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In Sud America dove si teme più la fame del contagio. Il disastro di Amazonas e la minaccia per gli indigeni

6 Maggio 2020 9 min lettura

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In Sud America dove si teme più la fame del contagio. Il disastro di Amazonas e la minaccia per gli indigeni

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Con la crescita costante dei contagi da COVID-19, gli esperti di salute pubblica temono l’arrivo di una crisi con effetti pesantissimi dal punto di vista sia sanitario che economico in Sud America, regione dove vivono oltre 430 milioni di persone, delle quali circa un decimo in estrema povertà. A causa della pandemia, altri 35 milioni di abitanti potrebbero ritrovarsi in questa condizione.

Da quando lo scorso 26 febbraio è stato confermato il primo caso di COVID-19 in Brasile, in generale il Sud America ha visto una diffusione relativamente più lenta del nuovo Coronavirus rispetto a quanto successo in Europa o negli Stati Uniti. “Innanzitutto, molti governi della regione hanno intrapreso rapidamente azioni per bloccare i loro paesi nel giro di poche settimane dall’identificazione dei primi casi di Coronavirus”, ha scritto Alex Ward su Vox.

L’Argentina, ad esempio, ha registrato il primo contagio il 3 marzo, e dichiarato il lockdown il 20 dello stesso mese. In maniera simile ha agito il Perù, mentre il Venezuela ha chiuso tutto appena quattro giorni dopo il primo caso. Queste misure hanno sicuramente avuto un effetto positivo sul numero di persone potenzialmente in contatto con il virus.

Il Brasile rappresenta un caso a parte. Il presidente Jair Bolsonaro ha adottato sin da subito un atteggiamento negazionista nei confronti della gravità della pandemia: si è opposto alle richieste di lockdown partecipando anche a manifestazioni di protesta contro le misure di chiusura prese dai governatori di alcuni stati (la responsabilità della sanità in Brasile è delle municipalità) e ha mandato via il ministro della Salute che lo aveva invitato a seguire la via dell’isolamento sociale come risposta alla pandemia. Ai giornalisti che a fine aprile gli hanno chiesto conto dell’elevato numero di morti nel paese – oltre 5 mila in quel momento – Bolsonaro ha risposto facendo spallucce: «E quindi? Mi dispiace, che volete che faccia?».

Il suo atteggiamento è stato fortemente stigmatizzato da associazioni e organizzazioni per i diritti umani, come ad esempio Human Rights Watch, che ha denunciato come il presidente stia mettendo “i brasiliani in grave pericolo incoraggiandoli a non rispettare il distanziamento sociale e altre misure per rallentare la diffusione di COVID-19”.

Il Brasile ha oggi il numero più alto di casi in Sud America. Nelle ultime due settimane il conteggio è arrivato a oltre 100 mila contagiati.

A parte le misure tempestive prese da alcuni paesi, l’altra motivazione alla base della crescita relativamente lenta e bassa dei numeri del Sud America è quella che desta maggiore preoccupazione, e riguarda l’insufficiente diffusione di test per la diagnosi di COVID-19. Tatiana Bertolucci, a capo dell’organizzazione umanitaria CARE per il Sud America, ritiene che la carenza di test sia indice del fatto che l’infezione sia molto più diffusa dei dati ufficiali, e che la situazione nella regione sia peggiore di come appare.

La povertà e il rischio umanitario

In diverse aree del Sud America, a causa della forte povertà molte persone hanno difficoltà a rispettare le misure adottate dai governi. Ward su Vox ricorda che oltre il 50% della popolazione della regione lavora nell’economia informale come ambulante, musicista o altro. “Sono persone solitamente molto povere, che non possono permettersi di tenere riserve di cibo in casa – se ne hanno una – e spesso abitano insieme ad altre famiglie”. In America Latina e nei Caraibi, circa 113 milioni di persone vivono in quartieri poverissimi – barrios, favelas o villas – dove le famiglie fanno fatica ad adattarsi a lockdown o distanziamento sociale, dovendo far fronte a pressanti questioni economiche e di sopravvivenza.

In un reportage scritto a sei mani da reporter a Rio de Janeiro, Buenos Aires, La Paz, Caracas, Bogotá e Città del Messico il Guardian ha raccolto alcune testimonianze di abitanti negli agglomerati urbani più poveri delle città. Ad esempio quella di Liliana Pérez, una donna di 43 anni che vive nel quartiere di Villa Soldati, a Buenos Aires: «La mia paura non è quella di contagiarmi. La mia paura è che i miei figli abbiano fame. Le persone qui sono più preoccupate di non poter sfamare le proprio famiglie che del coronavirus». María Ticona, che vive in Bolivia con i suoi cinque bambini non ha soldi e cibo. Prima del lockdown vendeva pane per quattro dollari al giorno. «I miei figli non hanno potuto mangiare sufficientemente da quando è iniziata la quarantena».

Le testimonianze si susseguono simili da diversi paesi della regione: famiglie che vivono in 16 metri quadrati, molta gente in strada, esercizi commerciali che riaprono. Secondo Ivan França Jr, epidemiologo dell’Università di San Paolo, per far rispettare le misure di distanziamento, queste sarebbero dovute essere accompagnate da aiuti economici: «Il distanziamento sociale non può essere soltanto: ‘Non uscire di casa’. È una mentalità molto elitaria e da classe media».

Diversi governi sudamericani hanno effettivamente varato degli aiuti per i cittadini più in difficoltà, ma secondo molti non sono sufficienti e arrivano tardi.

La crescita del numero dei casi di COVID-19 potrebbe travolgere velocemente i sistemi sanitari dei paesi del Sud America – ovviamente con le dovute differenze. Molti governi, tra l’altro, stanno ancora facendo i conti con la crisi finanziaria del 2008. Sara Niedzwiecki, esperta del settore per l’Università della California, ha detto a Vox che «i letti negli ospedali, operatori sanitari e forniture mediche in generale come ad esempio i ventilatori scarseggiavano già prima dell’inizio della pandemia. Dopo l’arrivo di COVID-19, la paura che il sistema sanitario collassi è reale. La carenza di servizi sanitari è una sfida per ogni paese in Sud America». La regione, tra l’altro, si sta avvicinando alla stagione influenzale, mentre continua a combattere contro altre malattie serie come la febbre dengue.

«È una situazione molto difficile, il sistema sanitario non è chiaramente preparato per il coronavirus», ha spiegato a The Lancet Infectious Diseases Alfonso Rodríguez-Morales, dell’Associazione colombiana malattie infettive. «Abbiamo avuto un po’ di tempo extra per prepararci per l’arrivo della malattia, ma alcuni paesi faranno molta fatica».

Il disastro di Amazonas e la minaccia per gli indigeni

In Brasile lo stato di Amazonas ha uno dei tassi di infezione più alti del paese e anche uno dei sistemi sanitari meno attrezzati. Lo scorso 30 aprile il ministro della Salute brasiliano ha detto che nello stato di Amazonas c’erano stati oltre 5.200 casi di malattia da coronavirus e 425 morti. Ma, a causa dell’insufficienza di test per la diagnosi, i numeri potrebbero essere molto più alti.

La città più colpita è Manaus, la capitale, nella foresta pluviale brasiliana, dove vivono circa 2 milioni di persone, tra cui la maggiore comunità indigena del paese. È la settima città del Brasile, nonché la più isolata. Prima dell’arrivo di COVID-19 la media era di 20-35 morti al giorno. Domenica 26 aprile sono state fatte 140 sepolture, il sabato precedente 96.

«È follia, pura follia», ha raccontato al corrispondente del Guardian Tom Phillips il figlio di una donna sepolta insieme ad altre 135 bare in una fossa comune il 28 aprile. «Sono stati scaricati lì come cani. Quanto valgono le nostre vite oggi? Niente». L’uomo ritiene che la madre abbia contratto il virus dopo essere stata ricoverata in ospedale per un infarto.

Solo il mese scorso a Manaus è stato registrato un incremento del 578% dei decessi per problemi respiratori. Non si tratta di vittime ufficialmente da COVID-19, ma secondo gli esperti – sempre per la scarsità di test – la spiegazione può essere solo una. “Le autorità cittadine si aspettano di seppellire fino a 4.500 persone solo a maggio. Le aziende di pompe funebri hanno avvertito che le bare stanno finendo”, scrive Phillips. I servizi sanitari di emergenza sono in crisi, le ambulanze vagano per ore in cerca di ospedali con spazio sufficiente per accogliere i pazienti.

Katy Watson della BBC ha incontrato alcune donne a Parque das Tribos, nella periferia di Manaus, intente a cucire mascherine artigianali – le uniche che potranno indossare. «Ci sono già molte persone con sintomi all’interno della comunità. Non abbiamo dottori o infermieri qui a prendersi cura di noi», ha detto una residente. Secondo Sonia Guajajara, a capo dell’Associazione persone indigene del Brasile, «gli indigeni si sentono abbandonati. Sono esposti al contagio e alla morte perché non vengono assistiti immediatamente».

Il sindaco di Manaus Arthur Virgílio Neto, ha detto che la città è ben oltre l’emergenza. Ha accusato il presidente Bolsonaro di aver abbandonato Amazonas, e ha chiesto aiuto alla comunità internazionale. «Abbiamo bisogno di un aereo pieno di scanner, ventilatori, medicine e dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari», ha spiegato.

Secondo gli esperti, le ragioni del disastro che sta colpendo la maggiore città dello stato di Amazonas sono molteplici. La prima, scrive Phillips sul Guardian, è che l’epidemia di Coronavirus ha colpito alla fine della stagione delle piogge, quando è alta la diffusione di malattie respiratorie e gli ospedali sono già sotto stress. In secondo luogo, a Manaus il servizio sanitario è cronicamente scarsamente finanziato, poco attrezzato e con personale insufficiente, e questo anche prima che gli operatori sanitari iniziassero ad ammalarsi di COVID-19. Secondo il dottor Domício Magalhães Filho, direttore tecnico del servizio di ambulanze, «manca tutto»: ventilatori, staff medico, barelle.

In molti comunque accusano il governo di Amazonas, colpevole di non aver attuato efficacemente le misure di contenimento una volta individuati i primi contagi. Il governatore Wilson Lima ha dichiarato lo stato di emergenza e chiuso tutti i servizi non essenziali solo il 23 marzo, 10 giorni dopo la conferma del primo caso di contagio. E anche adesso, con il numero di morti in continua crescita, Phillips spiega che il distanziamento sociale non viene rispettato in alcune zone più periferiche della città, tra lunghe file fuori dalle banche e diversi residenti che si rifiutano di indossare mascherine o restare a casa. Lo stesso sindaco di Manaus ha ammesso di non essere riuscito a tenere le persone nelle loro abitazioni, ma al contempo ha accusato il presidente Bolsonaro di aver incoraggiato certi comportamenti: «Mi rattrista sapere che avremmo potuto salvare queste vite e non è stato possibile anche perché il maggiore leader brasiliano ha detto che uscire di casa non era un problema».

Ma al di là dell’atteggiamento di Bolsonaro, per gli abitanti di Amazonas vale lo stesso discorso fatto per coloro che vivono nelle favelas o in altre aree simili. Come ha spiegato Marcia Castro, demografa di Harvard specializzata in salute pubblica in Amazzonia brasiliana, non era realistico aspettarsi che le persone seguissero i consigli del ministero della salute quando il 43% dei residenti non aveva nemmeno accesso all'acqua per lavarsi le mani. La pandemia sta esasperando disuguaglianze che esistono da tantissimo tempo.

L’abbandono vissuto dalle popolazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana comprende anche quello delle organizzazioni che collaboravano con le comunità per proteggere le terre dalla pressione delle lobby che vorrebbero sfruttarne le risorse economiche e minerarie o disboscarle. Jonathan Mazower di Survival International ha spiegato che in generale molti degli agenti sul campo si sono ritirati a causa della pandemia, mentre diverse comunità si sono chiuse per la paura del contagio. Il risultato è che le invasioni di disboscatori o minatori illegali – che hanno sempre trovato supporto dal governo Bolsonaro – sono notevolmente aumentate in questo periodo. Nei primi tre mesi del 2020 la deforestazione è aumentata del 51%.

Secondo Mazower, coloro che hanno da tempo messo gli occhi su queste terre stanno sfruttando il momento, tra l’emergenza sanitaria e lo stallo del governo nell’elaborazione di un piano per proteggere queste comunità da COVID-19.

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Queste persone, oltre a depredare il terre degli indigeni, si trasformano anche nel maggiore vettore di contagio nei confronti di popolazioni che hanno vissuto isolate, e sono tra le più vulnerabili alle malattie portate dagli Europei. Carlo Zacquini, missionario italiano che ha trascorso molti anni lavorando in Amazzonia, ha detto al Guardian che in molti villaggi ad esempio «il morbillo ha ucciso il 50% della popolazione. Se Covid facesse la stessa cosa sarebbe un massacro». Simili preoccupazioni sono state espresse sin da subito dalle organizzazioni che da anni lavorano nel settore, e si sono concretizzate il 9 aprile, quando è stata resa pubblica la prima vittima di COVID-19 tra gli indigeni: un 15enne di Rehebe, un villaggio sulle sponde del fiume Urairicoera, una delle vie d’accesso usate da minatori illegali.

La paura – come denuncia una lettera al al presidente Bolsonaro del fotogiornalista brasiliano Sebastião Salgado, firmata poi da diverse personalità note - è che per le popolazioni indigene, l’epidemia di COVID-19 possa trasformarsi in un vero e proprio genocidio.

Foto in anteprima via Ansa

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