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Perché Antonio Ingroia sbaglia

10 Dicembre 2012 5 min lettura

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Perché Antonio Ingroia sbaglia

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Antonio Ingroia. Un nome e un cognome che nel dibattito pubblico provocano un'immediata divaricazione di giudizi. Per una parte è il giudice allievo prediletto da Paolo Borsellino, per l'altra invece un magistrato che usa il proprio ruolo pubblico per fare politica tramite processi mirati a screditare noti uomini di partiti.

Contrasto di opinioni riaccese in questi giorni, quando la Consulta, dopo che nel settembre scorso aveva ammesso il ricorso del Capo dello Stato sul conflitto riguardo le telefonate intercettate dalla procura di Palermo, mercoledì 5 dicembre ha dato ragione a Giorgio Napolitano. Commentando la notizia, Antonio Ingroia  ha parlato di una sentenza che «risente anche del condizionamento del clima politico» e in cui più delle ragioni giuridiche hanno prevalso «ragioni politiche». L'Associazione nazionale dei magistrati, tramite il presidente Rodolfo Sabelli, si è subito dissociata: «Attribuire alla decisione del massimo organo di garanzia costituzionale un significato politico è impossibile e del tutto fuori luogo». Presa di distanza fatta propria anche da Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, secondo cui «l'indipendenza e l'autonomia della Corte Costituzionale non può essere messa in discussione da alcuno, in particolare da chi ricopre incarichi pubblici».

Anche dalla politica sono giunte forti critiche alle parole dell'ex procuratore di Palermo, ora in Guatemala a lavorare per l'Onu contro il narcotraffico. Massimo Donadi, ex Idv, ora leader di Diritti e libertà, che già aveva accusato Antonio Ingroia di «parlare troppo», ribadisce al magistrato di «fare politica» precisando che chi «ha tra le mani un'indagine così delicata non può permettersi di rilasciare interviste un giorno sì e uno no e di partecipare a iniziative politiche perché non fa il bene della magistratura».
Vero è che Ingroia rilasci molte interviste, partecipi a numerosi dibattiti organizzati da partiti, abbia una rubrica fissa sul Fatto quotidiano e blog dove poter argomentare le sue idee su questioni inerenti politica e società italiana. Ad esempio, due giorni fa, il 6 dicembre, Micromega ha lanciato sul proprio sito la nuova collaborazione con il magistrato siciliano, con il titolo Partigiani della Costituzione.

In essa, oltre a spiegare le ragioni della sua critica alla decisione della Consulta, Ingroia specifica anche che «il diritto di critica deve poter essere liberamente esercitato nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione». Idea che gli è costata nel settembre scorso una dura presa di posizione da parte di Magistratura democratica. La corrente di cui Ingroia è un esponente di spicco,  ha infatti rimarcato con un documento la distanza dal modo di porsi pubblicamente del giudice «antimafia», certificando la necessità di «un confronto continuo tra la giurisdizione e la società civile». Magistratura democratica ha inoltre rilevato

l’inopportunità della ricerca esasperata di esposizione mediatica, anche attraverso la sistematica partecipazione al dibattito, da parte di magistrati che approfittano dell’autorevolezza e delle competenze loro derivanti dallo svolgimento della attività giudiziaria e utilizzano nel confronto politico le conoscenze acquisite e le convinzioni maturate nel contesto di un’indagine.

Dalle pagine de L'Unità, l'ex pm ha risposto con una lunga lettera. La replica fa perno su di un preciso punto per cui il diritto di parola è di ogni cittadino «e quindi anche del cittadino-magistrato». Diritto che deve essere esercitato «interloquendo proprio con la politica in convegni eventualmente organizzati anche da partiti [...] nei quali sia dedicato uno specifico spazio alla difesa dei diritti e della Costituzione». E se questo significa che «il magistrato che partecipa al dibattito politico fa politica» non deve stupire, perché un magistrato «deve fare politica», azione intesa per Ingroia come la intendeva Paolo Borsellino quando diceva che «il nodo della lotta alla mafia era prevalentemente "politico"». Se però il concetto per il giudice ucciso dalla mafia risultava chiaro, nelle numerose interviste rilasciate da Ingroia si fa tutto più ambiguo. Così il fare politica da azione culturale di contrasto alla criminalità organizzata si palesa - «Io in politica? Mai dire mai. Candidarsi è un diritto di tutti.» -  come un impegno in prima persona - «Candidato premier con De Magistris? Non si può dire no, torno in Italia per capire» - per  poi successivamente smentirlo - «Non mi interessa essere candidato» -.

Questo dire e non dire rischia di condizionare il suo modo di essere magistrato. A risentirne principalmente è la percezione dell'imparzialità che la sua figura deve possedere. Proprio per questo motivo il suo stupore per i «clamori» sulla modalità delle proprie esternazioni e la richiesta di verificare l' imparzialità processuale «sul terreno della mia attività professionale» perde di consistenza in quanto al giudice si sovrappone il personaggio pubblico del giudice. Operazione che, al di là delle solite strumentalizzazioni politiche di giornali ed esponenti di partiti, rischia di trasfigurare la figura del magistrato all'interno della società. Per cui il ruolo non sarà quello di seguire e scoprire la verità processuale ma di rappresentare la verità essendo diventato un simbolo sociale e politico. Gioco forza anche la verità che incarna sarà politica. Una verità che appare composta da quei dati processuali di cui lui si fa garante che pur non verificati processualmente si radicano nel dibattito pubblico diventando convinzioni politiche. Processi che si sviluppano tramite un singolo che parla a un uditorio, a una coscienza collettiva a cui chiede di giudicare. Come giovedì 6 dicembre, quando Antonio Ingroia ospite a Servizio Pubblico, rifacendosi all'«Io so» di pasoliniana memoria, riguardo il processo che deve ancora iniziare sulla presunta trattativa tra uomini di Stato e Mafia, dice di «sapere» che vi siano state figure istituzionali che scesero a patti con la criminalità organizzata. Ma come fa notare Tommaso Ederoclite, in un suo stato su Facebook,

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L'«Io so» pasoliniano ha un grosso effetto sull'opinione pubblica, ma un magistrato non può in nessun modo fare delle illazioni. Se dice di sapere che parli [...].

È inevitabile una domanda: il gioco in attacco dell'ex pm per battersi contro «l'autocensura» che molti colleghi si imporrebbero non porta a quella confusione di ruoli e piani – giudiziario, intellettuale, politico, - creatrice sì di consensi emotivi ma non di quel senso storico proprio della ricerca di una verità processuale?

 

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