingiustificata”. Quando però l’ha ottenuta ha ricevuto molta tutela da questa: “Sono uscito dalle superiori e i miei compagni non hanno saputo nulla” del fatto che fosse un ragazzo trans, “perché non è mai venuto fuori”. 

Che cos'è la carriera alias?

La carriera alias è una procedura che permette agli studenti di essere registrati in tutti i documenti e atti della scuola o università con il proprio genere e il nome d’elezione e dunque non con quelli assegnati alla nascita. Si tratta di una tutela importante per le persone transgender e il loro percorso scolastico, perché non costringe a un continuo coming out e quindi protegge da aggressioni e discriminazioni, ed evita di subire costantemente la violenza di sentirsi chiamate col nome e i pronomi sbagliati.

In Italia non esistono linee guida nazionali per le carriere alias, quindi la loro introduzione è a discrezione della singola scuola o università. Secondo Claudia, questa è una discriminazione nella discriminazione: “Se hai la fortuna di nascere in una grande città e, anche all’interno delle stesse grandi città, in un determinato quartiere o in una determinata zona, allora hai molte più possibilità di essere tutelato rispetto ad altre zone”. 

Inoltre, le carriere alias oggi rappresentano anche uno dei bersagli principali della propaganda dei movimenti cattolici e di estrema destra in Italia. A dicembre 2022, ad esempio, Pro Vita & Famiglia Onlus ha inviato una diffida a 150 scuole con la richiesta di annullare le carriere alias. Secondo Claudia, anche se questa diffida “non aveva nessun valore legale, ha spaventato molti dirigenti scolastici, che non hanno voglia di mettersi a discutere con una certa parte politica che sa essere anche molto violenta nei toni e nelle manifestazioni”. Annullare una carriera alias vuol dire che studenti che “fino a quel momento a scuola sono conosciuti con un nome e un genere, si ritrovano con il nome anagrafico sul registro di classe e sono costretti a fare coming out”, ha spiegato Claudia. Solo poche settimane fa invece Fratelli d’Italia ha presentato una mozione, poi ritirata con l’intento di ridiscuterla a settembre, per vietare le carriere alias in Lombardia.

Il contesto sociale e politico

Dentro e fuori gli edifici scolastici, le persone transgender e di genere non conforme sono sempre sotto attacco. “La mia creatura ha subito microaggressioni di continuo da parte di altri bambini tanto quanto dagli adulti e oggi anche gente che non la conosce le urla contro se sia un maschio o una femmina”, racconta Flavia, che ha aggiunto: “La mia speranza sono le nuove generazioni, ma non dimentichiamo che la nostra è una società estremamente sessista, stereotipata dal punto di vista dei generi e discriminatoria nei confronti delle diversità”. 

Questo ha chiaramente un impatto sulla salute mentale delle persone transgender e di genere non conforme. “Il giorno del Pride”, continua Flavia, “io sono andata alla manifestazione mentre la mia creatura ha preferito andare in piscina col papà. Scherzando, le ho detto: ‘Hai una bella faccia tosta, tu vai in piscina e io vado a manifestare al posto tuo’. E lei mi ha risposto: ‘Io sono una persona discriminata, passo tutto l’anno a lottare contro le persone che mi discriminano. Oggi voglio andarmene in piscina’”. Questa consapevolezza l’accompagna fin da piccola: “Quando siamo andate a comprare il materiale scolastico per la prima elementare”, racconta Flavia, “ho voluto coinvolgere la mia creatura per capire cosa volesse, per assecondare le sue necessità e per vivere questo momento insieme in modo felice, ma a lei è venuto un attacco di panico in negozio e mi diceva ‘Mamma, scegli tu’, perché sapeva che se avesse scelto davvero per sé sulla base dei suoi gusti, questo avrebbe potuto crearle problemi a scuola. Questa indecisione se l’è portata negli anni a venire, un’indecisione che deriva dal chiedersi ‘Cosa mi posso permettere? Fino a dove mi posso spingere?’. Oggi è più rassegnata, quindi si veste da maschietto, ma ci sono stati momenti di una difficoltà enorme per lei, quando doveva prendere alcune decisioni su come mostrarsi e cosa preferire, e per noi, nel capire come assecondare le sue necessità e cosa è meglio fare tra incoraggiarla a spingersi un po' o aiutarla nella cautela”.

“Le persone transgender e non binarie”, ha detto Flavia, “maturano molto in fretta e questo da un lato può aiutarle, perché fanno presto i conti con la realtà; dall’altro lato però mi chiedo quanto può impattare questo essere così maturi a una certa età in un contesto sociale così limitante. Io stessa mi rendo conto che è difficile da capire, perché da una parte sono contenta che la mia creatura abbia le strategie per adeguarsi a un contesto senza mettersi in pericolo. Allo stesso tempo però è uno zaino pieno di pietre: un bambino a una certa età dovrebbe giocare e pensare solo a giocare, non a come sia ‘giusto’ giocare, se può tirare fuori la bambola, o se può essere se stesso quando incontra una persona nuova”. Anche Claudia ha parlato della maturità e della grande consapevolezza della realtà circostante che ha Marina: “Nelle settimane che sono seguite alla transizione sociale”, ha raccontato Claudia, “Marina era la persona più tranquilla del mondo e oggi è serena perché ha finalmente trovato la sua dimensione. Quando però ha cominciato a scontrarsi con quelle che sono le problematiche legate alla transizione sociale, la situazione si è fatta più tesa perché è consapevole che la strada è in salita”.

In un contesto che è già pieno di ostacoli, il clima politico attuale non fa che aggravare la situazione, hanno detto le famiglie che hanno parlato con Valigia Blu. “Non ho mai ricevuto così tanti insulti per strada come quest’anno”, ha raccontato ad esempio Leo. “Le discriminazioni e le violenze c’erano già prima, ma ora c’è una sorta di legittimazione e una mentalità di discriminazione e di non accoglienza, e penso ci sia da aver paura”, dice la mamma di Paola. E Paola aggiunge: “Qualcuno ha questa ansia che la comunità LGBTQIA+ voglia imporre alle persone la propria ‘cultura’, ma ovviamente non è così”.

 “Il clima sta diventando molto ostile”, conferma la mamma di Marina, “e molti si aspetterebbero che io dica che la situazione è peggiorata con il nuovo governo, ma in realtà ha cominciato a peggiorare dalla discussione del DDL Zan. Anche se già da qualche tempo circolavano le polemiche sul ‘gender nelle scuole’, non c’era mai stata un'attenzione simile nei confronti dei bambini e delle bambine transgender, come invece c’è stata in quel periodo”. Secondo Flavia, inoltre, “Non c’è un partito politico che si interessi delle persone trans, soprattutto di quelle più piccole, e quei pochi che hanno dimostrato un po' di interesse non sanno di cosa parlano, utilizzano termini scorretti e dicono cose inappropriate. Il problema poi non è solo questo governo, ma è tutta la rete di altri governi che stanno lavorando per zittirci, per patologizzare le nostre creature e per mettere in discussione la nostra capacità genitoriale, e questo è molto preoccupante”.

“Le persone transgender in Italia sono persone senza diritti”, ha aggiunto Flavia. E, come specifica anche Leo, sempre in allerta. “Mi capita a volte di essere per strada e a un certo punto prendere coscienza del fatto che io ogni due minuti mi guardo le spalle, perché ti senti costantemente in pericolo e questa è una cosa che cerco sempre di spiegare, soprattutto agli adulti: è una vita vissuta camminando sulle uova, non sapendo le persone che trovi davanti come possono reagire e non sapendo se la persona che ti ha urlato contro urlerà e basta o comincerà a rincorrerti”. La paura, gli insulti e le aggressioni che ha subito in passato non limitano però la voglia di Leo di essere se stesso: “Una vita vissuta nella paura è una vita sprecata. Quindi io continuerò sempre a fare quello che mi pare, a vestirmi come mi vesto e a comportarmi come mi comporto. Da solo non farò una differenza incredibile, però si passa dal cambiamento dei singoli per cambiare un gruppo”.

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Le tutele per le persone transgender e di genere non conforme in Italia

Per cambiare poi davvero le cose “servirebbe un cambio di rotta radicale rispetto a quello che abbiamo vissuto finora”, ha detto Flavia. Secondo Leo, già introdurre “le carriere alias in tutte le scuole per regolamento, e non solo nelle scuole superiori o università, sarebbe il primo passo verso la felicità”. Così facendo, “si aiuterebbero tutte quelle persone che dentro casa non possono esprimersi a sentirsi un po' più accolti almeno nell'ambiente scolastico, perché trovarsi in una situazione in cui a casa ti danno addosso e a scuola non ti vedono, vuol dire che alla fine non sai dove stare, non hai un posto sicuro dove poterti un secondo riposare”. Anche perché, dice Leo, “se la scuola non diventa un posto sicuro, le persone a scuola non ci vanno più”. L’abbandono scolastico tra le persone transgender è infatti molto alto. Pensando al fatto che tra tutte le persone transgender che conosce, Leo è l’unico che ha finito la scuola, ha detto: “È spaventoso, triste e scoraggiante. Ci vorrebbe qualcuno che desse la spinta, perché i dirigenti delle scuole attivano le carriere alias quando sanno che altri lo hanno già fatto”. Secondo Claudia, inoltre, più che di carriere alias, bisognerebbe “cominciare a parlare di ‘identità alias’, che dovrebbero essere garantite quindi non solo a scuola, ma anche sui trasporti pubblici, nelle biblioteche, in palestra”. E inoltre, dice, “serve una nuova legge che sostituisca la 164 che regola la rettifica anagrafica e che, per quanto quando è stata approvata nel 1982 fosse molto all’avanguardia, oggi è una legge molto vecchia, spesso soggetta a interpretazioni e che è molto concentrata sul percorso medicalizzato. Ci vorrebbe invece una legge che tuteli l'autodeterminazione delle persone transgender”.

Tutte le famiglie e le persone che hanno parlato con Valigia Blu poi concordano sull’importanza della formazione, che sia adeguata e “a tutti i livelli, dalle persone che hanno a che fare con l’infanzia ai giornalisti, che non possono essere superficiali o strumentalizzare queste tematiche che sono motivo di forte sofferenza per tante persone”, come ha detto Flavia. Anche l’educazione nelle scuole è centrale: Paola e sua mamma ad esempio credono sia importante “introdurre fin dalle elementari dei programmi di educazione sessuale informativa”. Infine, la formazione per le famiglie: “È fondamentale che le famiglie conoscano questi temi e abbiano a disposizione i termini giusti e le risorse per metterle a disposizione delle loro creature, per costruire un immaginario possibile della loro esistenza”, ha detto Flavia, “perché una delle cose più drammatiche è che le persone transgender e non binarie arrivano a una certa età senza avere un’idea della loro esistenza, senza potersi vedere rappresentate e riuscire a considerare la loro persona possibile di esistere”. Intanto, nonostante tutto, secondo la mamma di Paola qualcosa si sta già muovendo: “Anche se c’è ancora tanta ignoranza e chiusura”, ha detto infatti a Valigia Blu, “oggi c’è questa onda, questa spinta al cambiamento troppo forte che presto o tardi ci travolgerà”.

Immagine in anteprima via Consiglio d'Europa

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