Il Patto sul clima di Glasgow: “La COP26 non ha dimostrato ai giovani che avevano torto, ma ha reso le loro ragioni l’unica bussola possibile”
21 min lettura
COP26 (la ventiseiesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) si è appena conclusa a Glasgow. Il “Patto sul clima di Glasgow”, come è stato chiamato il testo approvato dai negoziatori, contiene per la prima volta un riferimento ai combustibili fossili, ma, per i paesi in via di sviluppo e chi si aspettava molto sul fronte della giustizia climatica, l’accordo raggiunto è “annacquato”.
A cominciare dal presidente del summit, Alok Sharma, che ha a malapena trattenuto le lacrime.
I am incredibly grateful to everyone who has helped get us here today in Glasgow
But this is a fragile win
We have to continue to work together to kept 1.5 alive
Read my full statement here on the outcomes of #COP26: https://t.co/SHP22t3bDc pic.twitter.com/8xSCZA7I10— Alok Sharma (@AlokSharma_RDG) November 13, 2021
L’obiettivo di Sharma era "mantenere vivo l’1,5° C", il limite più ambizioso del riscaldamento globale secondo l'Accordo di Parigi. Almeno in questo la presidenza britannica è riuscita, per un pelo secondo il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Ma, ha precisato Sharma, "il battito di 1,5° C è debole".
Per quanto possa sembrare assurdo, quando si tratta di azione climatica, la parola “successo” ha infatti interpretazioni diverse. Anzi il successo ha poco a che vedere con le COP, che servono piuttosto a far progredire tutto il mondo in una direzione molto diversa da quella attuale e inevitabilmente comportano un certo scontento.
Torniamo indietro per un attimo. Lo schema pubblicato da Carbon Brief mostra bene le diverse agende politiche dei partecipanti in partenza per questa COP e come si intersecavano (e contraddicevano) fino a due settimane fa:
We've already been beavering away to update our grid of who wants what at #COP26
Check out the interactive table:https://t.co/EBKMuFXwoq pic.twitter.com/K7UnbnPFhd
— Simon Evans (@DrSimEvans) November 1, 2021
Vediamo cosa è accaduto negli ultimi 15 giorni e cosa è stato raggiunto alla luce delle posizioni di partenza.
Il testo del Patto
Finanza climatica
Le ambizioni della diplomazia
Monitorare il “Blah blah blah”
I dati sul cambiamento climatico
Lobby e operazioni di greenwashing
Le manifestazioni del 5 e 6 novembre
Il testimone all’Egitto e agli Emirati Arabi Uniti
Il “lavoro vero inizia adesso”
Il testo del Patto
Per la prima volta è stato usato un linguaggio che chiede ai paesi di ridurre la loro dipendenza dal carbone e i sussidi ai combustibili fossili. La formulazione qui è uno dei punti più controversi perché si parla nello specifico di sussidi “inefficienti” senza specificare cosa siano e soprattutto perché, poco prima dell'adozione, l'India ha chiesto che si invitassero i paesi a "ridurre gradualmente", invece di "eliminare gradualmente" il carbone le cui emissioni non siano “catturate e stoccate”.
Era ormai sabato sera, in ritardo di un giorno sui tempi previsti da Sharma, e le delegazioni hanno acconsentito pur di salvare l’accordo. È bastato questo piccolo cambiamento per gettare un’ombra sulla plenaria conclusiva.
Peraltro, lo stesso John Kerry, inviato speciale degli Stati Uniti per il cambiamento climatico, venerdì ha descritto i sussidi ai combustibili fossili come la "definizione di follia", denunciando le misure adottate dai governi che abbassano artificialmente il prezzo del carbone, del petrolio o del gas.
Ma alcuni progressi ci sono stati. Sempre per la prima volta, si parla esplicitamente di metano come di un’altra fonte di energia di cui i paesi sono “invitati a ridurre” le emissioni da qui al 2030.
Un altro progresso è l’inserimento della “giusta transizione” nel testo: il Patto di di Glasgow “riconosce la necessità di garantire transizioni eque che promuovano lo sviluppo sostenibile e l'eliminazione della povertà e la creazione di lavoro dignitoso e di qualità, anche rendendo i flussi finanziari coerenti con un percorso verso una bassa emissione di gas a effetto serra e uno sviluppo resiliente ai cambiamenti climatici, anche attraverso la diffusione e trasferimento di tecnologia e fornitura di sostegno alle parti dei paesi in via di sviluppo”.
C’è poi l’esortazione rivolta ai “paesi sviluppati a raddoppiare almeno la loro fornitura collettiva di finanziamenti per il clima per l'adattamento alle parti dei paesi in via di sviluppo rispetto ai livelli del 2019 entro il 2025". Per la prima volta si trova nero su bianco il “loss and damage”, il concetto per cui “perdite e danni” nei paesi che stanno già subendo gli effetti del cambiamento climatico dovrebbero essere ricompensati.
I negoziatori hanno anche stabilito le regole per i mercati del carbonio, completando l’Articolo 6 sui meccanismi di mercato delle emissioni dopo anni di attesa, e potenzialmente sbloccando migliaia di miliardi di dollari. il sistema di scambio delle quote di carbonio, introdotto nel 1997 a Kyoto. Funziona così: una tonnellata di anidride carbonica ha lo stesso impatto sull'atmosfera ovunque venga emessa, quindi se è più economico tagliare una tonnellata di anidride carbonica in India che in Italia, il governo o le aziende italiane possono pagare progetti volti alla riduzione delle emissioni – realizzazione di pannelli solari o di un parco eolico - in India e acquisirebbe “crediti di carbonio” da conteggiare nei propri obiettivi di riduzione delle emissioni. In questo modo, i paesi poveri ottengono l'accesso ai finanziamenti tanto necessari per gli sforzi di riduzione delle emissioni e i paesi ricchi devono affrontare un onere economico inferiore nel taglio del carbonio.Tuttavia, in alcuni casi questo sistema è stato aggirato ed è in ogni caso inadeguato considerato che tutti i paesi sono chiamati a ridurre le emissioni e anche velocemente. È stato questo uno dei nodi irrisolti dell’ultima Conferenza di Madrid.
Ora dovrebbero venire implementate alcune misure per garantire che i crediti non vengano conteggiati due volte nell'ambito degli obiettivi nazionali di emissione, ma gli scambi bilaterali tra i paesi non dovrebbero essere tassati. Inoltre, è fissata la data limite del 2013 per i crediti emessi in passato e non riportati, così da evitare che troppi vecchi crediti inondino e compromettano il mercato.
Infine, è stata approvata la parte del Regolamento che si riferisce alla trasparenza e prevede che tutti i paesi riportino in una forma specifica e coerente i dati sulle emissioni. Per la prima volta c’è quindi un impegno al taglio del 45% delle emissioni entro il 2030, nonché a una revisione dei contributi determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contribution, o NDC) già l’anno prossimo.
Il Patto riconosce che per ora gli NDC non sono sufficienti: l’IPCC sostiene che serva una riduzione delle emissioni del 50% entro il 2030 per avere buone possibilità di restare sotto l’aumento delle temperature globali di 1,5°C, ma gli NDC così come sono attualmente porteranno soltanto a un taglio del 13,7% nello stesso periodo.
A questo proposito, il 4 novembre è arrivata la dichiarazione dell’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), secondo cui con gli annunci fatti a COP26 si potrebbe prospettare una proiezione di aumento delle temperature di 1,8°C nel 2100, decisamente meno dei 2,7° C prefigurati da un rapporto delle Nazioni Unite prima della Conferenza di Glasgow. A patto ovviamente che le nazioni e le imprese mantengano effettivamente gli impegni presi.
#COP26 #Glasgow. Secondo la valutazione @IEA con i nuovi impegni presentati alla COP, si avvicina l'obiettivo di #Parigi, con un aumento delle temperature globali stimato in +1,8°C al 2100 pic.twitter.com/rZ9FB1gvxV
— ISPRA (@ISPRA_Press) November 6, 2021
“Il Patto di Glasgow, seppur insufficiente ad affrontare l’emergenza climatica e seppure lasci i paesi più poveri ancora una volta senza il supporto concreto necessario, rappresenta un’importante conferma dell’1.5°C,” ha detto a Valigia Blu Chiara Martinelli, nuova direttrice di CAN Europe. “Uno dei risultati di Glasgow è certamente una chiamata chiara ad accelerare l’azione climatica e in particolare i piani nazionali per la riduzione di emissioni. Purtroppo non abbastanza chiaro e forte è l’impegno ad abbandonare i combustibili fossili, maggiori responsabili delle emissioni, e a garantire una transizione energetica giusta. E troppa distrazione è stata causata da annunci net-zero entro il 2050, distogliendo l’attenzione sui prossimi passi e decisioni”.
Finanza climatica
La finanza climatica è stata il fallimento di COP26. La proposta di Amadou Sebory Toure, capo del blocco negoziale G77+Cina, e dunque "avanzata dall'intero mondo in via di sviluppo, che rappresenta sei persone su sette sulla Terra" è stata rifiutata dai paesi sviluppati.
Al suo posto, restano gli impegni presi fuori da COP. I paesi sviluppati hanno promesso 232 milioni di dollari al fondo di adattamento. L'inviato speciale delle Nazioni Unite, Mark Carney, è riuscito a raccogliere 130 mila miliardi di dollari dalle società di servizi finanziari che dovranno essere usati per l’azzeramento delle emissioni. Al fondo per i paesi meno sviluppati, andranno invece 413 milioni di dollari promessi da 12 paesi.
Anche l’Italia si è impegnata a sostenere soluzioni di finanziamento a progetti di adattamento, cioè di prevenzione e riduzione del rischio climatico in modo efficace socialmente ed economicamente. L'adattamento è uno dei due modi per combattere il cambiamento climatico, l’altro è la mitigazione, cioè l'eliminazione delle cause che lo provocano.
La Scozia è stata definita dal direttore dell’International center for climate change and development, Saleemul Huq, il vero paese leader a COP26: la prima ministra Nicola Sturgeon ha confermato che il governo scozzese aumenterà il suo fondo per la giustizia climatica di un ulteriore 50% in aggiunta al precedente impegno di raddoppiare il fondo: da 12 a 36 milioni di sterline.
A una conferenza stampa del World Resources Institute (WRI), la direttrice esecutiva di Transforma, Maria Laura Rojas Vallejo, ha spiegato il problema di questi enormi flussi di denaro. “La questione della qualità della finanza climatica si è sempre concentrata principalmente sulla portata in sé e i paesi in via di sviluppo affermano da diversi anni che ci sono altre questioni relative alla finanza”, come le modalità di accesso: “Molte risorse sono disponibili sotto forma di prestiti, che finiscono per aumentare il debito pubblico di questi paesi”.
“La qualità della finanza climatica non è data da quanti soldi abbiamo a disposizione, ma da come sostiene effettivamente i paesi. Dovrebbe essere più sotto forma di prestiti agevolati e sovvenzioni, non sotto quella di prestiti commerciali che è quello che abbiamo visto finora. I soldi non vanno direttamente, dagli impegni presi in uno spazio come quello di questa conferenza, a coloro che li usano sul campo. I soldi passano attraverso molti processi istituzionali che a volte sono così difficili che i paesi non possono di fatto accedere ai finanziamenti e ci sono molte questioni relative a come possiamo rendere quei processi più fluidi e come possiamo snellire le modalità di accesso”.
Le ambizioni della diplomazia
La novità di COP26 sono gli accordi al di fuori dall’egida ONU. I vari accordi fra Stati, come quello sulle foreste, indicano un nuovo percorso da un lato positivo e dall’altro a rischio di penalizzare il processo multilaterale partecipato alla base delle COP stesse.
Il più importante è stato l’accordo “a sorpresa” tra la Cina e gli Stati Uniti. In un momento storico dal punto di vista geo-politico, le due più grandi economie mondiali hanno promesso di lavorare insieme per rallentare il riscaldamento globale, ridurre le emissioni e la deforestazione.
Poi c’è il “Boga” (Beyond Oil and Gas Alliance), a cui l’Italia ha deciso di avvicinarsi come paese “amico”, ma senza aderire. Ne parla Ferdinando Cotugno su Domani: “Oggi il gas è il 47 per cento della generazione elettrica, entro il 2030 l’Italia deve portare le rinnovabili al 72 per cento, in teoria completando proprio il declino del gas, lasciandogli un ruolo residuale. Con la difficoltà a concepire iniziative come Beyond Oil and Gas Alliance, l’Italia dimostra però di non credere alla sua stessa transizione energetica”.
Leggi anche >> Il ruolo delle rinnovabili nella transizione energetica al 2050
L’Italia è però nella “High ambition coalition” che con gli ultimi 13 firmatari aggiunti in queste settimane arriva a 41 sostenitori. Gli elementi chiave includono NDC più ambiziosi in linea con una traiettoria di 1,5°C il prima possibile, ma anche la consegna dell'obiettivo di mobilitazione di 100 miliardi di dollari all'anno fino al 2025 e l'avvio delle deliberazioni per un obiettivo di finanza climatica dopo il 2025 “basato sulla scienza”.
Monitorare il “Blah blah blah”
Sempre più evidente è il divario tra gli annunci grandiosi, tipici della prima settimana di COP, e gli effettivi risultati dei negoziati. Non solo: i paesi faticano a trasformare gli impegni presi in azioni per il clima e mentono per risultare in pari, secondo un’inchiesta del Washington Post.
L’analisi di 196 rapporti nazionali ha rivelato un enorme divario tra le emissioni dichiarate e quelle effettive: da 8,5 miliardi, fino a 13,3 miliardi di tonnellate all'anno di emissioni sottostimate, abbastanza da fare la differenza secondo il WaPo. Gran parte del divario sarebbe dovuto a un calcolo in cui anche l’esistenza delle foreste risulta fra le azioni che sottraggono emissioni dall’atmosfera.
“Il piano per salvare il mondo dal peggior cambiamento climatico si basa sui dati. Ma i dati su cui si basa il mondo sono imprecisi”, scrive il team di giornalisti guidato da Chris Mooney.
Il problema è che il “Blah blah blah” è una pratica comune, specialmente durante la prima settimana di COP, nonché utile per creare “momentum” e galvanizzare l’opinione pubblica. Ma è difficile avere fiducia in questo tipo di politica climatica, come fanno notare incessantemente le ONG e le proteste di attivisti giovani e non.
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È successo anche quando il Regno Unito il 4 novembre ha comunicato che 190 tra organizzazioni e nazioni (tra cui - all’ultimo momento - l’Italia) si erano impegnate per eliminare gradualmente il carbone smettendo di investire in nuovi progetti. Ma Patrick Galey dell'Agence France-Presse ha scoperto che, quando l'elenco delle nazioni è stato pubblicato, soltanto 23 avevano annunciato nuovi piani per astenersi dal carbone, e 10 di loro non bruciano nemmeno carbone. Si tratta quindi del 13% del consumo mondiale di carbone, mentre Cina, Russia, Stati Uniti e Australia non sono nella lista: una "voragine" tra "le parole di COP26 e l'azione per il clima".
Eppure a COP le parole si pesano con attenzione quando si tratta invece di negoziare e sfoltire il testo del Regolamento dell’Accordo di Parigi di tutte le sue parentesi.
NEW
What type of words are used in draft #COP26 "cover decision"?
My quick analysis: mainly exhortations ("urges", "calls", "invites") not binding ("decides", "requests")…
…but on the spectrum of UN-speak, "urges" is stronger than "calls on", which is stronger than "invites" pic.twitter.com/gydy9Pb8JA
— Simon Evans (@DrSimEvans) November 10, 2021
Lampante è il caso della menzione dei combustibili fossili, ma anche le diverse sfumature tra “sollecitare”, “richiedere” e “pretendere”.
C’è anche un vocabolario specifico che spiega proprio la scala dei termini e come usarli:
Active verbs, commas and colons. This is apparently how we save the planet at #COP26. Here's a screenshot from the @UNFCCC style guide a contact has sent... I'll try and get the UN to post a link. I urge you to read it ;-) pic.twitter.com/l41Tpqwk24
— Ed King (@edking_I) November 12, 2021
Il che ci porta alla tassonomia dell’UE (definizione di ciò che è "green") anche perché intanto il Parlamento europeo l’11 novembre ha discusso se includere 30 progetti legati al gas nella lista di quelli finanziabili nell’ambito delle reti energetiche transeuropee TEN-E, ancora in consultazione e dovrebbe essere adottata prima della fine dell’anno. Soltanto i Verdi si sono opposti, mentre secondo la Commissione la lista non contraddice il Green Deal. In totale si tratterebbe di un valore pari a 13 miliardi secondo Friends of the Earth.
I dati sul cambiamento climatico
Durante le due settimane sono stati pubblicati diversi studi che fanno luce sulla portata e l’urgenza del cambiamento climatico e mostrano anche il divario tra gli annunci fatti e alcune scelte politiche.
“La tempesta in arrivo” dell’Agenzia per l’ambiente dell’Onu (UNEP)
Stepping up climate adaptation finance is urgently needed.
This year's #AdaptationGap report released at #COP26 explains why: https://t.co/51quZn3IG9 pic.twitter.com/iTIwJLjoWc
— UN Environment Programme (@UNEP) November 11, 2021
La sesta edizione dell'Adaptation Gap Report 2021: The Gathering Storm mostra che l'obiettivo di rimanere entro un aumento della temperatura di 1,5 °C sarà probabilmente mancato e in ogni caso alcuni effetti del cambiamento climatico sono già irreversibili. A pagare sono i paesi in via di sviluppo, dove i costi stimati per l'adattamento sono da cinque a dieci volte superiori agli attuali flussi finanziari pubblici (quasi 80 miliardi nel 2019) e dove si sentirà sempre di più il divario finanziario. I costi toccheranno i 140-300 miliardi di dollari all'anno entro il 2030 e 280-500 miliardi di dollari all'anno entro il 2050.
UNEP critica anche l’uso dei fondi di ripresa dopo la pandemia: "un'occasione ampiamente persa".
GLOBAL CARBON BUDGET 2021 🧵
After dropping 5.4% in 2020, global fossil CO₂ emissions are expected to increase 4.9% [4.1-5.7%] in 2021, finishing just 0.8% below 2019 emission levels.https://t.co/ycYcuFSPdF
— Glen Peters (@Peters_Glen) November 4, 2021
Non ancora stato sottoposto a peer-review, il "Global Carbon Budget" prevede che nel 2021 raggiungeremo 36,4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), appena lo 0,8% al di sotto del loro massimo pre-pandemia di 36,7 miliardi di tonnellate nel 2019. Non solo: il “rimbalzo” che si aspettavano con la ripresa economica è stato anche "più grande del previsto". Le emissioni globali di CO2 da combustibili fossili e cemento sono rimbalzate del 4,9% quest'anno, dopo un calo - correlato al Covid - del 5,4% nel 2020.
Mentre prevede che le emissioni fossili torneranno a livelli quasi record, lo studio rivaluta anche le emissioni storiche dovute al cambiamento dell'uso del suolo. Di fatto, la produzione globale di CO2 potrebbe essere stata piatta nell'ultimo decennio.
Il punto sulle emissioni di Oxfam
🌍The richest are really on another planet whilst everyone else faces a #ClimateCatastrophe 🚀
Read our report: https://t.co/z5kog8byWl#COP26 #ClimateJustice #WorldClimateMarch pic.twitter.com/3rahDNMvnt
— Oxfam International (@Oxfam) November 7, 2021
Allo stesso tempo, secondo Oxfam, la metà più povera della popolazione mondiale sarà responsabile di emissioni per un livello di riscaldamento globale molto al di sotto del 1,5°C nel 2030. Sono l'1% e il 10% delle persone più ricche a superare questo livello rispettivamente di 30 e 9 volte.
Il che significa che l'impronta di carbonio dell'1% più ricco delle persone sulla Terra probabilmente sarà 30 volte superiore al livello compatibile con l'obiettivo di 1,5°C nel 2030. E che qualcuno nell'1% più ricco dovrebbe ridurre le proprie emissioni di circa il 97% rispetto a oggi per raggiungere questo livello.
L’indice 2022 di Germanwatch, CAN, New Climate Institute e Legambiente
HAPPENING NOW: Climate Change Performance Index 2022 launch #CCPI2022
60 countries and EU evaluated on 4 categories: #GHGEmissions, #EnergyUse, #Renewables and #ClimatePolicy
Top 3 countries overall: NONE
Watch live: https://t.co/GvaXPYoDNf pic.twitter.com/3bR3G7BqUv
— Climate Action Network International (CAN) (@CANIntl) November 9, 2021
È la classifica di 63 paesi (più l'Ue) nella lotta alla crisi climatica.
Sul podio non c’è nessuno perché nessun paese si comporta abbastanza bene in tutte le categorie dell'indice Climate change performance index (CCPI) per ottenere una valutazione complessiva molto elevata. Dal quarto posto in giù si trovano Danimarca, Svezia e Norvegia. In fondo il Kazakistan, preceduto da Arabia Saudita e Iran. “Questo dice molto. Anche se tutti i paesi fossero impegnati come gli attuali primi classificati, ciò non sarebbe comunque sufficiente per prevenire pericolosi cambiamenti climatici", si legge nel rapporto. L'Italia perde tre posizioni e scivola al trentesimo posto, anche per via del rallentamento dello sviluppo delle rinnovabili.
Il ruolo delle donne, secondo Christian Aid
And here's another great report for Gender Day, by ACT member Christian Aid:https://t.co/MiFqRZOLLf pic.twitter.com/g8hJbB8RFR
— ACT Now for Climate Justice (@actclimate) November 9, 2021
Uscito il 9 novembre, in occasione del “Gender day”, il report mostra che “la lotta al cambiamento climatico è parte integrante dei movimenti femministi e di decolonizzazione”. “Dobbiamo superare le barriere patriarcali all'azione, all'influenza e al self-empowerment delle donne. Oltre a ciò, dobbiamo sfidare i sistemi e le strutture che hanno contribuito al cambiamento climatico e reso i paesi e le persone più vulnerabili al suo impatto (e continuano a farlo). Questi includono modelli insostenibili di consumo e di estrazione di ricchezza e risorse dal Sud del mondo; e l'emarginazione del Sud del mondo nel processo decisionale internazionale. Ciò richiederà volontà politica e persuasione per pensare e agire in modo diverso.”
L’aggiornamento del Climate Action Tracker
CAT global update: Glasgow has a credibility gap between talk and action. If all govts met their 2030 targets, we would have 2.4˚C of warming in 2100. But right now, current policies put us at 2.7˚C. https://t.co/dkX4jAbo2f
A Thread 🧵 pic.twitter.com/EdLlIfdhXt— ClimateActionTracker (@climateactiontr) November 9, 2021
Uscito all’inizio della seconda settimana di COP26, l'aggiornamento del Climate Action Tracker ha riscontrato “un enorme divario di credibilità, azione e impegno che getta una lunga e oscura ombra di dubbio sugli obiettivi di zero netto proposti da più di 140 paesi, che coprono il 90% delle emissioni globali”.
In particolare, la stima per il riscaldamento globale a fine secolo è di 2,7°C (un miglioramento comunque rispetto alla valutazione di settembre 2020). Gli obiettivi attuali per il 2030 (senza impegni a lungo termine) ci mettono quindi sulla strada per un aumento della temperatura di 2,4°C entro la fine del secolo. “Anche con tutti i nuovi impegni di Glasgow per il 2030, nel 2030 emetteremo circa il doppio di quanto richiesto per 1,5°C. Pertanto, tutti i governi devono riconsiderare i propri obiettivi”. Nonostante ciò, se (e su questo “se” c’è molta insistenza) venissero effettivamente realizzati tutti gli obiettivi netti zero a livello globale, anche Climate Action Tracker riconosce la possibilità di restare sull’1,8°C entro il 2100 prevista dalla IEA. Ma nessuno dei paesi analizzati per ora dispone di politiche a breve termine sufficienti per raggiungere il suo obiettivo netto zero, per cui “non è possibile escludere un riscaldamento di 2,4°C o più”. Resta quindi un divario di 0,9°C, che Glasgow avrebbe dovuto colmare.
I 5 “fossil fuelled” secondo il Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili
We need to talk about the "Fossil Fuelled 5"
🇺🇸 🇬🇧 🇨🇦 🇦🇺 🇳🇴5 wealthy nations want you to think they're doing their bit on climate change.
Yet a report out today finds a dangerous gap between their rhetoric & the reality of their fossil fuel plans. 🧵 https://t.co/dxONq85GtQ pic.twitter.com/uTH1BB06UF
— Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty Initiative (@fossiltreaty) November 12, 2021
Cinque nazioni ricche - Stati Uniti, Canada, Norvegia, Australia e Regno Unito - mostrano un divario "pericolosamente ampio” e “crescente” tra la retorica sull'azione per il clima e i loro piani per espandere la produzione di combustibili fossili. La produzione di carbone, petrolio e gas deve diminuire a livello globale rispettivamente del 69%, 31% e 28% entro il 2030 per mantenere vivo l'obiettivo di 1,5°C. Tuttavia, le proiezioni suggeriscono che nelle cinque nazioni analizzate la produzione di carbone diminuirà soltanto del 30% e quella di petrolio e gas aumenterà persino rispettivamente del 33% e del 27%. Da soli, Stati Uniti, Canada, Norvegia, Australia e Regno Unito hanno già fornito oltre 150 miliardi di dollari di sostegno pubblico alla produzione e al consumo di combustibili fossili durante la pandemia (contro i 147 miliardi destinati alle rinnovabili).
Lobby e operazioni di greenwashing
Del resto, l’ipocrisia è la cifra distintiva di tutti i negoziati.
Per farsi un’idea, basta leggere gli articoli del giornale scozzese Ferret che ha dedicato un’intera serie al greenwashing tra gli sponsor a COP26: almeno 35 eventi collaterali ufficiali sono stati organizzati da, o coinvolgono, grandi aziende inquinanti o gruppi di pressione che le rappresentano.
Come se non bastasse, Global Witness ha calcolato che, se la lobby dei combustibili fossili fosse una delegazione nazionale a COP, sarebbe la più grande di tutte con 503 delegati, due dozzine in più rispetto alla più grande delegazione nazionale. Sono lobbisti affiliati ad alcuni dei più grandi colossi del petrolio e del gas al mondo tra cui Shell, Gazprom e BP, che hanno avuto accesso a COP26, “invaso la conferenza di Glasgow con le loro spinte aziendali”.
Pascoe Sabido, ricercatore e attivista per Corporate Europe Observatory, ha detto che “COP26 viene venduta come il luogo per aumentare le ambizioni, ma brulica di lobbisti dei combustibili fossili la cui unica ambizione è quella di rimanere in attività”.
Sebbene escluse dall’analisi di Global Witness, ci sono anche “altre industrie inquinanti profondamente implicate nella crisi climatica, dal punto di vista della finanza, l'agroindustria e i trasporti”.
Da qui la campagna contro i combustibili fossili di 138 gruppi che hanno scritto ai leader (tra cui il primo ministro britannico Boris Johnson) il 4 novembre, chiedendo di affrontare "l'elefante nella stanza che frena l'ambizione climatica globale: l'industria dei combustibili fossili e le sue pressioni".
“Per decenni l'industria dei combustibili fossili ha ritardato, indebolito e sabotato con successo una maggiore ambizione climatica, e finché continuerà a mantenere il suo accesso ai decisori e al processo decisionale, lo utilizzerà per ostacolare l’azione climatica”, si legge nella lettera, i cui firmatari includono Friends of the Earth, Fridays for Future e 350.org.
Le manifestazioni del 5 e 6 novembre
Il 5 e 6 novembre ci sono state le manifestazioni degli studenti e degli attivisti. In 25mila il primo giorno, in 100mila il secondo per la giustizia climatica hanno marciato per le strade di Glasgow. La manifestazione del 6 novembre ha mostrato come il movimento per il cambiamento climatico sia diventato un ombrello di cause diverse: diritti civili, sociali, umani. Insieme alle organizzazioni ambientaliste c’erano sindacati, rappresentanti dei paesi in via di sviluppo, leader delle comunità indigene e dei nativi, manifestanti contro il razzismo, femministe, gruppi religiosi, indipendentisti.
La polizia locale è stata criticata per la presenza massiccia, in tenuta antisommossa, alle due manifestazioni, nonché per avere costretto molte donne a tornare a casa al buio lunedì 1 quando le strade sono state bloccate a causa dei problemi di sicurezza.
Alcuni attivisti e rappresentanti di popoli indigeni sono stati costretti a occupare un edificio in disuso a Glasgow. Riaperto proprio per offrire alloggi di emergenza a chi non ha potuto trovare una sistemazione in occasione di COP, è stato sgomberato dalla polizia nella notte tra domenica e lunedì.
“Questa COP non ha dimostrato ai giovani che avevano torto, come aveva chiesto con autorevolezza e passione Vanessa Nakate, ma ha reso le loro ragioni l’unica bussola possibile”, ha commentato Caterina Sarfatti in un post su Facebook.
Il testimone all’Egitto e agli Emirati Arabi Uniti
Secondo alcuni osservatori, le stesse manifestazioni difficilmente saranno replicabili in occasione di COP27 - che si terrà dal 7 al 18 novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto.
Hold on a sec, you wanna tell me that climate protesters will be able to do this during COP27 in Egypt?! https://t.co/3IwPH5I0Fb
— The Big Pharaoh (@TheBigPharaoh) November 6, 2021
COP28 avrà invece luogo negli Emirati Arabi Uniti nel 2023.
“La notizia che la prossima COP si terrà in Egitto è fonte di seria preoccupazione,” ha detto a Valigia Blu Leslie Piquemal del Cairo institute for human rights studies.
In pratica - spiega Piquemal - non esiste una sfera pubblica o uno spazio civico libero in Egitto per le organizzazioni della società civile, gli attivisti e i cittadini in generale, per impegnarsi in sicurezza nel tipo di mobilitazione sociale e attività che di solito accompagna COP.
“Sia la società civile egiziana che quella internazionale correranno gravi rischi se cercheranno di esercitare i propri diritti alla libertà di riunione pacifica e di espressione in Egitto, prima e durante COP27. L'esercizio legittimo di questi diritti è duramente represso in Egitto, anche attraverso vessazioni da parte degli organi di sicurezza, arresti arbitrari e vessazioni giudiziarie, per non parlare della violenza della polizia contro manifestazioni pacifiche, sparizioni forzate (spesso associate alla tortura), lunghe detenzioni arbitrarie in condizioni dure o perseguimento attraverso processi iniqui senza standard minimi di giusto processo.”
Dal punto di vista meramente ambientale, “è difficile vedere come il governo egiziano possa essere ritenuto responsabile per adempiere ai suoi impegni sul clima, vista la grave mancanza di trasparenza, responsabilità e libertà di stampa in Egitto”, dice Piquemal.
D’altra parte, COP27 sarà un’occasione unica per l’Egitto di rappresentare gli interessi africani e di conseguenza arrivare a una soluzione sulla finanza climatica. La ministra dell’Ambiente egiziana, Yasmine Fouad, nel suo discorso a Glasgow ha detto che la prossima “sarà una vera conferenza africana, dove speriamo di fare progressi in aree prioritarie come la finanza climatica, l'adattamento e il loss and damage, per stare al passo con i progressi che il mondo spera di fare negli sforzi di mitigazione e verso la neutralità”. Fouad si è anche detta impegnata a “compiere ogni sforzo nell’affrontare questa sfida che minaccia il mondo intero” e determinata ad “aiutare i paesi in via di sviluppo e africani e quelli più colpiti ad avviare rapidamente le loro misure per confronto e adattamento”.
Il principale negoziatore egiziano sul clima, Mohamed Nasr, ha detto a Climate Home News che “è una COP in Africa, quindi la resilienza e l'adattamento saranno al centro di tutto”.
Il “lavoro vero inizia adesso”
Da qui in avanti resta molto da fare. Come ha detto la sera del venerdì il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans, a questo punto “il lavoro è soltanto all'inizio" e “abbiamo un anno per metterci in pari” con l'obiettivo di limitare a 1,5 gradi il riscaldamento globale. Timmermans ha aggiunto che occorre "creare fiducia, poiché non abbiamo ancora consegnato i 100 miliardi di dollari” all’anno “che erano stati promessi anni fa" per consentire ai paesi in via di sviluppo di progredire verso la sostenibilità.
“Dopo due anni di buco, la partecipazione senza precedenti a questa COP ha creato un’enorme aspettativa,” ha detto il meteorologo Luca Lombroso a Valigia Blu. “Ma non ci si deve mai aspettare il net zero da COP, in fin dei conti sono sempre negoziati, ci si deve aspettare il net zero dall’Accordo di Parigi.”
“Il processo negoziale delle COP dura ormai da 30 anni, e da quando è iniziato le emissioni sono aumentate del 62%. Vista così, l’obiettivo delle Nazioni Unite di stabilizzare le concentrazioni di CO2 a un livello non pericoloso per il clima sembra fallito,” dice Lombroso.
Localmente, saranno decisive le azioni di città e regioni, che potranno incentivare la mobilità sostenibile, anzitutto trasporti pubblici e bici. “L’Italia dovrà rilanciare le rinnovabili, ferme da troppi anni, e il miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici esistenti”, dice Lombroso.
“Globalmente, la sfida principale è verso COP28 dove sarebbe in programma l’inventario globale. È necessario arrivarci con riduzioni effettive, perché in caso contrario non solo l’obiettivo 1.5°C ma anche i 2°C saranno una sfida persa e lo stesso processo delle COP perderebbe definitivamente credibilità, avviandosi probabilmente al declino.
“Ora la sfida è mantenere gli impegni e rispettare questi accordi e già in pochi anni vedremo se ne siamo stati capaci”.
Immagine anteprima Mænsard vokser, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons