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Pelé, il Re del calcio in un mondo di bianchi

30 Dicembre 2022 5 min lettura

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Pelé, il Re del calcio in un mondo di bianchi

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Sarebbe facile raccontare Pelé attraverso i titoli conquistati, i gol segnati, i nomi delle squadre in cui ha giocato o il solito stupido confronto a distanza con Maradona. Ognuna di queste cose coglie, per la verità, solo aspetti molto marginali del motivo per cui Edson Arantes do Nascimento, già detto Pelé, era noto nel mondo anche come O' Rey, “il Re”. Non restituiscono cioè la misura del perché un individuo come lui, prima ancora di essere un grande sportivo, è stato un fenomeno sociale.

Partiamo da alcuni dettagli per appassionati. Prima del suo avvento, nell’estate del 1958 durante i Mondiali in Svezia (aveva 17 anni quando iniziò il torneo, diventò maggiorenne solo a ottobre), il Brasile del calcio non era nemmeno lontanamente somigliante a ciò che è oggi, anche per chi segue questo sport solo superficialmente. Il mito del paese del futebol nacque con lui, con i tre titoli Mondiali conquistati nell’arco di dodici anni. Ma prima di Pelé, il Brasile era un paese marginale a ogni livello, povero e arretrato, e nemmeno molto competitivo nel calcio.

La questione razziale nel calcio brasiliano

Il pallone si era diffuso lì alla fine dell’Ottocento, importato soprattutto dai rampolli delle ricche famiglie bianche di São Paulo di ritorno dai loro prestigiosi studi nelle public school britanniche. Era uno sport essenzialmente per bianchi, per quanto largamente praticato nelle favelas abitate da mulatti e afrodiscendenti. Fino al 1923, quando fu il Vasco da Gama a sollevare il trofeo di campione nazionale con una squadra composta da giocatori di diverse classi sociali e gruppi etnici, i neri erano emarginati anche nello sport.

Il che non toglie che il Brasile degli anni Venti restasse, nel calcio in particolare, un paese profondamente razzista. Arthur Friedenreich, mulatto figlio di una coppia mista e primo fenomeno del futebol, era solito lisciarsi i capelli crespi con la brillantina per sembrare più bianco. Carlos Alberto era solito sbiancarsi il viso con della polvere di riso, e infatti era detto Po de Arroz. Manteiga, quando firmò con il club America, dovette vedere nove suoi compagni abbandonare la squadra per protesta contro il fatto che fosse nero. Non è un caso se il giornalista e scrittore Alex Bellos scrive che il dribbling tipico degli spettacolari giocatori afrobrasiliani sarebbe stato inventato per sfuggire ai tackle troppo violenti degli avversari bianchi.

Fu il professionismo ad abbattere la barriera. Se pagavi i giocatori, volevi che vincessero; se volevi che vincessero, prendevi i migliori, senza guardare al colore della pelle. Ma non cancellò il razzismo, ovviamente. Anche se i neri e i mulatti emergevano dalle zone più povere del Brasile per affermarsi come i migliori calciatori del paese, restavano dei reietti tollerati in campo per la loro utilità. Domingos da Guia e Leonidas, stelle verdeoro ai Mondiali del 1938, dovettero raggiungere la Francia viaggiando separatamente dal resto della squadra, composta da bianchi. Nel 1950, quando il Brasile perse clamorosamente in casa il Mondiale contro l’Uruguay, la colpa della sconfitta venne data al terzino Bigode e al portiere Moacir Barbosa, i due neri della squadra titolare.

Pelé e il razzismo

Fu Pelé, nel 1958, a ribaltare lo stereotipo. I neri erano considerati calciatori talentuosi, ma indisciplinati e incostanti nel rendimento; non si poteva fare affidamento. Il fatto che lui, nemmeno maggiorenne, fosse in grado di trascinare il Brasile al suo primo titolo Mondiale, cambiò per sempre il modo in cui i calciatori razzializzati erano visti nel paese. E tuttavia, nella sua autobiografia, scritta assieme a Robert Fish, non mancano riferimenti evidenti al razzismo in Brasile, a partire dal fatto che, per esempio, i suoi compagni bianchi lo prendessero amichevolmente in giro chiamandolo Alemão, “tedesco”. Anche da campione affermato dello sport più amato del paese, Pelé continuò a doversi scontrare con una discriminazione strisciante.

Dopo i Mondiali lo invitarono a São Paulo a una festa in suo onore. Lui non aveva l’auto, così con un amico si fece tutta la lunga strada a piedi. Alla festa domandarono perché non avessero chiesto un passaggio a qualcuno, e lui rispose: “Chi avrebbe preso a bordo due ragazzi neri, di notte, su una strada deserta?”. Sposò Rosemeri, una ragazza bianca, ma prima del matrimonio se volevano andare al cinema assieme lei doveva entrare con un parente, e lui la doveva raggiungere dopo a film iniziato, quando le luci erano spente. Ricorda, Pelé, che anche da piccolo a scuola aveva una fidanzatina bianca: un giorno il padre di lei lo scoprì e la picchiò davanti a tutti, perché andava in giro mano nella mano con “questo vagabondo nero, questo straccione, questa immondizia!”.

Sia chiaro, Pelé non fu mai un militante dell’antirazzismo come fu per altri campioni sportivi. Nella sua autobiografia cita questi episodi, ma non sembra per nulla darci la giusta importanza, e d’altronde nella sua carriera non parlò mai apertamente contro il razzismo. Solo di recente, nel 2017, ha confermato in un’intervista di aver spesso ricevuto insulti razzisti dagli avversari in campo, ma a Fish nel 1977 diceva che “In Brasile c’è poco razzismo; nella nostra casa venivano ospiti che erano neri, bianchi, mulatti, giapponesi, insomma di ogni colore possibile, e a nessuno è mai importato niente”.

La grandezza sociale di Pelé

Eppure nonostante questo, un simbolo antirazzista lo è diventato lo stesso, in un certo senso e senza rendersene pienamente conto. Quanto raccontato prima sui neri e il calcio in Brasile, riguardava in realtà tutto il mondo occidentale: soprattutto in Europa, i giocatori neri erano considerati scarsi, tatticamente impreparati, poco tecnici e solamente atletici. Stereotipi che ancora oggi persistono in molti tifosi europei. Fino al 1958, non esistevano grandi campioni neri di fama internazionale (anche se ne erano esistiti di fama più locale o comunque meno universale, come Isabelino Gradín e José Leandro Andrade): Pelé fu il primo.

Lo sport, soprattutto negli Stati Uniti, aveva già conosciuto Jesse Owens e Joe Louis, ma Edson Arantes do Nascimento divenne il primo vero fenomeno dello sport nero globalmente riconosciuto, il primo autentico ambasciatore di una disciplina a livello planetario. Non è un caso che, improvvisamente, il Santos (la sua squadra in Brasile) venisse chiamata a disputare amichevoli non solo in America e in Europa, ma addirittura in Africa, all’epoca veramente un mondo a parte nel calcio. Involontariamente, per il solo fatto di avere la pelle scura, Pelé divenne il simbolo di un riscatto sociale per tanti giovani ragazzi neri di tutto il mondo, abbattendo un pregiudizio sulla loro capacità nel praticare lo sport che più amavano.

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In un’epoca politicamente ancora tratteggiata, quella che precedeva il Sessantotto, questo bastò a trasformarlo in un simbolo sociale. È un aspetto della sua storia troppo spesso sottovalutato, se non proprio ignorato: divenne O' Rey per tutto il mondo non solo perché era un calciatore eccezionale, non solo perché segnava tanti gol, non solo perché vinceva i Mondiali, ma perché faceva tutto questo pur essendo nero. Come europei bianchi abbiamo faticato molto ad apprendere questa lezione (e tutt’oggi non ci siamo riusciti del tutto, appunto), ma per una larga parte del mondo, e quindi dei tifosi, Pelé fu innanzitutto questo.

Immagine in anteprima: El Gráfico, Public domain, via Wikimedia Commons

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