Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”
12 min letturaIl 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.
Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.
L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato
L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.
Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia.
Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.
L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”.
Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto. C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore.
L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili.
Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.
Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi
Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.
Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.
Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.
Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).
La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi
L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”.
Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.
Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.
In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.
Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.
Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.
È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.
Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.
Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.
La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.
Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.
(Immagine in anteprima via Flick)
