Perché il giornalismo, invece di informarci, ci dice da che parte stare
6 min letturaIl libro di Federica Sgaggio, Il paese dei buoni e dei cattivi. Perché il giornalismo, invece di informarci, ci dice da che parte stare (Minimum Fax, 2011) centra un problema che investe la retorica giornalistica: la perdita di significato del linguaggio e dunque della funzione che il giornalismo dovrebbe avere, ovvero di mediare tra la complessità del reale e l’opinione pubblica. È una perdita di senso che avviene nel momento in cui la notizia, invece di essere uno strumento di informazione, diventa strumento per amministrare una comunità di lettori, promuovendo «una società cristallizzata in tifoserie avversarie» (p. 19). Un evento, in questa dinamica, non viene più visto come importante di per sé, ma in base alla capacità di soddisfare un’aspettativa emozionale:
Ai giornali non si chiede, da lettori, la dimostrazione della veridicità di un’affermazione, o dell’effettivo accadere di un evento. Piuttosto si chiede - e si ottiene, ed ecco perché viene da domandarsi se sia nato prima l’uovo o la gallina - una presa di posizione di principio che, per il suo essere chiara, semplice e senza mezze tinte, ci consenta il rispecchiamento. (p. 79)
In questo modo, però, alle parole è demandato lo scopo di creare meccanismi di identificazione, di plasmare specchi in cui il target di riferimento può vedere riflessa un’immagine che lo soddisfa, dove i buoni sono da una parte e i cattivi dall’altra, e dove le risposte sono sempre semplici e immediate. Si è partecipi della vita politica perché schierati da tifosi o emotivamente coinvolti, non in quanto attori politici o per esercizio di spirito critico: è la «democrazia della paletta» (p. 10) dove le adesioni ad appelli, i click compulsivi e le immagini profilo di Facebook sono surrogati di attivismo. Così nei casi di cronaca nera l’assassino è descritto come un mostro feroce, qualcuno tanto orribile quanto -per fortuna!- distante dal mondo del lettore. Una semplificazione che riesce ancora più facile quando l’assassino è uno straniero, un altro per eccellenza. Si arriva così a rovesciare le parole dell’Arcivescovo Tettamanzi durante i giorni del caso Yara. Le sue parole «Prego inoltre perché non si sovrapponga genericamente a tutti gli immigrati la categoria della delinquenza» nel titolo dell’articolo del Corriere sono così virgolettate: «Non tutti gli immigrati sono delinquenti». Nel primo caso il punto di partenza è la presunzione d’innocenza; nel secondo caso è la presunzione di colpevolezza. Uno slittamento che, nell’esigenza di sintesi imposta dal titolo, assume dei connotati fortemente ideologici.
All’opposto, la vittima invece deve essere pura e innocente, deve essere un membro della comunità dei buoni che il lettore può piangere, saldando la comunità virtuale attraverso la commozione. Casi estremi di questa sacralizzazione kitsch delle vittime sono la lettera di Barbara Palombelli alla «Cara piccola Sarah, occhi da cerbiatto, cara piccola Bambi» (p.32), e la lettera del piccolo Youssef, ucciso a Erba nel 2006 e “interpretato” per l’occasione da Mario Giordano, che esordisce scrivendo: «l’avete vista quella foto in cui io sto con Babbo Natale? Ebbene, io Babbo Natale non l’ho mai conosciuto» (p.65).
Lo slittamento e svuotamento di senso analizzato da Sgaggio riguarda anche l’uso di parole totem, centrali nei diversi tipi di retoriche che compongono i capitoli del libro, parole che aggregano la comunità di lettori attorno a ideali feticcio sempre validi, ripetuti e condivisi senza essere mai affrontati in modo critico: parole con cui è facile riempirsi la bocca senza pensare mai sì, ma che vuol dire? Esemplare è il lavoro di analisi sull’uso della parola «meritocrazia». Il termine nasce, infatti, da un romanzo satirico del sociologo inglese Michael Young, il quale in Rise of the Meritocracy (1958) immagina una società in cui la selezione della classe dirigente è determinata dall’intelligenza, tema che l’autore utilizza per criticare il sistema educativo britannico. Nell’usare la parola, oggi, ci si è completamente dimenticati di questa origine e di questo valore ferocemente critico che conteneva: lo stesso autore, nel 2001, si lamentava sul Guardian con l’allora primo ministro Tony Blair per l’uso improprio che il governo stava facendo del termine «meritocrazia», impiegato al servizio di un sistema scolastico classista. È come se un governo avesse adottato un Ministero dell’Amore ispirandosi a 1984, e George Orwell fosse stato costretto a intervenire per chiarire l’equivoco!
«Meritocrazia» e «merito» dunque, oggi fissano un’area acritica di discussione, a prescindere dallo schieramento politico. Chi mai potrebbe dire sono contrario al merito? Eppure le risposte a domande come che cosa è il merito?, che vuol dire essere bravo?, quale modello economico e sociale dovrebbe essere determinato dal merito? non sono affatto scontate, ma poiché la parola nella retorica giornalistica è opposta ai «fannulloni», ai i nemici da stanare ovunque e che naturalmente non appartengono alla comunità dei lettori, lo spazio per le riflessioni è ristretto fino a svanire. Eppure il merito, nei sottosensi evidenziati da Sgaggio, tiene conto della produttività materiale, dell’essere utili rispetto a qualcosa e funzionali a uno status quo: rappresenta un modello di fare, non di essere; veicola implicitamente un modello sociale. Un modello in cui sono centrali le facoltà esercitate da chi lavora, non i diritti delle persone. Dagli esempi nel libro emerge un’idea di società in cui, direttamente o indirettamente, va riducendosi lo spazio per chi è estraneo al modello del fare. Che cosa significa, in concreto? Significa che in una società del genere va riducendosi lo spazio per i portatori di handicap, ad esempio.
Lo strumento principale usato nel libro è l’analisi stilistica, applicata ad articoli di giornale, interviste audio - video e persino agenzie ANSA. In ciò Sgaggio rivela una capacità di lettura acutissima, mettendo a frutto la ventennale esperienza giornalistica e il lavoro compiuto nel tempo con il suo blog di critica sociale.
Il tema che Sgaggio ha scelto è vastissimo, tanto che il libro non riesce a esaurirlo: ad esempio mancano all’appello la retorica della "casta", che in questi ultimi mesi sta rovinosamente tenendo banco, e il linguaggio che accompagna i fenomeni di astroturfing, i sedicenti movimenti nati dal basso. Ma è auspicabile che Sgaggio continui lungo questa direzione e a tal proposito mi preme far notare quegli elementi che indeboliscono l’esito del lavoro, nella speranza che l’autrice ne tenga conto.
Il primo è il campione scelto, che risente di una eccessiva arbitrarietà. Sono esaminati soprattutto articoli de La Repubblica e del Corriere, mentre sono praticamente assenti analisi per Il Fatto Quotidiano, e leggendo il libro non si capisce il motivo di questa netta sproporzione; altre testate di rilievo che trovano poco o nullo spazio sono Il Messaggero e La Stampa. Poiché il libro parla di «Paese», lo scopo dichiarato è quello di restituire una realtà complessiva: perciò i criteri di selezione e composizione del campione analizzato, sia per tipologia che per arco di tempo esaminato, sono rilevanti tanto quanto la capacità di analisi dei singoli casi. Nella lettura globale, dunque, il libro spiega soprattutto alcuni come del giornalismo, più del perché.
Il secondo elemento è la tendenza a prescindere completamente dal contesto extralinguistico, mischiando così il piano dello stile con il piano dell’esperienza in cui le parole sono concretate nei comportamenti, e possono dunque influenzare a loro volta il piano linguistico. Un esempio sono le espressioni e i concetti «la mia terra», o «il mio popolo» che l’autrice considera aprioristicamente «consonanti» alla retorica territoriale della Lega. Ma queste espressioni non sono invenzioni della retorica leghista: inoltre la Lega connette queste espressioni a idee fasulle propagandate sia linguisticamente sia culturalmente, creando una finta tradizione che i militanti rinfocolano attraverso i comportamenti. «Padania» è un termine che ricade in questa retorica, mentre un’espressione come «la mia terra» di per sé ha un valore ideologico assai scarso. Affermare il concetto “l’espressione «la mia terra» è affine all’uso che la Lega fa di questa espressione” estende involontariamente l’influenza della retorica leghista, poiché le attribuisce un peso maggiore di quanto abbia in realtà, retorica che trae la sua forza anche e soprattutto dalla prassi quotidiana.
È come se Sgaggio amplificasse la responsabilità dell’emittente, ossia di chi scrive, considerando il ruolo del destinatario completamente subordinato. Ciò traspare, per esempio, dal frequentissimo uso di corsivi per evidenziare parole ritenute importanti (al di fuori delle citazioni), come se l’autrice non si fidasse della semplice selezione linguistica, ma avesse bisogno di rafforzare l’idea dal punto di vista grafico («Potrebbe aver senso, a questo punto, domandarsi che cosa, effettivamente, sia scritto nell’articolo», p. 19).
Si tratta, in quest’ultimo caso, di un probabile riflesso della preoccupazione verso un problema che Sgaggio vede nella nostra società e che, giustamente, vede rafforzato da un uso irresponsabile della lingua e dello stile. Questo problema è la trasformazione della vita politica in una rappresentazione in cui i cittadini sono paragonati ai passeggeri di un pullman che non si muove (p. 10):
Il pullman dell’identità ha le porte aperte, i passeggeri fanno bruum bruum con la bocca e le ruote non si muovono. Noi siamo dentro, sempre pronti a partire ma sempre fermi a ruggire un indignato «ora basta!» dopo l’altro. Ad aiutarci a fare bruum bruum più forte ci sono tanti famosi «testimonial», tanti personaggi-simbolo che diventano portabandiera delle petizioni e degli appelli e fanno da nostro collante identitario.
Se si assume questa prospettiva, diventa chiaro che farci fare bruum bruum è la condizione essenziale perché il pullman possa rimanere fermo nel parcheggio.