Il dilemma del Partito democratico: agenda Draghi o agenda sociale?
11 min letturaIl segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha impegnato la prima parte della campagna elettorale nel tentativo di tessere una fitta ragnatela di alleanze.
Non si è trattato di un compito facile, in quanto Enrico Letta si è trovato a dover bilanciare da una parte la necessità di creare un fronte ampio in grado di contrapporsi a un’estrema destra che rischia di avere una maggioranza straripante in parlamento, dall’altra quella di avere un’idea di paese che tenesse assieme anche le anime diverse che abitano la coalizione progressista.
Il risultato è stato però deludente. Quel “campo largo” che Enrico Letta aveva immaginato fin dalla sua elezione a segretario del PD si è striminzito sempre di più, senza tuttavia guadagnare dal punto di vista della coerenza e coesione dell’offerta politica. Due erano le opzioni per Letta, al fine di coniugare voti e coesione programmatica: un’alleanza con il cosiddetto Terzo polo di Calenda e Renzi, oppure un’alleanza con Sinistra Italiana, i Verdi e il Movimento 5 Stelle. Scelte tra loro mutualmente esclusive, a meno di non voler ripetere gli errori delle larghe coalizioni già visti in passato.
L’opzione “Agenda Draghi”
La prima opzione, appunto, è un’alleanza con Azione e Più Europa, che si era concretizzata il 2 di agosto con un accordo e una conferenza stampa in cui i due leader, Calenda e Letta, avevano presentato un documento su questioni programmatiche e spartizione dei collegi. Su quest’ultimo fronte, si era deciso di non candidare negli uninominali personalità ritenute divisive, come i fuoriusciti da Forza Italia poi entrati in Azione o gli ex grillini come Luigi Di Maio così come i leader di partito.
Sul fronte programmatico invece i due partiti si erano impegnati a proseguire nel solco del governo Draghi. In particolare:
- diversificazione delle fonti di approvvigionamento per sopperire alla diminuzione dell’offerta da parte della Russia, mentre si continua a investire in rinnovabili;
- Istituzione di un salario minimo seguendo la direttiva europea, congiunto a un taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori;
- Proseguimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, assieme a politiche di bilancio che non facciano esplodere il debito pubblico e politiche fiscali votate alla progressività, pur lasciando invariata il carico fiscale complessivo;
- correggere politiche come il Reddito di Cittadinanza e il Bonus 110%;
- Dare priorità ai diritti civili.
Questo tipo di alleanza, nonostante un programma così vago, avrebbe di fatto collocato il Partito Democratico in quello che va sotto il nome di “centrismo radicale”. A descriverlo è il settimanale britannico The Economist, fautore proprio del bisogno di “una nuova forma di politica centrista radicale”. Questo nuovo progressismo riconosce il problema delle disuguaglianze, a differenza della destra economica. Ma, a differenziarlo dalla sinistra, riconosce il mutato contesto sociale, in un mondo sempre più complesso, individuale, globalizzato. Invece di misure come l’aumento delle tasse per i ceti più abbienti o l’intervento diretto dello stato nell’economia, i centristi radicali ritengono vincente una strategia più orientata al mercato. Esempi in tal senso sono un welfare state incentrato sui poveri meritevoli, un mondo del lavoro più flessibile, un sistema fiscale che premia il lavoro.
Un esempio di centrismo radicale l’ha fornito la presidenza di Emmanuel Macron, definita dai suoi spin doctor come Nuovo Progressismo. È proprio nella sua Francia che si ritrovano i limiti di questa esperienza.
Abbiamo infatti assistito al definitivo spostamento di Macron verso destra, con politiche che nel tentativo di amministrare efficientemente l’esistente finiscono per danneggiare i più poveri.
Basti pensare alla riforma del lavoro del 2017, fatta con l’intento di liberare le forze di mercato. Questa ha portato sì a un aumento dell’occupazione (che in generale dipende da vari fattori) ma a fronte di una minor qualità del lavoro. Secondo i dati nel 2020 si contavano oltre 3.3 milioni di precari, il 12% degli occupati totali con un’esplosione della microimpenditoria, ovvero delle partite iva, legate al sempre maggior peso della gig economy nel paese.
Nel nostro paese ne abbiamo avuto un assaggio proprio con il Governo Draghi. Nonostante vi siano, come si è già detto, delle misure condivisibili, il limite di questa esperienza è considerare l’attività politica finalizzata a un’amministrazione dell’esistente, senza cambiamenti ambiziosi. Una politica che vorrebbe amministrare nell’interesse di tutti, ma che finisce in maniera consapevole o meno per danneggiare le fasce meno abbienti della popolazione. Questo tipo di populismo, che vede la tecnica come coincidente con la politica, è comune a tutto il fronte liberale. Non esistono politiche di destra o di sinistra, ama ripetere Carlo Calenda, ma solo di buonsenso.
Proprio il fatto che non esista una valutazione oggettiva delle politiche proposte e la riduzione della politica ad amministrazione fa sorgere degli interrogativi sul programma presentato nel documento. E, ben più importante, pone dei dubbi sulla possibile scelta del Partito Democratico di porsi nell’orbita del radical centrismo all’italiana.
In tal senso, nel documento è ad esempio problematico il passaggio sul taglio del cuneo fiscale. Dipinto come bacchetta magica per risolvere tanto l’emergenza salariale quanto quella di produttività è in realtà un provvedimento secondario. Anche Germania e Francia condividono con l’Italia la stessa problematica, ma salari e produttività hanno una crescita maggiore rispetto a quella italiana. Per affrontare le due questioni è necessaria una strategia politica, con precise scelte di campo- si vogliono mantenere le rendite di quelle aziende che detengono troppo potere di mercato o no?
Lo stesso vale per il Reddito di Cittadinanza. Riguardo le problematiche non vi è un accordo universale. Una critica, condivisa anche dal presidente Mario Draghi, sarebbe la cosiddetta aliquota implicita a (quasi) 100%: se si trova un lavoro con uno stipendio maggiore rispetto al reddito, si perde il reddito nella sua interezza, disincentivando così la ricerca di un lavoro. È un’argomentazione intuitiva, ma si tratta più di modelli che di realtà: il lavoro non ha solo una componente remunerativa, tanto che oggi sono noti gli effetti psicologici della disoccupazione.
Lo stesso governo Draghi, appunto, davanti ai tentativi di riforma ha ignorato le raccomandazioni della Commissione Saraceno: più che una questione meramente tecnica, si tratta di scelte politiche. Lo stesso dicasi del superbonus: la questione truffe o furbetti e i vari escamotage tecnici per migliorarlo sono una questione marginale rispetto alla scelta di destinare quelle risorse al superbonus o, per dirne un’altra, all’edilizia popolare.
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L’opzione “agenda sociale”
La seconda strada sul piatto di Enrico Letta è quella dell’Agenda Sociale, in parte concretizzata con l’accordo PD e Sinistra Italiana/ I verdi capitanati da Fratoianni e Bonelli. Tra i quali è stato firmato un accordo sulla falsariga di quanto fatto con Carlo Calenda, ma estremamente diverso nei contenuti. Si evidenzia la collaborazione in Europa su Fit 55, il programma per la transizione ecologica europeo, e la battaglia contro l’inserimento di nucleare e gas nella tassonomia verde. I punti toccati su cui concordano i partiti, riguardo questioni interne ed europee, sono invece:
- Battaglia per la revisione del patto di stabilità in Europa, ovvero quell’accordo che stabilisce norme sul deficit pubblico e sul percorso di risanamento del debito fino al 60% del Pil, temporaneamente sospeso per l’emergenza pandemica;
- il contrasto al lavoro povero, all’emergenza salariale e al lavoro nero, con una radicale riforma del mondo del lavoro sulla falsariga di quella spagnola, passata dalla ministra Yolanda Diaz, che ha portato al boom dei contratti a tempo indeterminato;
- La riduzione della dipendenza dalle fonti fossili e una legge sul clima finalizzata al raggiungimento dei target per il 2030 fissati a livello europeo.
Si tratta in questo caso di una tendenza comune al centrosinistra occidentale che va spostandosi sempre di più su visioni più ambiziose. L’esempio principale, citato anche nel documento, è la Spagna. Dopo una fase turbolenta nel 2018 e nel 2019, si è insediato un governo in cui il Partito Socialista del Premier Pedro Sanchez è alleato alle forze di sinistra.
Anche nel resto d’Europa pare esserci un trend simile: basti pensare alla Francia, dove l’alleanza NUPES ha provato a sfidare Macron alle elezioni, o in Germania lo spostamento di un moderato come Scholz su posizioni più radicali durante la campagna elettorale.
Ancora troppo presto per una valutazione complessiva di questo spostamento a sinistra, ma i segnali spagnoli sono incoraggianti, con riforme centrali come quella già citata sul mondo del lavoro.
A dare manforte a questa opzione c’è anche il fermento della comunità accademica riguardo proposte radicali. Per citare qualche esempio: imposta patrimoniale progressiva; la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione di impresa; il nuovo ruolo per lo Stato nell’attività industriale e innovativa; l’intervento pubblico nella gestione dei processi di automazione delle imprese affinché non danneggi la creazione di buoni lavori.
In questo modo il Partito Democratico rescinderebbe i legami con la fase renziana, posizionando saldamente nel campo del centrosinistra progressista e socialdemocratico.
Ovviamente anche questa via non è scevra da rischi. In particolare quello di far prevalere, all’opposto della cosiddetta agenda Draghi, l’ideologia sulla tecnica. Per Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, il salario minimo dovrebbe essere a 10 eur/h. Si tratta di una posizione in contrasto con l’evidenza empirica. Dalle ricerche più recenti sappiamo infatti che un salario minimo fino al 60% del salario mediano non ha impatti negativi sull’occupazione. In Italia le analisi svolte nel settore manifatturiero stimano questa cifra tra gli 8.25 e i 9.65 al netto dei contributi previdenziali. La proposta di Fratoianni quindi potrebbe portare a un impatto negativo del salario minimo sull’occupazione.
Come sono andate le cose e come sarebbero dovute andare
Questo compromesso subottimale, che cercava di tenere dentro pezzi dell’Agenda Draghi e allo stesso tempo di quella sociale, è deflagrato. Qualche giorno dopo aver firmato l’accordo elettorale, infatti, il leader di Azione Carlo Calenda ha annunciato durante la trasmissione In Mezz’Ora di Lucia Annunziata che avrebbe rescisso l’alleanza con il PD, così come il ticket con Più Europa. Qualche giorno dopo ha siglato un accordo elettorale con Italia Viva di Matteo Renzi.
Le motivazioni dietro la scelta di Calenda sono proprio l'incompatibilità tra il programma di Azione/Più Europa e quello di Sinistra Italiana. Nel corso dell’intervista Calenda ha affermato
"Due giorni fa sono andato da Letta e ho detto che tutta questa cosa gli italiani non la capiranno e gli ho detto io rinuncio ai collegi, facciamo un'alleanza netta, tengo solo il 10%, lo facciamo insieme solo una volta".
Nonostante le affermazioni mirabolanti – come l’idea che Fratoianni e Bonelli si sarebbero convertiti all’agenda Draghi – il leader di Azione ha sicuramente colto un punto critico. L’alleanza prospettata dal Partito Democratico sarebbe stata insoddisfacente: a fronte di una restrizione dell’alleanza, tagliando fuori Movimento 5 Stelle e Italia Viva, la coalizione si sarebbe ancora una volta definita al negativo come antidoto alle destra, senza una vera coerenza programmatica.
Ed è proprio l’agenda Draghi a porre in discussione la strategia. Se Letta avesse posto come conditio sine qua non la condivisione del percorso di governo di Mario Draghi, questo avrebbe ostacolato l’alleanza con Sinistra Italiana e i Verdi dall’alleanza, che il governo Draghi non solo non l’hanno mai votato, ma pesantemente criticato. Se questa non è una condizione necessaria, non si capisce perché l’alleanza di centrosinistra non avrebbe dovuto coinvolgere anche il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte.
Su questo punto infatti il Partito Democratico ha avuto una visione incomprensibile. Qualche giorno prima della crisi di governo il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha dichiarato che, con l’uscita dalla maggioranza del movimento, si sarebbe concluso il percorso di alleanza, propendendo invece per un’alleanza nel nome di Draghi. Poiché questa non si è manifestata nei fatti, il veto sul Movimento è in palese contraddizione con le dichiarazioni di Franceschini.
Due sono i motivi per cui un’alleanza con il Movimento 5 Stelle sarebbe stata conveniente per il Partito Democratico. Il primo motivo è puramente numerico: dal punto di vista elettorale l’alleanza con il Movimento 5 Stelle avrebbe portato a una capitalizzazione di consenso maggiore rispetto a quella con il fronte liberale. Secondo i sondaggi ancora oggi il Movimento di Conte raccoglierebbe un 10% dei voti, una dote ben maggiore rispetto a quella portata dal “Terzo polo”.
Il secondo motivo deriva dalle prove tecniche di alleanze tra 5 Stelle e Partito Democratico che vanno avanti almeno dall’estate 2019. Prove iniziate proprio con una dichiarazione di Dario Franceschini, ancora al Corriere della Sera, in cui bocciò la strategia dei popcorn rispetto al governo Giallo-Verde. Durante il governo Conte II questa alleanza si concretizzò, tanto che esponenti di spicco del partito democratico come Goffredo Bettini ipotizzarono un’alleanza organica. Il climax fu durante la crisi dello stesso, quando il Partito Democratico a guida Zingaretti affermò che il punto di riferimento dei progressisti era proprio Giuseppe Conte.
Tuttavia anche questa alleanza mette di fronte a un problema già visto: qual è la visione comune tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico? Per due anni l’alleanza infatti si è basata più su desistenze negli uninominali come a Primavalle, o legami nei territori come a Genova. Non si è invece parlato di programmi e visioni, se non appunto attraverso formule retoriche come “campo progressista”. Per quanto il Movimento 5 Stelle abbia in qualche modo cercato di intercettare il disagio sociale, soprattutto nei punti presentati a Draghi, alla lettura dei programmi appare ancora una volta né carne né pesce. Un esempio su tutti è il programma fiscale. Non vi sono proposte “sociali”, come per esempio un aumento delle tasse sulle fasce più abbienti della popolazione. Troviamo invece misure simbolo del Movimento 5 Stelle, come il cashback, il cui successo è discutibile.
Le proposte sulla fiscalità del Movimento 5 stelle sono un mix tra Forza Italia, Italia Viva e Lega. Nulla su giustizia fiscale, ridurre peso fiscale per i meno abbienti, rafforzare progressività. Confrontatelo con le proposte di #unionepopolare, punto 10: https://t.co/I9CirORylO pic.twitter.com/SUPLwGUGH5
— Filippo Barbera (@FilBarbera) August 17, 2022
Entrambi i partiti condividono l’incapacità di sposare una linea chiara, definendosi invece al negativo, o come lotta alla casta (Movimento 5 Stelle) o come antidoto alle destra (Partito Democratico).
A differenza del Movimento, che ha fatto dell’ambiguità ideologica un tratto caratteristico, il Partito Democratico fatica a trovare una via almeno dalla fine della parentesi renziana. Mentre Renzi una linea ce l’aveva, ed era quella di collocare il partito su posizioni di liberismo sociale seguendo il modello blairiano, il PD post-Renzi si è caratterizzato come Guardiano del Tempio. Prima appunto con il Governo Conte II, difendendo strenuamente fino all’ultimo atto. Poi con il Governo Draghi: dopo la proposta del fondo di maturità per i 18enni infatti Enrico Letta ha sposato la linea della difesa ad oltranza del governo Draghi, indipendentemente dalle proposte.
Si tratta di una linea perdente per due motivi. Il primo è stato spiegato dal linguista cognitivo George Lakoff nel suo “Non pensare all’Elefante”: la politica è fatta di parole d’ordine e frame, ovvero l’interpretazione inconscia che un individuo dà a certe frasi o visioni del mondo. Lasciandosi dettare dalla destra l’agenda politica e i temi, il Partito Democratico si trova così a rincorrere, finendo in una spirale negativa.
Il secondo, che fa proprio al caso della narrazione di destra, è che si percepisce il Partito Democratico non tanto come un partito, ma come un’organizzazione di potere. Il partito ha via via abdicato a fornire una qualunque proposta politica, come se la politica fosse un lavoro da ragionieri. Basti pensare all’esperienza di questi ultimi anni, in cui il PD ha prima formato un governo con il Movimento 5 Stelle, portando al ministero dell’Economia Gualtieri, proprio in virtù del ruolo svolto in Europa sul bilancio europeo, difendendolo fino all’ultimo, come dimostrano le parole di Zingaretti del tempo in cui indicava in Conte il punto di riferimento dei progressisti. Tempo qualche settimana e il PD è diventato più draghiano di Draghi, ergendosi a guardiano del tempio anche in questo caso.
Eppure la situazione del paese, già grave prima della pandemia, richiederebbe scelte pragmatiche e quindi più ambiziose. Una linea politica chiara, che il leader del PD avrebbe potuto affermare ad esempio candidando le leve più giovani del partito, senza un appello esplicito, e attraverso un ascolto più diretto con la base. Invece sembra valere quanto diceva Gramsci, ma al contrario: l’ottimismo della ragione, il pessimismo della volontà.
Immagine in anteprima: Niccolò Caranti, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons