Pro e contro i passaporti vaccinali digitali. C’è urgente bisogno di dettagli e chiarezza
18 min letturaSi è acceso un dibattito globale intorno all’idea di implementare una infrastruttura digitale per fornire prova di avvenuta vaccinazione contro la COVID-19. Ma se le iniziative si moltiplicano sia in Europa che nel resto del mondo, pervenire a una soluzione condivisa a livello internazionale resta difficile. E i problemi non mancano.
Ora che le campagne vaccinali contro la COVID-19 sono in corso in un numero crescente di paesi in tutto il mondo, sta emergendo un dibattito globale intorno all’idea di rilasciare un documento digitale che testimoni in modo efficace se un individuo è stato vaccinato o meno. L’obiettivo, proposto inizialmente nei paesi in cui le vaccinazioni sono in fase avanzata (per esempio, Israele) nonché da compagnie del settore viaggi e da aziende tecnologiche, è di fornire uno strumento che consenta di riaprire in maggiore sicurezza le tratte per viaggi e turismo internazionali e, in alcuni casi, consentire un più diffuso e sicuro accesso a luoghi — dalle palestre agli stadi e ai teatri — colpiti dalle restrizioni dovute alla pandemia. Secondo i sostenitori di questa idea, uno strumento simile andrebbe a tutto vantaggio dell’autonomia individuale delle persone colpite, da oltre un anno, da forti limitazioni delle proprie libertà e dei propri diritti, inclusa la libertà di movimento.
E tuttavia, giunti alla fine di marzo 2021, si può affermare che non è contestualmente emerso un consenso circa come implementare un simile documento — chiamato genericamente “certificato vaccinale” o “passaporto vaccinale”* — in un modo che sia insieme interoperabile e riconosciuto a livello internazionale. Mancano ancora dettagli e ipotesi precise su quale tecnologia usare, all’interno di quale più ampia strategia di salute pubblica, e perfino su come lo si debba chiamare. Una situazione che costringe chiunque cerchi di fornire un quadro riassuntivo del dibattito in corso a tessere un mosaico di idee e strumenti sviluppati a livello nazionale o addirittura regionale, piuttosto che il manifestarsi di una risposta globale alle sfide poste dalla pandemia.
Peraltro, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) predica ancora cautela circa l’adozione di certificati vaccinali come condizione per potersi mettere in viaggio. “Al momento”, si legge nella sua più recente presa di posizione in materia, “è convinzione dell’OMS che le autorità nazionali e gli operatori dei mezzi di trasporto non dovrebbero introdurre requisiti che costringano a provare l'avvenuta vaccinazione contro la COVID-19 come condizione per accessi o partenze in viaggi internazionali”. Secondo l’OMS, infatti, “fattori critici circa l’efficacia della vaccinazione nella riduzione della trasmissione” del virus “restano ancora inesplorati”.
Ciò non significa che l’OMS non stia lavorando a una soluzione. Al contrario, l’organizzazione ha lanciato uno “Smart Vaccination Certificate Working Group”, ossia un gruppo di lavoro con l’obiettivo di sviluppare le specifiche di uno standard aperto e interoperabile per i certificati vaccinali, insieme a un modello di governance appropriato.
Europa: nell’attesa del “Green Pass Digitale”, una molteplicità di soluzioni locali
Fuori dall’Europa, soluzioni ed esperimenti si moltiplicano
La spinta dal mondo del trasporto aereo (e dall’industria tecnologica)
Automated decision-making: troppo presto per i dettagli
Pro e contro i certificati vaccinali
Conclusione: c’è urgente bisogno di dettagli e chiarezza
Europa: nell’attesa del “Green Pass Digitale”, una molteplicità di soluzioni locali
In Europa, alcuni paesi hanno molto insistito per la creazione di un “passaporto immunitario” o “vaccinale” negli ultimi mesi — in modo da “consentire ai cittadini di andare al ristorante, a conferenze, festival musicali o eventi sportivi” (in Danimarca), “andare in vacanza all’estero o viaggiare per incontrare una persona cara” (in Svezia), o più semplicemente per ridare ossigeno al turismo estivo (in Spagna e Grecia). Altri paesi, tuttavia, hanno opposto scetticismo (Francia e Germania), o addirittura un vero e proprio rigetto (Belgio, Romania e Serbia).
Le istituzioni europee hanno di conseguenza faticato a conciliare le opposte idee dei paesi membri, prima di giungere, il primo marzo, a un accordo su un cosiddetto “Green Pass Digitale” che dovrà fornire, ha scritto la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, “prova che una persona è stata vaccinata, i risultati dei test di coloro i quali non sono ancora stati vaccinati”, e “informazioni circa la guarigione dalla COVID-19”.
Il 17 marzo, la Commissione UE ha anche evidenziato alcuni altri elementi chiave del “green pass digitale”, con l’intento di “facilitare libero e sicuro movimento all’interno dell’Unione Europea”: il certificato sarà disponibile gratuitamente, emesso sia in forma cartacea che digitale, e conterrà un QR code recante le “informazioni cruciali” oltre a una firma elettronica per accertarne l’autenticità. La Commissione creerà inoltre “un portale a supporto degli Stati membri, così che possano sviluppare soluzioni software di cui le autorità potranno dotarsi per verificare tutte le firme ai certificati prodotte nell’UE”. Un “framework per la fiducia” dedicato all’interoperabilità dei certificati sanitari è stato anche introdotto dall’eHealth Network, così che possa venire implementato dai diversi Stati membri — anche se alcuni (l’Irlanda, per esempio) sembrano riluttanti.
Secondo il Commissario alla Giustizia, Didier Reynders, il pass “non sarà precondizione per la libertà di movimento e non discriminerà in alcun modo”. Per garantire che ciò non avvenga, la Commissione ha deciso di distribuire il certificato sia a soggetti vaccinati che non vaccinati, garantendo gli stessi diritti a tutti i detentori di un pass. Presentato come una misura temporanea, il pass dovrebbe includere “solo informazioni essenziali e dati personali sicuri”, e più di preciso “nome, data di nascita, data di emissione, informazioni rilevanti circa vaccinazione/test/guarigione e un identificativo unico del certificato”.
La progettazione dell’infrastruttura e degli strumenti necessari a realizzare questo sforzo comune dovrebbe essere finalizzata nel corso dei prossimi tre mesi. Ma nel frattempo, alcuni Stati hanno deciso di fare a modo loro.
Per esempio, già da maggio 2020 l’Estonia ha iniziato a compiere sperimentazioni (insieme alle startup tecnologiche Transferwise e Bolt) su un passaporto immunitario digitale per il posto di lavoro e, a partire da ottobre scorso, ha anche collaborato con l’OMS per la creazione di un “Certificato Internazionale di Vaccinazione” digitale, chiamato anche “smart yellow card”. Attraverso il ricorso a “un QR code temporaneo generato dopo ogni autenticazione digitale”, contribuirebbe ad “aumentare l’efficacia dell’iniziativa COVAX”, includendo anche lo sviluppo di un “framework globale per l’interoperabilità dei dati sanitari”.
Anche l’Islanda ha cominciato a emettere i propri certificati vaccinali per le circa 4.500 persone che hanno già ricevuto la seconda dose del vaccino. Lo scopo, così come dichiarato sul sito del governo islandese, “è di facilitare il movimento delle persone tra paesi diversi, così che possano presentare un certificato vaccinale al confine ed essere esenti dalle misure dovute alla COVID-19”.
Anche il distretto di Altötting, nell’Alta Baviera, ha rilasciato il suo primo documento vaccinale. Dotato di QR code, il documento può venire scannerizzato, così che i dati necessari siano trasferiti e mantenuti sullo smartphone di ogni individuo vaccinato — e lì solamente, affermano le autorità, garantendo a loro dire una soluzione nel pieno rispetto della privacy.
Quest’ultimo caso è anche più significativo, se si pensa che le autorità federali in Germania erano state inizialmente molto più caute rispetto all’adozione di certificati vaccinali. Non a caso il distretto di Altötting vanta di avere reso operativa la propria soluzione “in modo completamente indipendente” rispetto al ministero della Salute federale. La Germania ha poi invertito rotta, e il Ministero ha raggiunto un accordo contrattuale per lo sviluppo di una infrastruttura per la certificazione digitale delle vaccinazioni sia con Ubirch, un’azienda di base a Colonia che propone una soluzione basata su QR code e blockchain, che con IBM. E ciononostante, specie se sommato ad altre soluzioni sviluppate a livello nazionale, attraverso database dei dati dei pazienti gestiti dallo stato (come in Finlandia) o insieme da soggetti pubblici e privati (come in Danimarca), questo esempio locale indica chiaramente che risolvere la questione dell’interoperabilità sarà cruciale per una reale implementazione di un certificato vaccinale digitale che sia condiviso, sia dentro che fuori l’Europa.
Pur in assenza di requisiti condivisi, la Grecia si è già mossa per raggiungere accordi con paesi specifici in materia di viaggi: per esempio, con Cipro e Israele — dove un “green pass” viene già rilasciato per dare accesso esclusivo ai vaccinati in centri commerciali, palestre, hotel, concerti e ad altri luoghi e avvenimenti (“Con il green pass, le porte si aprono proprio per te”, recita il motto del governo israeliano); e con la Gran Bretagna, dove una soluzione a base di riconoscimento facciale sta venendo sviluppata dalle aziende di autenticazione biometrica e identity management iProov e Mvine, per una potenziale applicazione perfino per accedere a pub, ristoranti, teatri ed eventi sportivi.
Fuori dall’Europa, soluzioni ed esperimenti si moltiplicano
Fuori dal contesto europeo, il dibattito è simile. In Asia, la Cina è stato forse il primo paese a chiedere un meccanismo globale condiviso a base di QR code per emettere certificati vaccinali in un discorso del leader Xi Jinping, al G20 di novembre 2020.
Più di recente, i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico hanno a loro volta dichiarato di stare considerando la possibilità di emettere un certificato vaccinale condiviso “in particolar modo per velocizzare la riapertura dei settori più colpiti” dalla pandemia, “come per esempio il turismo”, ha dichiarato Azmin Ali, ministro del Commercio internazionale e dell’industria della Malesia. Sempre in Malesia si sta mettendo alla prova un passaporto sanitario basato sulla blockchain, “Immunitee”, insieme alle autorità di Singapore, e in collaborazione con Affinidi, una società di investimenti globali che ha sede nella città-Stato. Le informazioni contenute nel passaporto saranno accessibili unicamente tramite un QR code, ma saranno di interesse non solo delle autorità governative, scrive MobiHealthNews, ma anche “delle strutture sanitarie, dei sistemi per la gestione dell’immigrazione, degli hotel e delle università”.
Una simile iniziativa congiunta è stata ipotizzata anche per i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), secondo i quali un “passaporto digitale” si potrebbe ricavare come evoluzione dell’app per smartphone Al Hosni, usata negli Emirati Arabi Uniti per il contact tracing. “È stato ipotizzato un progetto per un passaporto sanitario unico per tutti i paesi del GCC, così da identificare coloro i quali abbiano ricevuto un vaccino contro la COVID-19”, avrebbe affermato un alto funzionario dell’Oman, secondo il Khaleej Times.
Negli Stati Uniti, la possibilità di adottare un certificato vaccinale è inclusa nel piano dell’amministrazione Biden per rispondere all’emergenza COVID-19. Il piano afferma che “al Segretario di Stato, al Segretario della Salute e dei servizi umani, e al Segretario della Difesa (…), in coordinazione con ogni organizzazione internazionale rilevante”, può essere chiesto di “valutare la fattibilità di collegare la vaccinazione alla COVID-19 a Certificati Internazionali di Vaccinazione o Profilassi (ICVP), e di produrre versioni elettroniche degli ICVP”. Le Hawaii stanno già creando il loro passaporto vaccinale digitale, in ogni caso, consentendo così ai viaggiatori in ingresso di evitare il periodo, altrimenti obbligatorio, di quarantena per dieci giorni.
In Sudamerica, è il Cile il paese all’avanguardia nella sperimentazione di “certificati” rilasciati a chi ha superato la COVID-19, consentendo così loro di “servire la comunità” (per esempio, aiutare i vicini o parenti anziani) con rischio basso o nullo di infettare il prossimo, ha scritto Lancet. Il piano, causa di controversie, dichiara un’ispirazione dalle politiche adottate a Hong Kong e in Corea del Sud, e non significherebbe comunque per i beneficiari avere il diritto di evitare le basilari precauzioni in vigore contro la COVID-19. Ancora, il certificato scadrebbe tre mesi dopo l’emissione.
La spinta dal mondo del trasporto aereo (e dall’industria tecnologica)
Gli esperimenti con i “passaporti vaccinali” riguardano tuttavia prevalentemente il settore dei trasporti — quello del trasporto aereo in particolare, con compagnie aree diverse che stanno facendo ricorso a soluzioni diverse. Air France, per esempio, sta per sperimentare AOKpass, un documento digitale basato su tecnologia blockchain e sviluppato dalla Camera di Commercio Internazionale. Nel frattempo, a inizio febbraio 2021, si è letto che la British Airways starebbe per cominciare ad accettare passaporti digitali utilizzando il servizio e la app VeriFLY, per i voli tra UK e USA. Le sperimentazioni sono cominciate a novembre 2020, e l’azienda ha perfino creato aree per un check-in più rapido, riservate ai soli clienti che avessero scelto la soluzione del passaporto digitale — soluzione per cui era però richiesto l’invio di un selfie. Secondo Simple Flying, la soddisfazione dei clienti per il servizio ha dato un risultato di “4.8 su 5”.
Un’altra app di viaggi, SimplyGo, è stata sperimentata sui voli tra gli Emirati Arabi e Monaco di Baviera, in Germania, e da Tallinn, in Estonia, agli Emirati, con scalo a Francoforte. L’app è stata sviluppata da ION Access & Health, un’alleanza internazionale tra le società tecnologiche e del settore sanitario Nortal, Ottonova, InHealth e Daman. Inoltre, l’app è stata usata in cooperazione con il fornitore di tecnologie SITA, in una sperimentazione in cui si è registrato lo status rispetto alla COVID-19 dei passeggeri, così da consentire di imbarcarsi ai soli possessori di test dall’esito negativo.
Sono state proposte molte soluzioni diverse, anche se per ottenere risultati simili. Il “Travel Pass” dell’International Air Transport Association (IATA) è per esempio una app che può essere scaricata sullo smartphone del passeggero. I clienti devono farsi un selfie e completare un “test di vitalità” (“cioè, muovere la testa, chiudere gli occhi di fronte alla fotocamera così come loro richiesto”), insieme a soddisfare altri requisiti. Una volta che la app abbia verificato che i dati del passaporto appartengono effettivamente alla persona che sta di fronte alla fotocamera dello smartphone, “si può fare ricorso a riconoscimento facciale per processare rapidamente” i dati verificati “in touch point nevralgici dell’aeroporto senza il bisogno di scambiarsi fisicamente passaporti e carte d’imbarco”.
Il “Commons Project” — che si definisce un “trust pubblico no profit creato con il supporto della Fondazione Rockefeller per costruire servizi e piattaforme digitali globali per il bene comune” — sta a sua volta sviluppando una soluzione che fornisca un “modo sicuro e verificabile di documentare” lo “stato di salute” dei viaggiatori, insieme al World Economic Forum (WEF). Chiamata “CommonPass”, mira a diventare la “piattaforma globalmente interoperabile” attraverso cui ogni passeggero potrà documentare la propria situazione COVID-19 (“dichiarazioni sanitarie/test PCR/vaccinazioni”), salvando al contempo i dati sanitari in modo sicuro sul proprio smartphone (attraverso Apple Health su iOS e CommonHealth su Android).
Nelle FAQ, in ogni caso, il progetto opera una netta distinzione tra un pass e un “passaporto immunitario”: “CommonPass non è un passaporto immunitario”, si legge, “e non può essere utilizzato per provare che una persona è immune alla COVID-19. CommonPass può solo verificare che un individuo ha ricevuto di recente i risultati di un test, o che è stato vaccinato, per la COVID-19. Nessuna di queste due cose è garanzia di uno status negativo o di immunità”.
Compagnie aeree come JetBlue, Lufthansa, Swiss International Airlines, United Airlines e Virgin Atlantic stanno adottando il pass, e una prima applicazione per i passeggeri in partenza da New York, Boston, Londra e Hong Kong è prevista per dicembre.
Anche le aziende tecnologiche sono particolarmente coinvolte nello sviluppo di soluzioni simili. Per esempio, Microsoft, Oracle e Salesforce sono parte di una più ampia coalizione di compagnie tecnologiche, organizzazioni sanitarie, organizzazioni no profit e mondo accademico chiamata “The Vaccine Credential Initiative” (VCI). Il VCI mira a costruire uno standard open source per i registri vaccinali, così che i consumatori possano “comodamente accedervi, salvarli e condividerli”. Per riuscirci, l’iniziativa collabora con entrambi il “Commons Project” e il WEF.
IBM è un’altra compagnia tecnologica ben introdotta nel settore della sanità. E infatti, sta a sua volta sviluppando una piattaforma per la sanità digitale chiamata “IBM Digital Health Pass”. Basata su tecnologia blockchain, è “progettata per incorporare molteplici fonti di dati a seconda delle richieste di ogni organizzazione — per esempio, risultati di test e misurazioni della temperatura corporea in loco — che potrebbero consentire alle persone di condividere il loro pass sanitario attraverso un portafoglio digitale cifrato sul loro smartphone”. Il risultato, secondo IBM, sarebbe “un modo intelligente di fare ritorno alla società”.
La molteplicità delle soluzioni offerte dal settore del trasporto aereo e da quello tecnologico ha già portato alcune startup a creare soluzioni uniche (one-stop) attraverso cui gestire tutte le credenziali collegate al passaporto vaccinale. Dato che diverse compagnie e diversi paesi potrebbero finire per richiedere il download di più app per provare il proprio status COVID-19 in un singolo viaggio, l’azienda di identità digitali Airside Mobile ha deciso di stringere una partnership con una compagnia di tecnologie biometriche portoghese, Vision Box, per fornire una app di gestione delle certificazioni che possa ospitare non solo dati collegati alla salute, ma anche passaporto, patente di guida e altre informazioni, il tutto attraverso “verifica biometrica end-to-end”. “I viaggiatori scaricano la app Airside, si identificano con noi e ci danno un consenso privacy unico, dopodiché Vision Box fa il resto”, dice il CEO di Airside Mobile, Amena Ali, citato da Forbes.
Automated decision-making: troppo presto per i dettagli
Un insieme così variopinto di proposte per risolvere il problema di produrre un framework e una infrastruttura interoperabili e funzionanti per i certificati vaccinali COVID-19 rende difficile valutare come ciascuna di esse realmente funzioni e, di conseguenza, se e come possano mettere a repentaglio diritti fondamentali, privacy e sicurezza. Di che tipo di infrastruttura dei dati condivisa ci sarà bisogno per implementare una rete globale e interoperabile di certificati vaccinali digitali? È possibile diventi veicolo di “function creep” (cioè di finire utilizzata per scopi diversi da quelli previsti)? Sarà sicura e a prova di frode (questione già problematica in Israele)? E quale sarà il ruolo del settore privato nel realizzarla e gestirla? È semplicemente troppo presto per dirlo.
Inoltre — come tipico dei sistemi di automated decision-making (o ADM, cioè sistemi per automatizzare processi decisionali) — all’urgenza con cui i certificati vaccinali stanno venendo proposti e annunciati non ha di norma corrisposto un livello adeguato di trasparenza e dettaglio circa le funzionalità che includono. La maggior parte degli strumenti di certificazione vaccinale è ancora nelle prime fasi di sperimentazione, mentre altre — come il “green pass digitale” proposto dall’UE — non sono ancora state interamente progettate, al momento della scrittura di questa analisi. Sappiamo che alcuni paesi (per esempio, UK, la Svizzera e Bahrain) prevedono di aggiungere una funzione di certificazione vaccinale alle app di contact tracing già rilasciate. E sappiamo anche che diverse soluzioni includono blockchain e tecnologie biometriche. Ma, al momento, non sappiamo molto altro.
Molto resta ancora all’orizzonte, e più che discutere dettagliati sistemi di ADM, il dibattito internazionale sui passaporti e i certificati vaccinali si è finora perlopiù concentrato su questioni più generali. Per esempio, su domande come: è possibile usarli in modo etico oltre che efficiente? Hanno senso, dal punto di vista scientifico? E che tipo di attività finirebbero per consentire, nel loro tentativo di trasmettere alle persone un rinnovato senso di agenzia e autonomia personale, anche mentre la pandemia non mostra segni di cedimento?
Come costantemente visto per l’utilizzo di sistemi di ADM in Europa (e non solo), anche nel contesto della pandemia, la stessa urgenza viene anche sfruttata per adottare soluzioni tecnologiche per la certificazione vaccinale per la COVID-19 in assenza di un qualunque reale dibattito democratico circa i loro reali meriti — o la reale opportunità di adottarle. In Israele, dove viene già rilasciato un “green pass”, il risultato sono state proteste contro la “dittatura vaccinale” e i privilegi di una “classe vaccinata” nelle strade di Tel Aviv.
Pro e contro i certificati vaccinali
Eppure, i certificati vaccinali — almeno in teoria — presentano sia opportunità che rischi, che stanno venendo indagati da membri della società civile (per esempio, l’Ada Lovelace Institute), di istituti di ricerca (per esempio, la Royal Society), dell’accademia, e da svariate analisi e inchieste giornalistiche.
Le opportunità offerte dall’adozione di un modello per un certificato vaccinale digitale interoperabile sono più chiaramente espresse dai suoi proponenti. Tra i benefici, i favorevoli evidenziano: 1) uno strumento per riaprire l’economia in sicurezza; 2) un modo di aiutare le persone a ritornare in modo più sicuro alla loro “vita normale”, mostrando così una luce in fondo al tunnel delle restrizioni pandemiche all’agenzia e all’autonomia individuale senza compromettere la salute pubblica collettiva; 3) controlli di sicurezza più rapidi, efficienti, “seamless” (cioè, senza difficoltà o interruzioni) e perlopiù touch-less per i viaggiatori, minimizzando così i rischi di infettarsi viaggiando; 4) uno strumento per, più in generale, ridurre la trasmissione della COVID-19 nella popolazione.
Un’aggiunta unica e interessante viene dall’esperimento cileno, dove i certificati vengono rilasciati a chi è guarito dalla malattia. La soluzione è stata presentata come uno strumento per promuovere cure, empatia e contatto umano. Un simile modello di certificazione collegherebbe l’idea di “rendere servizio alla comunità” e contribuirebbe a combattere i sentimenti di isolamento e solitudine acutizzatisi durante la pandemia.
I favorevoli ai passaporti vaccinali argomentano che tutto questo verrebbe realizzato senza mettere in pericolo la privacy individuale o compromettere la sicurezza dell’utente. Sarebbero i clienti a decidere con chi condividere informazioni sul vaccino e su altre questioni sanitarie collegate alla COVID-19, e per quanto, e la maggior parte delle soluzioni analizzate afferma che i dati dei certificati digitali saranno salvati solo sul telefono dell’utente.
I rischi abbondano, tuttavia, e riguardano sfide di natura scientifica, etica e tecnologica.
Le sfide di natura scientifica si collegano al fatto che, se è provato che i vaccini funzionano nel proteggere un individuo vaccinato dalla COVID-19, dal contrarre la malattia, non c’è attualmente un consenso scientifico circa la riduzione della sua trasmissione, impedendo così a un vaccinato di infettare altre persone. Inoltre, le varianti della COVID-19 continuano a moltiplicarsi e diffondersi, e alcune si sono dimostrate potenzialmente in grado di ridurre l’efficacia dei vaccini. Di conseguenza, un certificato vaccinale dovrebbe essere flessibile e consentire continui aggiornamenti e aggiustamenti, così da evitare il falso senso di sicurezza prodotto da un vaccino superato.
Altri fattori critici ma sconosciuti attualmente dal punto di vista scientifico riguardano la durata della protezione fornita dal vaccino, e la sua capacità di impedire infezione asintomatica — entrambi elementi cruciali per qualunque piano implichi un “ritorno alla normalità” sulla base di un modello di certificazione vaccinale digitale. Questo ha portato il Consiglio Etico tedesco a concludere che “in questo momento non dovrebbe esserci alcun rilassamento delle restrizioni statali sulle libertà civili delle persone vaccinate, perché la loro infettività non può essere ancora stimata in modo affidabile”.
Queste sfide scientifiche producono anche conseguenze comportamentali. Il Consiglio Etico, per esempio, nota che “fino a quando non sarà possibile vaccinare tutti, una parte della popolazione percepirebbe come ingiusto un rilassamento delle restrizioni statali sulle libertà civili delle sole persone vaccinate”. E questo potrebbe portare anche a minore spirito di solidarietà, e a una ridotta disposizione a uniformarsi alle regole di distanziamento sociale, finendo per comprometterne l’efficacia. Incentivi comportamentali problematici potrebbero perfino spingere qualcuno a cercare attivamente di infettarsi, “specialmente”, nota Alexandra Phelan della Georgetown University su Lancet, “le persone che non possono permettersi un periodo di esclusione dalla forza lavoro, sommando le disuguaglianze di genere, razza, etnia e nazionalità esistenti”.
Anche le sfide di natura etica sono state esplorate nel dettaglio, e sono ben lungi dall’essere risolte. Su Scientific American, Nicole Hassoun e Anders Herlitz sostengono che i benefici dei passaporti vaccinali o immunitari “si diffonderanno in modo diseguale”, esacerbando le disuguaglianze esistenti. In più, un editoriale su Lancet scrive: “Se fossero introdotti i passaporti immunitari, i gruppi marginalizzati sarebbero soggetti a maggiori controlli per via delle disuguaglianze e del razzismo esistenti (per esempio, controlli di polizia per le norme sui lockdown) e avrebbero meno probabilità di accedere a test (e stabilire la propria immunità) rispetto ai gruppi non marginalizzati”.
Ancora, dato che i vaccini sono in larghissima parte nelle mani dei paesi ricchi — è stimato che “nove abitanti su dieci dei paesi più poveri al mondo potrebbero non ricevere il vaccino quest’anno”, scrivono Claire Loughnan e Sara Dehm su The Conversation — è probabile che rifugiati e richiedenti asilo risulterebbero i più severamente colpiti.
In ogni caso, non si tratta solamente di una iniqua disponibilità di vaccini: alcuni individui potrebbero non poterne ricevere una dose anche nel caso fosse disponibile. Per esempio, per ragioni di natura medica (donne incinte, persone con certe allergie, etc.). Si potrebbe argomentare che privarli dei privilegi garantiti alle persone vaccinate sia immorale. Questo ha portato Hassoun e Herlitz ad argomentare che “affinché siano etici”, i passaporti immunitari “devono quantomeno includere delle eccezioni”. Per esempio, “le persone che non possono accedere al vaccino per ragioni di salute ma devono lavorare, andare a scuola, viaggiare e così via dovrebbero poterlo fare quando i benefici eccedono i rischi”. Eccezioni dovrebbero venire predisposte anche in tema di welfare. Per esempio, per chi ha un disperato bisogno di recarsi al lavoro “in luoghi che richiedono una interazione sociale” per fornire supporto vitale alle proprie famiglie.
In aggiunta, se non implementati attraverso tecnologie in grado di salvaguardare la privacy, i certificati vaccinali potrebbero anche porre rischi per la riservatezza personale e portare perfino alla “normalizzazione della sorveglianza dello stato sanitario, creando infrastrutture di lungo termine in risposta a crisi limitate nel tempo”, come ha scritto l’Ada Lovelace Institute nella sua ‘Rapid Expert Deliberation’ pubblicata a febbraio 2021.
Conclusione: c’è urgente bisogno di dettagli e chiarezza
Si dibattono in tutto il mondo modelli per la certificazione vaccinale, intesa come strumento per agevolare la riapertura delle tratte di viaggio e l’economia, e mettere progressivamente fine alle severe limitazioni dei diritti e delle libertà imposte durante la pandemia.
Sono state immaginate molte diverse soluzioni, ma la maggior parte non è ancora stata descritta nel dettaglio, né è emerso un consenso globale intorno ad alcuna di esse. Ne è derivata confusione, in molti casi, sia nella terminologia adottata che nei sistemi di ADM proposti.
Diverse questioni di interoperabilità e infrastrutturali devono ancora venire risolte. Ciò solleva una complessa moltitudine di considerazioni che evidenziano sia le promesse che i rischi derivanti dall’adozione di certificati vaccinali.
Anche se diversi sistemi stanno venendo già messi alla prova, manca un qualunque dibattito realmente democratico in merito, e la loro trasparenza è perlopiù assente. E tuttavia, prima di poter giudicare davvero la più ampia fattibilità e opportunità di introdurre i certificati vaccinali, dovremo analizzare i dettagli dei piani che stanno venendo predisposti, specialmente a livello internazionale.
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* = Ne deriva una certa confusione, che finisce a volte per mettere sullo stesso piano passaporti vaccinali e immunitari (che potrebbero includere risultati di test sierologici positivi), o certificati e passaporti (con quest'ultimo termine che suggerisce in modo più diretto un prerequisito obbligatorio per poter viaggiare, piuttosto che una mera prova di avvenuta vaccinazione)
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su AlgorithmWatch, all'interno del progetto Tracing The Tracers.
Foto anteprima di jacqueline macou via Pixabay