Le fiabe sono sessiste?
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Aggiornamento 15 gennaio 2024: A distanza di un paio di giorni dall'uscita dell'articolo, è stato finalmente reso disponibile il testo integrale del discorso di Paola Cortellesi. Come era facile intuire, le fiabe sono utilizzate all'interno di un discorso più ampio sulla violenza di genere e l'autodeterminazione delle donne, otttenuta a prezzo di grandi fatiche e anche e soprattutto attraverso la partecipazione alla vita politica. L'argomentazione centrale sulla storicizzazione e sulle molteplici interpretazioni di fiabe e favole rimane, ma era giusto riconoscere che il discorso di Cortellesi muove da altre premesse e si articola intorno al suo film, che è lei stessa a paragonare a una fiaba nei suoi aspetti più crudeli e sinistri, pur essendo radicato in un periodo storico non distante dalla nostra realtà.
Ho imparato a leggere su I Quindici, enciclopedia per l’infanzia in quindici volumi tematici, quando ero molto piccola. Il volume 2, Racconti e fiabe, è uno di quelli che ho letto di più. Da bambina possedevo un’antologia di Hans Christian Andersen che ho quasi imparato a memoria, come anche – più tardi – i due volumi delle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino e un bellissimo libro illustrato con miti e leggende di tutto il mondo. Come tutti i nati negli anni ’70, inoltre, ho ascoltato e riascoltato i proto-audiolibri delle Fiabe sonore dei Fratelli Fabbri, la cui sigla è capace di sciogliere in lacrime il più grezzo dei cinquantenni (fatela partire a tradimento durante una discussione per vedere zii e nonni struggersi di nostalgia e deporre all’istante le armi). Non credo, quindi, di poter essere tacciata di revisionismo, se dico che Paola Cortellesi, nel suo discorso di apertura dell’anno accademico alla Luiss Guido Carli, non aveva tutti i torti.
Le fiabe sono sessiste? Se prese alla lettera e trasposte nella modernità, certo che sì. Biancaneve sta a casa a fare la domestica per i nani che vanno in miniera: una divisione dei ruoli molto tradizionale. Cenerentola accetta remissiva la schiavitù della matrigna e viene salvata dalla fata madrina (che le dona abiti e scarpette e la porta al ballo), per poi essere scelta dal principe che la sposerà. La bella che si addormenta all’inizio della fiaba rimane fuori combattimento per buona parte della vicenda narrativa, che è – di fatto – uno scontro fra maghe con un principe che potrebbe quasi non esserci ed è poco più di uno strumento utile a spezzare un incantesimo. Potrei continuare, ma il punto mi sembra chiaro: nella versione delle fiabe a cui siamo più avvezzi, quella Disney, le ragazze sono belle, miti, dolci, modeste e remissive. L’emblema della virtù, presentato alle bambine fino dalla più tenera età come modello di femminilità degna di ricompensa e d’amore, contrapposte alle donne anziane e malvage e a sorellastre brutte e stupide. Sii bella, sii docile, fatti scegliere.
Del discorso di Cortellesi ci sono due cose da dire: la prima è che si trattava del monologo di un’attrice. E i monologhi, prima di ogni cosa, hanno il dovere di essere divertenti. Di esagerare, provocare, far ridere, ribaltare una realtà che crediamo immutabile fornendone una lettura opposta a quella a cui siamo abituati. Da Biancaneve che fa la colf ai nani al principe che riconosce Cenerentola dai piedi e non dalla faccia, tutto sembra pensato per essere buffo, oltre che paradossale. Cortellesi usa le fiabe per mostrare come ogni elemento culturale possa essere messo in discussione e non debba necessariamente essere preso a valore facciale. La seconda cosa è che un discorso del genere viene pronunciato nella consapevolezza – no: nella certezza assoluta – che i conservatori abboccheranno all’istante, facendo partire una polemica che non farà che aumentare la circolazione del messaggio.
Non sono però solo i conservatori a essere partiti a spada tratta per difendere l’onorabilità delle fiabe. Altrettanto, ma con tutt’altri strumenti, hanno fatto gli intellettuali: sul suo profilo Facebook Simona Vinci (autrice di Mai più sola nel bosco. Dentro le fiabe dei fratelli Grimm) sostiene che “Biancaneve, per esempio, non è quella che fa ‘da serva’ ai nani, ma è quella che ha il coraggio di scappare da sola nell'ignoto del bosco per sfuggire a un destino di morte. Cenerentola […] è quella che sfida le regole per partecipare, come tutte le altre ragazze, a una festa da ballo. E ci sono pure quelle che sfidano i padri padroni e scendono nell'oltremondo per andare ogni notte a consumare le scarpe ballando”. Una lettura che può essere discutibile, ma che se non altro è più strutturata delle urla scomposte ai rischi del “politicamente corretto” e della “cancel culture”, qualunque cosa significhi, e di riflesso anche di certe messe in discussione pedestri di un testo originale che non si sa bene nemmeno quale sia.
In un suo articolo uscito su Repubblica nel 2021, Nadia Terranova ricorda, infatti, che le fiabe che conosciamo sono solo una versione – spesso edulcorata, tagliata, privata degli aspetti horror o di un finale tragico – di una storia che viene da stratificazioni di altre storie. Torniamo, per esempio, alla storia di Cenerentola. L’abbiamo conosciuta, come dicevamo prima, come biondina graziosa e inerme, quasi priva di iniziativa personale e rassegnata al suo destino di sguattera per una donna prevaricante e le sue figlie insulse e malevole. Nella versione dei fratelli Grimm, le sorellastre sono belle, ma “nere di cuore” e Cenerentola, pur essendo ridotta a far loro da ancella, è una strega potentissima che si procura da sola il necessario per andare al ballo. Il finale della fiaba è un bagno di sangue, fra piedi amputati per entrare nelle scarpette e colombine al servizio di Cenerentola che accecano le sorellastre per punirle del loro cattivo comportamento. Nella versione di Charles Perrault (pubblicata nel 1697), le sorellastre, ricche e vestite a festa, risultano più brutte di Cenerentola nei suoi stracci: è questa versione ad aver costituito la base per la versione animata del 1950, ma qui non è il principe a non riconoscerla, sono le stesse sorelle che la vedono al ballo vestita a festa e non hanno idea di chi sia quella bella signora che balla con il figlio del re tutta la notte.
Se esistono più versioni della stessa fiaba è perché nessuna fiaba è davvero originale, e tutte derivano da più versioni della stessa storia o leggenda e affondano le loro radici in narrazioni antichissime. Tra le versioni dei Grimm e quella di Perrault c’è anche La Gatta Cenerentola contenuta in Lu cunto de li cunti di Giambattista Basile, in cui Cenerentola ha il nome di Zezolla e ha l’unica ambizione di uscire da sola ogni tanto senza essere vista.
Che dire della Sirenetta protagonista della fiaba di Andersen? La versione proposta dalla Disney nel 1989 ha un lieto fine: Ariel sconfigge la strega Ursula, si rivela al principe, si riprende la sua voce e ci guadagna pure un paio di gambe funzionanti. Anche nella versione di Andersen la Sirenetta rinuncia alla sua voce per potersi avvicinare al principe, ma camminare le provoca dolori lancinanti, e il suo mutismo è un ostacolo che impedisce la creazione di un vero legame d’amore con l’uomo che ama, che finisce per sposare un’altra. La Sirenetta, che sta per disciogliersi nella spuma del mare, viene salvata dalle figlie dell’aria. Se proprio dovessimo trovare una morale per le bambine, la versione originale sarebbe più educativa di quella Disney: rinunciare alla propria voce e individualità per un uomo è un pessimo investimento che non può che finire in tragedia.
Ogni fiaba ha più letture: quella oscura e psicanalitica, che scompone tutto in simboli riconducibili agli abissi dell’inconscio, quella tradizionale di riscatto di una protagonista troppo buona e gentile perché le sue virtù non siano ricompensate, quella femminista che a volte ne chiede il rovesciamento. Ne Il silenzio dell’acqua, Louise O’Neill (apprezzata autrice irlandese di romanzi young adult di grande impatto come Solo per sempre tua e Te la sei cercata, oltre che di titoli per adulti non ancora tradotti in Italia) rispetta il testo originale di Andersen ma ne cambia il finale, restituendo alla protagonista una forma di controllo e autodeterminazione anche nella trasformazione. In Fiabe d’altro genere (pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2021), Karrie Fransman e Jonathan Plackett prendono tutte le fiabe tradizionali e invertono i generi dei personaggi: l’effetto è paradossale e risulta a tratti quasi grottesco, ma è utile per capire quanto sia radicata in noi la percezione di quello che è possibile e appropriato per maschi e femmine.
Nell’antologia di Andersen che leggevo da bambina c’erano due fiabe che sopra tutte mi porto nel cuore, per motivi diversi. La prima è Le scarpette rosse, la storia di Karen (Carola nella mia traduzione), ragazzina povera il cui sogno è quello di possedere e indossare un paio di scarpette rosse che la sua comunità considera troppo impudiche per essere portate in chiesa. Karen lo fa lo stesso, e per questo piccolo peccato di vanità viene punita fino alla morte. È una fiaba macabra, in cui la protagonista è costretta a danzare suo malgrado finché non le vengono amputati i piedi, e anche così le scarpette continuano a perseguitarla fino al pentimento e alla morte. Anche da piccola non potevo che provare compassione per Karen, che non aveva fatto altro che desiderare qualcosa di bello per sé: se dovessi darne una lettura psicanalitica, alla luce di quello che sappiamo di Andersen e della sua omosessualità repressa, quelle scarpe di pelle rossa luccicante possono rappresentare il desiderio proibito per gli uomini oppure la maturazione sessuale delle fanciulle. Per me, piccola, erano una storia avvincente e terrificante con un finale triste.
L’altra fiaba che ricordo con affetto è molto meno nota, e si intitola I cigni selvatici. Come molte altre, anche questa fiaba ha un precedente nell’opera dei fratelli Grimm, una fiaba popolare tedesca intitolata I sei cigni. La protagonista, la giovane e bellissima Elisa, è l’unica femmina di dodici figli di un re che – come da tradizione – si risposa con una donna malvagia. La matrigna getta un sortilegio sugli undici maschi, tramutandoli in cigni, e fa cacciare Elisa, camuffandone la bellezza fino a renderla irriconoscibile al suo stesso padre. Anche Elisa, come la Sirenetta, baratta la sua voce con una possibilità: quella di restituire ai fratelli le sembianze umane. Per anni, muta, pesta ortiche con i piedi nudi per ricavarne le fibre e tessere undici tuniche. La missione di salvataggio è la sua priorità, nient’altro conta: anche l’intervento di un re, che la preleva dal bosco in cui vive, è per lei fonte di angoscia. La storia di Elisa, insomma, cos’è? Una storia di oppressione femminile, o una storia di sacrificio e perseveranza? Entrambe le letture sono possibili, ma prima di tutto I cigni selvatici è una grande storia, onirica e surreale. Ed è forse alle storie, prima che alla loro lettura, che possiamo tornare.
Immagine in anteprima via Roma Today