Forse Paola Egonu prenderà una pausa, mentre il razzismo resta
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Paola Egonu è conosciuta come una delle pallavoliste più forti al mondo, è di quei talenti così puri per cui le parole si sprecano. Tutto un paese dovrebbe mettersela come fiore all’occhielo, come esempio di successo, proporle di fare da testimonial per svariate campagne istituzionali. Il settore della pallavolo dovrebbe darsi molte pacche sulle spalle per avere a disposizione un simile prodigio, interrogarsi su quanto sia possibile sistematizzare lo scovare talenti e il fare vivaio. Dovrebbe poi esserci tutta una fila di sponsor, editori, produttori - persino ciarlatani e pulciari - pronti a farle una serrata corte professionale, per amplificare la portata di quel successo e travasarla nell’industria culturale.
Tuttavia Paola Egonu soffre un gravissimo problema: gioca per la nazionale italiana. Ovvero di un paese il cui secondo sport nazionale non è la pallavolo, ma il chiacchiericcio.
Accade così che a margine di una partita, Egonu si sfoghi a bordo campo con il suo procuratore. Una scena che non avrebbe nulla di particolare, se non fosse che un tifoso nei paraggi decide di riprendere la scena e diffonderla. L’audio naturalmente è tutto fuorché perfetto, perché la distanza e i rumori ambientali non permettono di capire con chiarezza.
Diamo comunque per scontata la versione confermata a posteriori dalla stessa protagonista: Egonu si sia lamentata perché, tra i vari insulti e abusi che sistematicamente riceve, c’è chi è andato a sindacare la sua cittadinanza. C’è chi dice sia il solito “cretino del web”, o addirittura chi parla di una domanda “innocente e magari mal posta” di un giornalista olandese, ricordando che in Olanda è normale essere “neri e olandesi” - essere neri e italiani no, sembra di capire - intanto che evoca il "complesso di Calimero".
Siti di informazione e relativi canali social, così come i vari circuiti mediatici italiani, trattano la cosa come “Paola Egonu lascia la nazionale”. Non c’è stata una dichiarazione ufficiale o un comunicato. Al limite, c’è stata la risposta a caldo della pallavolista a chi le ha chiesto conto di quel commento "rubato", di ciò che "avrebbe detto", trattandolo non come se fosse uno sfogo, ma qualcosa di cui rendere conto, certificandolo attraverso la risposta. Il fatto che qualcuno abbia reso pubblica la frase per conto di Egonu, contro il suo volere e contro le intenzioni che quella frase avevano per lei, viene di fatto estromesso dal contesto per pompare meglio i titoloni. Altrimenti le domande sarebbero state di altro tenore.
Così non si parla del fatto che una pallavolista si sia sfogata per circa 30 secondi a causa dell’ennesimo abuso razzista ricevuto, la notizia non è l'episodio di razzismo nel tifo, o il razzismo in generale. La notizia diventa il ritiro. Il bello è che gli stessi articoli sul ritiro presentano anche la smentita del ritiro stesso, e spiegano che forse, al limite, Egonu sta valutando di prendere una pausa. La notizia insomma, è riassumibile in “A una domanda su uno sfogo diffuso senza il suo consenso, Egonu ha detto che potrebbe prendersi una pausa tra qualche mese”. Così ha titolato Bloomberg: La miglior pallavolista italiana valuta di mollare a causa del razzismo” (il corsivo è mio).
La notizia insomma, è stata creata dalla ricezione di quel video originale e dal bisogno di dover sempre e comunque iperbolizzare: il ciclo della notizia ha inghiottito un video con un pessimo audio e ha sputato fuori il ritiro. Egonu è stata costretta in buona parte a subire questa dinamica. Magari aveva davvero in mente da un pezzo di prendersi una pausa, ma proprio per la natura delle motivazioni avrebbe avuto bisogno di poterlo dichiarare secondo i suoi tempi, e non perché tirata in mezzo dal bisogno di creare sempre e comunque drammi.
Nel frattempo, in ogni caso, si è messo in moto un dibattito che ha coinvolto Mario Draghi, e dove Matteo Salvini ha provato a indossare la sua faccia di bronzo migliore. Se ci pensate bene, quindi, ora Paola Egonu è praticamente costretta a prendersi una pausa. In caso contrario, infatti, partirebbe tutta una serie di commenti, anche autorevoli, pronti a dirle che ha fatto solo scena, che ha recitato il ruolo della vittima, che ha sollevato un polverone per nulla, e così via.
Ci sono alcuni aspetti che possiamo evidenziare di tutta questa vicenda. Il primo è che come al solito non sappiamo fare i conti col razzismo, quando si manifesta in una qualunque forma. Invece, lo si spoglia dei suoi aspetti strutturali, concentrandosi sul caso di turno come un qualcosa a sé, come eccezionalità da far rientrare il prima possibile nell’anonimo ordinario, anche quando questo ordinario è il valore di una campionessa.
Eppure l’Italia è un paese strutturalmente razzista, a cominciare dalle leggi sull’immigrazione, che creano cittadini di Serie A e di Serie B. Un problema, quello del razzismo strutturale, che ci trasciniamo dietro da molto, molto tempo e che certamente non potrà risolvere una campionessa di pallavolo.
Anche perché a queste leggi bisogna affiancare un ampio spettro di propaganda e visioni politiche coerenti, che ne sono sia premessa che giustificazione. Dall’identitarismo al securitarismo, quest’ultimo ben sedimentato nei segmenti progressisti del paese - per non parlare della variante benevola del razzismo, quella del “salvatore bianco”.
Il baricentro della propaganda infame, nel nostro paese, tende alla xenofobia e al “Prima gli italiani”, baricentro che si è insediato e normalizzato in particolare grazie ai media (tanto più complici tanto più autodichiarati “moderati” e “liberali”), che quando si tratta di diritti umani invece di usare quella espressione preferiscono buttarla sul “buonismo” di chi i diritti umani li ha ben presenti, che relativizzano l’omissione di soccorso in base al “non possiamo accoglierli tutti” e che ripetono pari pari tutta una serie di ammiccamenti tra la xenofobia e il suprematismo bianco.
Poiché il gusto è anche un fatto di abitudine, decenni di questa merda hanno nutrito un senso comune di ordinaria bestialità, contiguo e correo a tutti quei contesti burocratici e legislativi che, di fatto, creano profonde disuguaglianze sociali e violazioni dei diritti umani. Persino la libertà di espressione, in questa brodaglia di senso, è trattata come un limite imposto al potere di abuso verso gruppi marginalizzati, tra il vittimismo ipocrita del “non si può più dire niente” e il centrismo performativo di chi “fa solo domande”. Ma chissà perché a nessuno è venuto in mente di titolare "Vogliono cancellare Paola Egonu", chissà...
Un simile paese si specchia perfettamente in quella nazionale maschile di calcio che durante gli Europei ha inscenato una specie di psicodramma. Il motivo? Dover decidere se aderire o meno al gesto di inginocchiarsi durante l'esecuzione dell'inno, eseguendo la versione aggiornata della Terra dei cachi: mi inginocchio sì, mi inginocchio no, mi inginocchio solo se ti inginocchi prima tu e solo perché sono cortese. E attorno a loro, il frignone e subodolo chiacchiericcio di chi segue il dibattito e magari si sente offeso da un simile gesto, anzi dalla sua "imposizione" - manco toccasse a chi segue le partite di inginocchiarsi.
Abbiamo del resto premi Strega autocertificati progressisti che si lamentano del “politicamente corretto” e della “insopportabile ortopedia dell’anima” (ah, lo bello stile!), e nessuno che gli rida mai in faccia. Qualche mese abbiamo persino dovuto leggere un articolo su un sito culturale, Doppiozero, dove un dotto professore ci spiegava la "Maledizione della cancel culture": il considerare la n-word un insulto. Abbiamo cioè intellettuali prestigiosi che, come difensori dei diritti umani e in particolare della libertà di espressione, valgono quanto Pio e Amedeo: giullari di corte che giocano a fare i sovversivi tirando fuori insulti e stereotipi su neri, gay o ebrei, e per questo vengono premiati, ma col cazzo che li vedremo mai sconfinare nella blasfemia. Le eccezioni alla norma, in tal senso, sembrano incidenti di percorso - o miracoli.
Siamo comunque in buona compagnia in Europa, basti pensare a Joseph Borrell, Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che in un discorso ufficiale ha paragonato il nostro continente a un “giardino” e “buona parte del resto del mondo” a una “giungla” che può invadere il giardino. L’Abc del suprematismo come metafora e vita quotidiana.
In un quadro simile, che qualcuno vada a sindacare l’effettiva nazionalità, ossia l’idea che la cittadinanza non sia un diritto, ma un merito da dimostrare, è semplicemente il sintomo del cancro in fase avanzata. Di un potere che si può esercitare anche solo per inerzia. Non è nemmeno una novità: stupirebbe se non fosse così.
Siccome siamo tra i primi produttori di coda di paglia in Europa, magari qualcuno potrà dire “ah, stai dicendo che x milioni di italiani sono razzisti?”. In questo caso la risposta che si può dare (a parte questa gif) è: “forse dovresti passare un’oretta al giorno su social come Tik Tok, e guardarti i video delle persone razzializzate che sono state in Italia, e ascoltare cosa dicono di noi. Sicuramente è un modo più utile di trascorrere il tempo, rispetto a fare domande di cui non interessa davvero la risposta”.
Siccome esistono anche persone che, nel negare o rimuovere il razzismo, sono convinte di essere intelligenti, e magari dicono “a me una volta all'estero mi han fatto un commento sugli spaghetti, che dovrei dire?”, lascio un link utile che potrà dare maggior contesto alla questione, di per sé ovviamente assai complicata e che non posso purtroppo approfondire in questa sede. Nel dubbio, evitate Salamanca.
Una volta, in Spagna, a Salamanca mi hanno chiesto se fossi italiano. Dovevo denunciare anch'io come la Egonu e mettere in piedi una mega caciara con l'Università che mi ospitava per un corso di studi?
🤔— Paolo Bargiggia (@Paolo_Bargiggia) October 16, 2022
Siccome, infine, esistono anche persone che attribuiscono a chi commenta fatti di attualità il compito di spostare voti, potrebbe esserci chi pensa una cosa tipo “ah, bene continuiamo così, è per articoli del genere che Meloni governerà venti anni”. Vorrei far presente che queste previsioni scientificamente esatte venivano fatte anche a proposito di “Salvini”, cui si attribuivano “venti anni” di governo per colpa di articoli sull’immigrazione dove si cercava di non essere razzisti.
Il secondo aspetto è quel paternalismo che, nell’accentrare il discorso solo e soltanto su Egonu, tratta problemi sociali come se fossero una questione di carattere. Così il problema non è qualcosa in sé, ma il segno della debolezza di carattere di chi lo subisce. A tal proposito è paradigmatico un altro sportivo, Mario Balotelli, che nel subire il razzismo ha sempre dovuto sorbirsi discorsi sul suo carattere o sul suo stile di vita, come se questo c’entrasse qualcosa. Come se, insomma, il razzismo fosse la conseguenza di chi compie scelte sbagliate, e non un problema da approcciare alla fonte.
Così abbiamo Gaia Piccardi che sul Corriere ci tiene a precisare che “prima di una storia di razzismo” si parla di una storia di “umana friabilità”, di chi ha vissuto nella “bambagia a doppio taglio dello sport professionistico”. Le fa eco su Repubblica Emanuela Audisio, che parla dello “stress” da gestire, perché “lamentarsi della cattiveria del mondo è inutile”.
Gli stessi pulpiti che da un paio d’anni ci riversano spazzatura travestita da dibattito culturale su “cancellazioni” e “talebani del politicamente corretto”, in casi del genere scoprono che, alla fine, se sei famoso devi mettere in conto il razzismo. Per capire quanto sia nocivo e pretestuoso tutto ciò, è interessante come Audisio si lasci andare quando il razzismo incrocia il tema della salute mentale:
alla tennista Naomi Osaka che piange o scappa dal campo verrebbe da dire: ti vogliamo bene, ma sei diventata lagnosa, prenditi il tempo, curati, e poi torna in campo.
È infatti di dominio pubblico che Naomi Osaka soffra di depressione. Una questione di salute mentale non diventa secondaria perché si è ricchi e/o famosi, al limite il vantaggio consiste nella maggior facilità di accesso a strutture sanitarie adeguate. Ma di certo buttarla sulla “lagnosità” significa prima di tutto invalidare la depressione come un problema di tipo medico, e trasformarlo in un problema di carattere. Il messaggio, nel migliore dei casi, è “ti riconosciamo il diritto a star male, basta che non scocci”.
Poco dovrebbe importare, nel caso specifico, quale sia stato il rendimento di Egonu durante il torneo - anche qui, si lascia intendere che se avesse giocato bene avrebbe “resistito” meglio a insulti razzisti, o che se giochi male devi mettere in conto gli insulti razzisti? C’è a monte la pretesa che una sportiva accetti di non avere alcuna padronanza sulla propria vita: non solo non le appartiene, ma deve sottostare a questa continua sottrazione e fare finta di nulla, come parte di un gioco le cui regole è vietato mettere in discussione a qualunque livello.
Immagine in anteprima: frame video Milano Volley 1 via YouTube